L’ennesima critica nei confronti dei sindacati e, di converso, l’assenza totale di critica nei confronti del mondo imprenditoriale da parte dei leader politici italiani è una implicita, ma ferma presa di posizione nel merito del conflitto storico che vede contrapposti lavoro e capitale. Così come Renzi[1], come Salvini[2], come Berlusconi[3], ora anche Luigi Di Maio[4] “palesa” le opinioni del Movimento 5 Stelle in questo ambito.

Tutti i principali leader politici italiani, quindi, che si battono sulle questioni etiche e morali nella convinzione, ciascuno di essi, di avere l’etica e la morale dalla propria, si schierano dalla stessa parte nell’ambito della relazione che ha condizionato buona parte della politica e dello scontro politico nel corso del Novecento. Stare dalla parte del datore di lavoro o non mettere mai in discussione l’operato dello stesso e delle sue rappresentanze e, in contemporanea, attaccare e delegittimare il sindacato significa soprattutto “sedare”, “edulcorare”, o addirittura “annullare” e “negare” la conflittualità insita nel dualismo lavoro – capitale.

Che sia chiaro, non che le associazioni sindacali italiane non abbiano i loro difetti, punti deboli o non commettano errori. L’attuale condizione di scarso consenso riscontrabile nel fortissimo calo delle iscrizioni, soprattutto da parte delle nuove generazioni è un segnale che dovrebbe far preoccupare i vertici di tali organizzazioni, pena la sempre minore rilevanza sul piano politico-contrattuale. Ciò che si contesta non è tanto il merito delle critiche avanzate dagli esponenti politici dunque, ma il metodo, ovvero l’abitudine di puntare il dito solo contro le rappresentanze dei lavoratori.

Se il Movimento 5 Stelle, al suo esordio, aveva colto bene la sostanziale omogeneità della politica italiana, il suo appiattimento sulle stesse posizioni, specie economiche, con le divergenze che riguardavano solo le questioni dell’immigrazione, anch’esso finisce ormai per “perdersi” dietro la questione dei rimborsi elettorali, così come la sinistra si è persa e si è “dissolta” nei diritti civili, per adeguarsi alla tendenza liberista dominate degli ultimi decenni.

Non a caso l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti ha trovato tutti d’accordo e la pressoché totale dipendenza dai finanziamenti privati, lungi da avere una regolamentazione “seria”, ha come conseguenza una forte dipendenza della politica attuale italiana dalle lobby private, specie dalle grandi aziende multinazionali, e del loro potere economico, principali attori della globalizzazione.

“Sono tutti uguali” si potrebbe continuare a dire dunque, anche con l’ingresso dei pentastellati, mentre chi pone la questione in modo differente, dal lato dei sindacati e dei lavoratori e accenna una critica nei confronti del mondo imprenditoriale, ha le idee non così chiare ed organizzate e paga in termini elettorali una condizione minoritaria che sembra non trovare fine. Si veda “a sinistra” di Renzi l’atomizzazione delle idee e dell’offerta politica.

Ma è davvero così marginale il conflitto lavoro capitale oggi? È davvero “marginalizzabile” il ruolo dei sindacati? È poi così naturale che la politica non abbia più il ruolo di mediatore istituzionale tra le parti sociali e si presti, puntualmente e metodicamente, ad attaccare la sola fazione sindacale, per definizione quella più debole?

Il conflitto storico tra lavoro e capitale si è risolto, negli ultimi decenni, sempre più a favore del profitto e quindi del capitale, con evidenza.
Successivamente all’approvazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970, punto di arrivo di un’intensa stagione di  lotta politica, i sindacati e gli interessi dei lavoratori sono stati progressivamente estromessi dalla disputa democratica, anche attraverso un consenso diffuso nel Paese, ed è stato come se, d’improvviso, gli interessi del capitale, quindi quelli del mondo imprenditoriale, potessero essere gli interessi di tutti, lavoratori compresi.

Le tangibili conseguenze sono:

  • I redditi da lavoro delle nuove generazioni sono ai minimi storici, di circa il 36% inferiori rispetto a quelli delle generazioni precedenti[5] e le stesse generazioni vivono una condizione di difficoltà economica oramai conclamata[6]. Decisiva, per il congelamento dei salari, fu l’abolizione del meccanismo della Scala Mobile nel luglio del ‘92[7].
  • Le riforme del mercato del lavoro del nuovo millennio hanno tutte mirato a deregolamentare fortemente il mercato del lavoro (Pacchetto Treu, Legge Biagi, Job Act) creando una platea di lavoratori atipici (tutti coloro che non hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato) che in alcuni casi serve a far entrare o rientrare nel mondo del lavoro e funziona come “anticamera” del contratto a tempo indeterminato, mentre in altri casi provoca semplicemente una condizione di precarietà e sfruttamento duratura[8].
  • la direzione delle politiche dei Governi occidentali degli ultimi decenni, volte a globalizzare le economie e di conseguenza le società, attraverso la liberalizzazione degli scambi di beni, servizi, capitali e persone, sostanzialmente anche al fine di evitare l’ostacolo” politico dei sindacati dei lavoratori e dei diritti acquisiti.
    Non è mai stato così facile come al giorno d’oggi spostare una produzione industriale dalla benestante Europa occidentale ad un Paese qualsiasi del Secondo o Terzo Mondo, ponendo i lavoratori occidentali di fronte al ricatto tra diritti e posto di lavoro.
    L’Unione Europea attuale è il risultato di tale direzione e primo “attore” del processo di globalizzazione nel Vecchio Continente e fuori (si vedano Trattati Europei, TTIP e CETA).
    In ambito del lavoro, non solo l’UE unisce Paesi con enormi differenze in termini di legislazione, livelli di welfare e costo del lavoro, ma, nel caso della Direttiva sui posted workers[9], consente addirittura la possibilità di applicare la legislazione del Paese europeo di origine, anche se peggiorativa sul piano dei diritti e delle tutele, ai lavoratori “inviati” a prestare la propria opera fuori dal territorio nazionale di appartenenza, avviando e autorizzando un vero e proprio meccanismo di concorrenza al ribasso nel mercato del lavoro intra UE;
  • la disapplicazione delle norme supreme che regolano la legislazione italiana in ambito lavoristico, ovvero la disapplicazione dei principi fondamentali della Nostra Carta costituzionale (artt. 1 e 4, per non aprire un capitolo a parte) e delle sue indicazioni in ambito economico (artt. 35, 38, 41) e soprattutto della disciplina dell’art. 36.
    In particolare al primo comma l’art. 36 si stabilisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”;
  • la scomparsa della classe media e la sempre maggiore distanza economica in Italia tra chi è ricco e chi si trova in condizioni di indigenza, complice principale la stagnazione dei salari. Uno dei principali modi per ridistribuire ricchezza, in una data realtà sociale, è infatti il reddito da lavoro se si pensa che rispetto alla popolazione italiana gli occupati sono circa 22 milioni, dei quali circa 17 milioni lavorano alle dipendenze di un datore di lavoro[10]. L’aumento del reddito da lavoro dipendente determina poi l’aumento del reddito anche dei parasubordinati e degli autonomi.

C’è uno spazio politico da riempire dunque, che continua ad esser vuoto da tanto, troppo tempo e che necessita di una valida offerta che possa intercettare tutti gli elettori che si astengono, che non seguono più la politica o che pur votando non si sentono rappresentati dall’attuale sistema adagiato sulle medesime risposte economiche alla crisi. Tale spazio politico ha già i suoi contenuti, le sue esigenze, che non sono altro che più salario, lavoro e diritti, se non altro semplicemente in ossequio alla legge Sovrana del nostro ordinamento giuridico, la Costituzione, ma tali istanze necessitano di risposte forti e decise dal punto di vista politico ed economico soprattutto nei confronti dell’attuale Unione Europea e dei suoi dogmi.