La vicenda Honeywell dimostra che siamo in guerra: la globalizzazione non è un processo inevitabile e questo non è un paese per pusillanimi
di GIANLUCA BALDINI (FSI Pescara)
La Honeywell annuncia la chiusura dello stabilimento di Atessa, lasciando a casa 420 lavoratori. Dopo due mesi di sciopero, tavoli di concertazione con MISE e sindacati e promesse di investimenti pubblici finalizzati alla permanenza in loco, l’azienda annuncia la decisione definitiva.
Siamo in guerra. La deindustrializzazione del paese, rebus sic stantibus, è un processo inevitabile al quale stiamo assistendo impotenti, con sindacati e politica che utilizzano le armi spuntate degli incentivi.
Se non ripristiniamo forti limitazioni alla circolazione di capitali, merci, servizi e persone, piano piano andranno via tutti. Le imprese delocalizzano nei paesi dell’est Europa e nei paesi balcanici extracomunitari, che fanno dumping fiscale e sociale.
Non si può competere con chi ha un costo del lavoro basso come l’Albania (un operaio costa all’impresa 250 euro al mese) o un regime fiscale come la Bulgaria (flat tax al 10%). Abbassare il costo del lavoro o le tasse per cercare di competere con i paesi più poveri vuol dire impoverire la popolazione e distruggere lo Stato sociale, cioè condannare un paese al regresso economico e sociale.
Le nostre Camere di Commercio si stanno facendo addirittura promotrici di questo processo di spopolamento industriale del paese, organizzando viaggi finalizzati a sondare le nuove mete di lavoro low-cost.
L’unico modo per salvarci è ripristinare un regime che impedisca alle imprese di delocalizzare, rendendo i costi della delocalizzazione insostenibili. E rinazionalizzare le grandi imprese operanti nei settori strategici, quelle che sono state svendute ai privati, per conservare il know-how, per difendere la posizione nei settori ad alto contenuto tecnologico e di interesse nazionale (difesa, energia, industria pesante, chimico-farmaceutico).
La soluzione passa inevitabilmente per il recesso dall’Unione europea e per il rifiuto della logica globalizzatrice consacrata nei suoi trattati, presupposto imprescindibile per tornare ad attuare il modello delineato dalla nostra Costituzione del ’48.
La globalizzazione non è un processo inevitabile. Chi pensa che lo sia, chi crede nell’ineluttabilità del fato e nella fine della storia, dovrà abituarsi all’idea che i propri figli debbano trasferirsi nei paesi in via di sviluppo per trovare un lavoro. E allora abbia la decenza di tacere, chiunque esso sia, visto che sta rinunciando a lottare per salvare il presente e per il futuro delle nuove generazioni. Siamo in guerra e questo non è un paese per pusillanimi.
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