Tramonto del neoliberismo
di I DIAVOLI
La recensione
Una delle questioni più affascinati della storia delle idee è capire come una corrente minoritaria del pensiero economico, il neoliberalismo, sviluppatosi in Germania e Austria fra la prima e la seconda guerra mondiale, sia riuscita a conquistare negli ultimi decenni del XX secolo un ruolo egemone, nella vulgata degli studiosi e nelle politiche degli Stati. Tanto da giustificare l’idea di un “progetto”, o una manovra neoliberista, pervasiva al punto da determinare la vita d’ogni essere umano sul pianeta. Ma la questione di più scottante attualità è il tramonto di questa corrente insieme al suo ambizioso tentativo di dare luogo a un modello di civilizzazione alternativo e virtuoso.
Il libro
Il libro di Massimo De Carolis ha il grande merito di scandagliare in profondità – sulla scorta di altri pensatori, soprattutto il Foucault delle lezioni contenute in Nascita della biopolitica(Feltrinelli, 2005) – le origini di questa tendenza di pensiero per scovarne nella miopia teorica le cause del suo tramonto. Nel 1945 Alexander Rustow, esule a Istanbul dalla Germania nazista, pubblica su una rivista di emigrati il saggio Il tramonto del liberalismo come problema di storia delle religioni, che indica con una certa precisione i motivi della crisi di una teoria che aveva informato le politiche economiche dei Paesi occidentali fino ad allora, le sue implicazioni metafisiche e antropologiche e la necessità, da parte degli studiosi e dei governi, di adattare il liberalismo a una realtà sociale notevolmente mutata.
Gli ultimi quindici anni erano stati segnati, oltre che dal secondo conflitto planetario, dall’ascesa del totalitarismo in Europa e dalla devastante crisi dei mercati del ’29, che ebbe come risposta un sempre più forte intervento statale e la riconversione dell’economia nell’industria bellica. Come diceva Cechov: “se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”.
La causa di quest’impotenza veniva fatta risalire da Rustow a un difetto di illuminismo della teoria liberale classica, cioè la fede di ascendenza religiosa nella capacità dei mercati di autoregolarsi senza interventi dall’esterno, dando luogo a un ordine spontaneo che armonizzasse gli egoismi individuali con il benessere della società.
La soluzione proposta dal neoliberalismo nelle sue due grandi correnti, quella tedesca di Rustow e Ropke e quella austriaca di Hayek e Mises, è una profonda rielaborazione dell’idea di natura umana che fino ad allora aveva informato la civiltà occidentale.
Si trattava di reagire alla crisi della civiltà e del soggetto moderno che, prima ancora degli economisti e della politica, era stata rilevata da filosofi, artisti e scrittori. È quasi un luogo comune dire che la modernità è in crisi, ma come spesso succede, nei luoghi comuni c’è una forte dose di verità. Ciò che accomuna i pensatori più diversi fra loro, da Nietzsche a Freud, da Heidegger alla Scuola di Francoforte, è l’aver individuato nella scomparsa del fondamento e del senso del mondo la causa di quello che genialmente Freud definì il “disagio della civiltà”, il che avrebbe comportato il crollo dei valori, lo scetticismo nei confronti di dio e delle grandi narrazioni, la crisi della sovranità legittima degli Stati, e nella vita intrapsichica il «non essere più padroni a casa propria».
Il neoliberalismo affronta il problema epocale della crisi della civiltà in maniera più efficace di ogni altra teoria politica e sociale della tarda modernità. Tale problema viene individuato da De Carolis nella sempre più crescente dinamizzazione dell’ordine sociale. A partire dalla fine dell’Ottocento, infatti, i meccanismi a cui è affidata l’istituzione dell’ordine sociale si sarebbero spostati via via dalla dimensione dei “fatti”, della stabilità, della permanenza a quella della possibilità, della virtualità, della potenzialità.
Ma se la dynamis intesa come possibilità o potenza può essere considerata una caratteristica specie-specifica, dato il carattere progettuale dell’esistenza umana, solo con il pieno sviluppo della società mercantile – in seguito alla rivoluzione industriale –, l’ordine sociale e la sfera pubblica vengono a poggiare sul primato del possibile anziché sulla sua negazione: ovvero, sulla certezza e sulla stabilità.
La modernità poggiava il suo concetto di politico sul meccanismo di civilizzazione, elaborato per la prima volta da Hobbes, e che consisteva nella neutralizzazione dello stato di natura per garantire la sicurezza e il rispetto dei patti a opera di un “dio mortale” o “uomo artificiale” dotato di sovranità, cioè del potere di “decidere in stato di eccezione”, secondo la celebre definizione di Carl Schmitt.
Al contrario i neoliberali, di fronte a un mondo sempre più plurale e globale che stava esautorando la sovranità legittima degli Stati e il fondamento metafisico del potere, vedevano non nella negazione dello stato di natura, ma nel suo governo dall’interno, la risposta più adeguata alla crisi.
In altre parole, se l’interazione umana veniva concepita dal pensiero politico solo nelle due forme possibili di “coercizione” e “libertà”, i neoliberali vedevano, sulla scorta del liberalismo classico, nello scambio mercantile in regime di concorrenza il modello di ogni vero scambio civile, il cui gioco comunicativo, basato sulla ricorsività delle aspettative, andava a costituire in maniera spontanea un “ordine cosmico” garante dei patti, delle leggi e delle norme. Era però necessario, perché l’ordine spontaneo (cosmos) e l’ordine istituito (taxis) si armonizzassero, che si mettesse in atto una “politica della vita” per la quale il valore economico non si riferisse più solo all’ambito della produzione di merci ma investisse l’intero mondo-della-vita, che quindi doveva rispecchiarsi completamente nella figura della valorizzazione. Infatti è dalle convenzioni – cioè dalle aspettative convergenti per cui si stipulano i contratti – che hanno origine le norme sancite legalmente. Questo voleva dire passare dall’idea della decisione sovrana a quella della scelta che i vari soggetti compiono sul mercato per perseguire i loro fini individuali come base dell’ordine sociale. Bisognava quindi compiere una sorta di miracolo e affrontare un paradosso.
Occorreva governare politicamente ciò che di per sé è il frutto non pianificato dell’interazione spontanea dei soggetti. Al tempo stesso era necessario preservare proprio il carattere “spontaneo”, cioè la libera scelta individuale, impedendo fenomeni di cristallizzazione del potere (ri-feudalizzazione) quali monopoli, lobby, gruppi di pressione, e adeguando ogni sfera della vita e della cooperazione alla “catallassi”, cioè il libero scambio mercantile con interventi di “governance senza governo”, o di indirizzo, volti a sviluppare l’iniziativa privata e a istituire (e preservare) la “libera concorrenza” fra gli attori sociali, compreso il rapporto forza-lavoro/capitale, da cui poi deriverà l’idea che siamo tutti imprenditori di noi stessi.
Con il termine “catallassi” i neoliberali intendevano soprattutto un paradigma unico in grado di congiungere, attraverso un gioco comunicativo, la vita e il mercato, perché l’attività del mercato era per loro l’archetipo della prassi umana in generale.
Questo dimostra, sin dall’inizio, che il loro obiettivo era un nuovo congegno di civilizzazione, alternativo a quello che tradizionalmente aveva informato di sé l’Occidente, vale a dire quello basato sulla rinuncia del “diritto di tutti a tutto” come direbbe Hobbes, e il suo trasferimento nelle mani del sovrano. È significativo a questo proposito che uno dei testi teorici più importanti del neoliberalismo, L’azione umana di Von Mises, non era tanto una teoria del ciclo economico, ma una teoria dell’agire tout court che aveva caratteristiche economiche perché l’azione è sempre in un regime di scarsità.
Come detto in precedenza, è solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento, con la crisi dello stato sociale di stampo keynesiano, che il neoliberalismo – insieme al suo ambizioso progetto di civilizzazione – diventa la fonte d’ispirazione delle politiche dei maggiori Stati occidentali, in virtù della sua capacità di intercettare e farsi interprete delle emergenze di una realtà sociale dinamica, emergenze latenti nella modernità capitalistica che diventano in quella fase preponderanti e che De Carolis indica:
- nella individuazione, cioè la tendenza a trasformare il lavoro salariato in lavoro autonomo, con la conseguente atomizzazione della vita sociale;
- nella tecnicizzazione della conoscenza, il che comporta la riduzione di ogni problema, anche di ordine etico-politico in termini di strumentalità e calcolabilità;
- nella finanziarizzazione che porta al parossismo il carattere di convenzione dello scambio già intravisto molto lucidamente dal già citato Mises, con largo anticipo rispetto ai tempi di cui stiamo parlando, che nel 1949 scriveva: «i numeri applicati dagli agenti del calcolo economico non si riferiscono a quantità misurabili ma ai valori di scambio che, sulla base della reciproca intesa, ci si aspetta che saranno realizzati sul mercato del futuro».
Il neoliberalismo negli Ottanta appare quindi come il migliore modello esplicativo per tali fenomeni già in atto, ma anche il miglior modello di società (o civilizzazione), perché non solo li spiega ma li genera e ha (o pretende di avere) la capacità di governarli.
Il che si compie, con un certo effettivo successo negli anni d’oro della globalizzazione, tanto da scatenare movimenti di opposizione su scala mondiale e da indurre un acuto studioso come Toni Negri a scrivere un libro che doveva essere la sintesi epocale del neoliberismo su scala globale: Impero.
Liberalismo reale e fallimento del neoliberismo
La storia degli ultimi decenni ci porta, però, a pensare che questo tentativo sia ormai già tramontato: le ripetute crisi finanziarie, i nuovi conflitti che sempre più insanguinano il pianeta, la crescente diffusione dei populismi o più semplicemente eventi come la vittoria di Trump e del referendum sulla Brexit, miopemente ritenuti “improbabili perché in controtendenza coi mercati”, sanciscono il fallimento totale del progetto neoliberista. Il mercato mondiale non è diventato una forma più o meno surrettizia di governo mondiale.
Cioè non ha preso il posto degli Stati-nazione garantendo così la pace e la stabilità e impedendo il formarsi di fenomeni di rifeudalizzazione. Non è diventato cioè un liberalismo realizzato ma semmai un liberalismo reale. E lo stesso mercato si è rivelato un sistema molto più complesso e imprevedibile di quanto il mondo della finanza pensasse.
Ancora, il fallimento del neoliberalismo, e del suo tentativo di prevenzione delle tendenze alla rifeudalizzazione, sarebbe l’esito di una contraddittorietà interna alla teoria: la stessa governance neoliberale sarebbe spinta dalla sua logica interna a promuovere e rafforzare le tendenze che originariamente doveva contrastare.
C’è, infatti, a detta di De Carolis, un punto cieco della teoria che la rende fallace e che, alla prova dei fatti, ne ha determinato il tramonto: e cioè che qualsiasi forma di azione sociale e di libertà d’azione non può prescindere dal potere, che per la sociologia consisterebbe nella funzione comunicativa di coordinazione fra gli agenti, e che questo non abbia un carattere assoluto ma relativo (“microfisico”, direbbe Foucault).
In altri termini, si manifesterebbe istituendo “relazioni di potere” che rendono i soggetti in grado di perseguire i loro interessi.
Questa visione ingenua dell’azione sociale è la vera debolezza della teoria neoliberale, e fa sì che, come recita il titolo del libro, un’apologia della libertà individuale si sia potuta trasformare nel suo rovescio, cioè nel non regolamentato esercizio del potere, e quindi nella rifeudalizzazione dei rapporti sociali e nella crescente privatizzazione della politica, ergo: del deperimento della democrazia e della riaffermazione della legge del più forte. Ma questo punto cieco della teoria neoliberale, cioè una visione ingenua dell’azione sociale che ignora l’esistenza e la necessità intrinseca delle relazioni di potere, ne ha effettivamente comportato il tramonto?
All’apparenza sì, rispetto almeno alla buona fede delle intenzioni dei teorici neoliberali, il cui più grande nemico era lo Stato in qualsiasi accezione – alcune dichiarazioni contro lo stato di Hayek, in un diverso contesto potrebbero essere attribuibili a Bakunin o Proudhon – e il suo interventismo: la quantità di guerre attualmente in corso fra fazioni che si fanno Stato (l’esempio più clamoroso è quello dell’ISIS) e fra Stati stessi, è la dimostrazione lampante di come il modello sia fallito.
C’è però da chiedersi se, malgrado il suo tramonto, il neoliberismo non svolga perfettamente la sua funzione di velo ideologico. De Carolis sostiene che il sistema di valori generato dal mercato svela l’ordine cosmico e lo esprime in forma immediata.
Ciò significa rendere impossibile pensare un’alternativa, perché la società così com’è non è modificabile, esattamente come non sono modificabili i fenomeni della natura. È come dire che se le ragioni originarie del neoliberalismo sono venute meno – tra tutte: l’armonia della catallassi come base del congegno di civilizzazione –, allora il suo armamentario retorico e le sue strategie di governance sopravvivono in quanto presenze spettrali, a disposizione di gruppi di potere il cui sviluppo è stato favorito dalle politiche neoliberali.
C’è un altro fattore, di carattere teoretico, che ha probabilmente determinato il tramonto del neoliberalismo. E cioè il fatto che se da un lato esso ha intercettato meglio di altri modelli esplicativi la crescente e vertiginosa dynamis della società, intesa come perpetuo mutamento, non ne ha però intercettato l’altrettanto crescente e vertiginosa complessità della sua composizione.
Sembrerebbe, cioè, che l’ambizione di governare la complessità non abbia avuto gli strumenti teorici adeguati perché ai teorici neoliberali mancava un’adeguata prospettiva sistemica. Il loro era il punto di vista dei singoli con i loro interessi personali che solo l’interazione spontanea nella sfera mercantile rende socievoli: una delle accezioni che Hyaek dà al termine catallassi è «diventare amici da nemici» perché, come disse Margaret Thatcher, «non esiste la società, esistono solo gli individui». Eppure la teoria dei sistemi sostiene che un sistema si dice complesso quando non si può collegare ogni suo elemento con un altro elemento qualsiasi. Inoltre, nei sistemi complessi, i comportamenti emergenti che l’interazione fra le varie parti fanno nascere impedirebbero la prevedibilità dello stato del sistema preso nella sua interezza e, già il fatto di considerare gli agenti sociali come individui isolati, costituisce un errore di prospettiva, perché l’uomo non sarebbe più il metro di misura di una società atomizzata e priva di centro.
In sintesi, la società fin dagli albori della modernità è stata contrassegnata da una crescente individuazione e differenziazione.
L’ambizione del neoliberalismo è stata governarla intervenendo perché queste tendenze si sviluppassero sempre di più, nell’illusione, forse, di poter controllare meglio l’esito di processi “spontanei”, ma provocati intenzionalmente. In maniera simile il creatore del Golem di Praga non riesce a controllare la creatura che ha fatto nascere con arti magiche e, ancora con la teoria freudiana del disagio della civiltà, la maniera che i cabalisti avevano per debellare i golem era cambiare la scritta impressa sulla loro fronte da “verità” a “morto”.
Il tramonto del neoliberalismo non ha alleviato il disagio dovuto alla rinuncia pulsionale e la nostra civiltà sembra sempre più dominata dalla pulsione di morte.
Il libro: Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, 2017, pp. 304
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