Guerra jugoslava, cronache di una catastrofe preparata a tavolino
di CRITICA SCIENTIFICA (Giacomo Gabellini)
Le recenti condanne decretate del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja contro il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic e il generale croato Slobodan Praljak (suicidatosi al momento della sentenza ingurgitando una dose di veleno) hanno riportato al centro dell’attenzione il conflitto jugoslavo protrattosi per la prima metà degli anni ’90. Si tratta guerra assai poco compresa dagli europei, su cui vale la pena di accendere i riflettori in maniera meno interessata e politicamente corretta di quanto si sia fatto finora.
La Jugoslavia multietnica edificata dal Maresciallo Tito era riuscita a capitalizzare importanti successi economici e sociali, tra i quali spiccano la crescita del Pil a una media superiore al 6% annuo nell’arco temporale che va dal 1960 al 1980, l’assistenza medica gratuita e un tasso di alfabetizzazione che si attestava attorno al 90%. Il progressivo sgretolamento dell’Unione Sovietica che aveva cominciato a manifestarsi a partire dal 1985 (anno dell’ascesa al potere di Mikheil Gorbačëv) stava cominciando a scompaginare gli equilibri geopolitici fondati sulla logica dipolare stabilita a Jalta quarant’anni prima e, di conseguenza, a ridisegnare il panorama europeo. Il venir meno della “cortina di ferro” avrebbe inesorabilmente privato la Jugoslavia della funzione fondamentale di Paese cuscinetto svolta durante la Guerra Fredda, ritrasformando i Balcani nella scacchiera sulla quale le grandi potenze avevano ininterrottamente mosso le proprie pedine nei secoli precedenti. Dal punto di vista degli Stati Uniti, la cosiddetta diagonale “ortodossa” Mosca-Belgrado rappresentava la principale direttrice attraverso la quale la Russia, alla perenne ricerca dell’accesso diretto ai mari caldi, aveva modo di esercitare la propria influenza sull’Europa. Washington decise quindi di approfittare della propria posizione di forza, dovuta anche alla profonda crisi che stava attraversando l’Unione Sovietica, per scardinare e ristrutturare in conformità ai propri interessi strategici gli assetti geopolitici della Jugoslavia. La leva che gli Usa individuarono per perseguire i propri obiettivi fu quella economica, che prevedeva di sottoporre la Jugoslavia alle cure “globalizzanti” della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) così da allinearla ai dettami del “Washington consensus”.
La prima mossa varata in questo senso dall’amministrazione Reagan fu quella di emanare due direttive per la sicurezza nazionale che inquadravano come obiettivo strategico l’integrazione della Federazione Jugoslava nella Comunità Europea e l’apertura del Paese all’economia capitalista, indicando i metodi operativi attraverso cui promuovere questa “transizione”. Nel 1989 il presidente George Bush sr., succeduto l’anno prima a Reagan, convocò il primo ministro jugoslavo Ante Marković, per costringerlo a smantellare l’assetto politico ed economico vigente in favore di un sistema democratico fondato sull’economia di mercato, pena l’estromissione della Jugoslavia dal circuito finanziario della Banca Mondiale e del Fmi. Una volta ottenuto l’assenso di Belgrado, il Fmi erogò un prestito necessario a finanziare la conversione economica della Jugoslavia, da attuare mediante l’implementazione di un rigido programma di austerità, comprensivo di una drastica contrazione dei salari ai lavoratori e dei sussidi alle industrie, di un poderoso taglio dei dipendenti pubblici, della privatizzazione delle aziende statali e della svalutazione della moneta. Nell’arco del primo semestre del 1990 si intravidero i primi risultati della shock therapy, con un aumento esorbitante dell’inflazione e un crollo dei salari pari al 41%. Nei nove mesi che vanno dal gennaio al settembre 1990, la ricetta applicata dal Fmi fece sì che ben 889 aziende venissero sottoposte a procedure fallimentari e oltre 500.000 lavoratori perdessero la propria occupazione. Con la Banca Centrale jugoslava commissariata dal Fmi, lo Stato fu inoltre privato della facoltà finanziare i programmi economici e d’intervento sociale. Le entrate fiscali che sarebbero dovute essere trasferite alle varie repubbliche e province autonome furono invece impiegate per onorare il debito estero precedentemente contratto, come imposto dalla Banca Mondiale. Come scrive in proposito il professor Michel Chossudovsky, «con un solo colpo i riformatori avevano preparato il crollo finale della struttura fiscale federale della Jugoslavia e ferito mortalmente le sue istituzioni politiche federali. Tagliando le arterie finanziarie tra Belgrado e le repubbliche, le riforme alimentarono tendenze secessioniste basate sia su fattori economici sia su divisioni etniche, creando una situazione di “secessione de facto” delle repubbliche».
La Serbia si oppose frontalmente al piano di austerità targato Fmi e oltre 600.000 lavoratori serbi scioperarono contro il governo federale per protestare contro la riduzione dei salari. Tanto il leader serbo Slobodan Milošević quanto quello croato Franjo Tuđman si unirono ai lavoratori serbi per opporsi ai tentativi di Marković volti ad imporre le riforme raccomandate dal Fondo Monetario Internazionale. A riversare ulteriore benzina sul focolaio jugoslavo, riattizzato ad arte dalla “terapia d’urto” elaborata da Banca Mondiale e Fmi, intervenne direttamente il Congresso, che il 5 novembre 1990 approvò una legge proposta dal senatore Bob Dole, la quale prevedeva la sospensione degli aiuti economici alla Jugoslavia e vincolava la riattivazione del flusso dei finanziamenti all’organizzazione di elezioni multipartitiche da tenere separatamente in ogni repubblica membra della federazione. La normativa contemplava anche, tra le altre cose, di sostenere economicamente i movimenti secessionisti che miravano alla separazione del Paese su basi etniche. Come era ampiamente prevedibile, le elezioni videro le frange secessioniste sovrastare i comunisti in Croazia, Bosnia e Slovenia. «Come il collasso economico stimolò la deriva verso la separazione – scrive ancora Chossudovsky – a sua volta la separazione esacerbò la crisi economica. La cooperazione tra le repubbliche di fatto cessò, e con le repubbliche che si azzannavano a vicenda, l’economia e la nazione stessa entrarono in una spirale viziosa che puntava irrimediabilmente verso il basso». Il pericoloso “avvitamento” descritto da Chossudovsky era inesorabilmente destinato a sfociare in un’escalation di violenza in nome del diritto di autodeterminazione dei popoli, consacrato nel 1918 dal presidente Usa Woodrow Wilson e tornato in voga in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica. Il primo atto della tragedia jugoslava coincise con l’adozione, nel luglio del 1990, di una nuova Costituzione da parte del Parlamento locale del Kosovo, che conferiva alla regione il rango di Repubblica e riconosceva alla minoranza albanese i diritti di una nazione autonoma. L’atto venne percepito dai nazionalisti serbi come un affronto, visto che l’anno precedente, in occasione del seicentesimo anniversario della battaglia di Kosovo Polje (combattuta nel 1389 tra serbi e ottomani e risultata decisiva per la formazione della coscienza collettiva del popolo serbo), il presidente Miloševič aveva pronunciato un discorso in cui si ribadiva l’inviolabilità dei confini e l’integrità statale, nazionale e spirituale jugoslava di fronte a circa un milione di persone che erano convenute alla “Piana dei Merli” (questo è il significato di Kosovo Polje) per ascoltarlo. Le autorità di Belgrado decisero quindi di sciogliere il Parlamento kosovaro per assumere direttamente le redini della regione, innescando così quel pericoloso meccanismo disgregativo che si intendeva prevenire.
Il 22 dicembre 1990, il parlamento croato proclamò unilateralmente l’indipendenza e promulgò una nuova Costituzione tutta incentrata sul principio fondamentale, prego di richiami alla celeberrima Dottrina Monroe, della “Croazia ai croati”. Nell’ottobre del 1991 il governo guidato dal presidente Franjo Tuđman decretò l’espulsione di circa 30.000 serbi dalla Slavonia e dalla Krajina, mentre la Guardia Nazionale Croata occupava Vukovar. L’esercito federale cinse d’assedio la città prima di procedere all’attacco, infliggendo pesanti perdite agli assediati che vennero costretti alla resa. Nel frattempo, la Macedonia otteneva l’indipendenza (17 settembre 1991) grazie ad un accordo stipulato tra il primo ministro Kiro Gligorov e il presidente della Federazione Jugoslava Slobodan Milošević, mentre la Slovenia decise di ispirarsi all’esperienza croata per proclamare a sua volta (25 giugno 1991), l’indipendenza da Belgrado sulla medesima base etnica. A differenza di quanto accaduto in Croazia, il piccolo esercito sloveno riuscì a tener brillantemente testa alle milizie federali, provocando pesanti perdite. Le secessioni proclamate unilateralmente da Croazia e Slovenia e il successo ottenuto da quest’ultima nel conflitto contro le truppe inviate dal governo di Belgrado non potevano che alimentare le spinte centrifughe interne alla Jugoslavia, favorendo implicitamente l’estensione a macchia d’olio della guerra civile.
Di fronte all’acuirsi della crisi balcanica, l’Europa di Maastricht si spaccò. Il 23 dicembre 1991 la Germania, che nutriva corposi interessi economici in Croazia, riconobbe l’indipendenza dei governi di Zagabria e Lubiana, in aperta violazione del principio, stabilito da una commissione presieduta dal celebre giurista francese Robert Badinter, che imponeva il non riconoscimento degli Stati proclamatisi indipendenti in maniera violenta, unilaterale e (soprattutto) su basi etniche. La mossa non destò eccessivo stupore, visto e considerato che, nel 1988, una delegazione governativa formata dal cancelliere Helmut Kohl, dal ministro degli Esteri Hans Dietrich Genscher e da una serie di alti funzionari aveva incontrato sia Franjo Tuđman che il presidente sloveno Milan Kučan per coordinare una linea operativa – sostenuta finanziariamente dalla Germania – votata allo smembramento della Jugoslavia e alla contestuale creazione di una serie di Stati indipendenti nei confronti dei quali dispiegare la penetrazione economica tedesca. Già negli anni ’30, la Germania è aveva cercato insistentemente di ricavare il proprio lebensraum (spazio vitale) attraverso una drang nach osten (spinta verso est) dalla forte connotazione economica. L’obiettivo era quello di creare «un blocco economico autosufficiente che corra da Bordeaux a Odessa, lungo la spina dorsale d’Europa» in cui l’apparato produttivo tedesco avrebbe avuto modo di realizzare la propria “penetrazione pacifica”. A elaborare tale visione era stato nientemeno che Carl Duisberg, direttore della Ig Farben nonché membro di primissimo piano del Mitteleuropaeischen Wirthschaftstag (Mtw), un centro studi di cui facevano parte, tra gli altri, anche i rampolli della famiglia Krupp (grandi produttori d’acciaio), i proprietari delle società carbonifere della Ruhr, gli junker della Prussia orientale, il direttore della Dresdner Bank Carl Götz e il leader della Deutsche Bank Hermann Abs. Si tratta del gotha della finanza e della grande industria tedesca che finanziò generosamente l’ascesa al potere di Hitler. A partire dagli anni ’80, la Germania ha deciso di rilanciare il vecchio progetto concepito dal Mtw, attrezzandosi per costruire nel cuore dell’Europa un enorme blocco manifatturiero integrato da includere in una rete produttiva a maglie strettissime. Si trattava, in altre parole, di far gravitare le aree produttive dei Paesi limitrofi – a basso impatto salariale e a cambi depressi (l’introduzione dell’euro è stata, sotto questo aspetto, la ciliegina sulla torta) – attorno all’hub industriale tedesco, rifornendolo della componentistica dal basso valore aggiunto. Per imporre il disegno tedesco all’area balcanica, occorreva in primo luogo approfittare del disimpegno forzato dell’Urss, sconvolta da un marasma politico, economico e sociale senza precedenti, per implementare una strategia diplomatica finalizzata allo smantellamento dell’assetto statale jugoslavo attraverso l’appoggio alle frange secessioniste locali.
Nell’immediato, la conseguenza fu i serbi di Croazia proclamarono unilateralmente la nascita della Repubblica Serba di Krajina (24 dicembre) richiamandosi al medesimo diritto di autodeterminazione dei popoli precedentemente accolto dalla Germania nei confronti dei croati. La situazione di caos venutasi a creare (anche) a causa dell’atteggiamento tedesco andò rapidamente aggravandosi per effetto dell’intervento del Vaticano, che decise di legittimare le rivendicazioni indipendentiste avanzate dalle cattoliche Slovenia e Croazia al duplice scopo di assestare un colpo micidiale all’odiato regime di ispirazione comunista e porre le basi per il ritorno alla Chiesa dei beni ecclesiastici che erano stati nazionalizzati dalla Jugoslavia subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il 15 gennaio del 1992, Slovenia e Croazia ottennero il riconoscimento da parte tutti i Paesi firmatari del Trattato di Maastricht.
L’onda d’urto provocata dalla catena di riconoscimenti finì per propagarsi sulla Bosnia-Erzegovina (sintesi micropolitica delle tensioni interne all’intera Federazione Jugoslava), specialmente in seguito all’intensificarsi degli scontri tra forze musulmane e miliziani irregolari (non bosniaci) della Guardia Volontaria Serba comandata da Želijko Ražnatović (meglio noto come Arkan) e, soprattutto, alle continue sollecitazioni del Gran Mutì Mustafa Cerić – il quale vedeva con orrore i matrimoni misti tra serbi e musulmani, ritenendo che spezzassero l’omogeneità del gruppo etnico – e del presidente musulmano Alija Izetbegović. Izetbegović era a capo del movimento Stranka Demokratske Akcije (Sda), inserito dalle autorità titine nel novero delle organizzazioni terroristiche per via del suo carattere eversivo – finalizzato alla creazione di una Bosnia musulmana edificata sui principi politico-religiosi ispirati all’integralismo pan-islamista – e per i suoi collegamenti con Iran e Sudan. Dopo la morte di Tito, Izetbegović ristrutturò l’Sda attuando una serie di purghe interne, servendosi delle moschee come centri di reclutamento per guerriglieri e allacciando rapporti con la formazione mafiosa paramilitare comandata da Jusuf Prazina e con lo psicopatico Mušan Topalović (meglio noto come Caco), nonché con il Vevak (intelligence iraniana), con il Gruppo Islamico Armato (Gia) algerino, con Hezbollah, con l’Arabia Saudita, con la Turchia e con le forze legate ad al-Qaeda beneficiando del “lavoro sporco” svolto da Ong e istituti bancari di copertura. All’interno del proprio manifesto politico, Izetbegović aveva apertamente dichiarato di auspicare «la creazione di una grande federazione islamica dal Marocco all’Indonesia, dall’Africa nera all’Asia centrale», sostenendo che «non ci può essere pace o coesistenza tra la fede dell’Islam e la fede e le istituzioni non islamiche».
Ispirandosi a ideali del genere e potendo contare sui numerosi alleati internazionali in grado di mettere a sua disposizione guerriglieri e armamenti (i musulmani e i croati disponevano, grazie agli aiuti concessi in primis dagli Stati Uniti, di molte più armi rispetto ai serbi), Izetbegović si erse a guida del Jihad bosniaco e organizzò un referendum per l’indipendenza bosniaca nel febbraio del 1992, malgrado ciò violasse palesemente la Costituzione nazionale in quanto proclamato in assenza di qualsiasi consultazione preliminare con tutte le componenti etniche. Al referendum parteciparono soltanto le componenti croate e musulmane, che decretarono la secessione. I serbi della Bosnia-Erzegovina emularono tale atteggiamento in riferimento alla Republika Srpska, conformemente alle direttive politiche proclamate dal nazionalista Radovan Karadžić. L’acuirsi della tensione spinse la Comunità Europea ad indire, il 18 marzo del 1992, la Conferenza di Lisbona, nel corso della quale le parti in causa sottoscrissero il piano Cutileiro, che prevedeva di cantonalizzare la Bosnia-Erzegovina. Le delegazioni croata e musulmana, di ritorno da un misterioso viaggio negli Stati Uniti dove erano state invitate dall’ex ambasciatore a Belgrado Warren Zimmerman, decisero di rovesciare gli accordi ripudiando il piano appena firmato. Il 6 aprile 1992 Stati Uniti e Comunità Europea riconobbero l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina, innescando una tremenda spirale di violenza. Il giorno seguente Radovan Karadžić, forte dell’appoggio dei serbi di Bosnia-Erzegovina e del governo di Belgrado, proclamò l’indipendenza della Repubblica Serba di Bosnia. La guerra civile iniziava così a spargersi a macchia d’olio. I musulmani assaltarono le roccaforti federali, mentre l’esercito regolare di Belgrado cingeva d’assedio Sarajevo. Mostar venne a sua volta cinta d’assedio dall’esercito federale, mentre croati e musulmani creavano il Consiglio di Difesa Croato per contrastare le milizie governative, riforniti di armi ed equipaggiamenti dall’alleata Germania. Il 27 maggio 1992, pochi giorni dopo l’ingresso nell’Onu di Croazia e Slovenia, si verificò la cosiddetta “strage del pane”, nel corso della quale numerosi civili in attesa di ricevere la loro razione alimentare giornaliera vennero bersagliati da un colpo di mortaio. L’eccidio fu istantaneamente attribuito ai serbo-bosniaci nonostante fossero state rinvenute numerose prove e testimonianze a carico di alcune frange appartenenti al fondamentalismo islamico. Il governo di Belgrado venne riconosciuto colpevole di aver commissionato la strage e il Consiglio di Sicurezza, come ritorsione, approvò la Risoluzione 757, che imponeva l’applicazione dell’embargo alla Jugoslavia.
Il 2 luglio del 1992 i croato-bosniaci proclamarono la Hrvatska Republika Herceg-Bosna disseppellendo l’antico vessillo della Šahovnica (scacchiera) Ustaša in memoria del filo-nazista Ante Pavelić. Verso la fine del 1992, gli Stati Uniti presero a sostenere finanziariamente e politicamente il candidato Milan Panić (facoltoso uomo d’affari statunitense d’origini serbe) contro Slobodan Milošević, ma l’inaspettata riconferma elettorale di quest’ultimo scompaginò i loro piani. Mentre l’inflazione jugoslava, dovuta in larghissima parte all’embargo, cresceva alle stelle, il fronte croato-musulmano del Consiglio di Difesa Croato si spaccò in due fazioni interessate entrambe ad assumere il controllo di Mostar. Nell’arco del biennio 1992-1994 i combattimenti provocarono vittime in entrambi gli schieramenti finché i croati non ottennero l’appoggio diretto di Tuđman , a beneficio del quale iniziarono ad affluire ulteriori rifornimenti bellici dalla Germania. Una volta conquistata la soverchiante superiorità militare, le milizie croate si abbandonarono a numerose stragi a danno della popolazione musulmana, senza che né il loro comandante Milivoj Petković né il presidente della Hrvatska Republika Herceg-Bosna Mate Boban né il primo ministro croato Franjo Tuđman venissero successivamente chiamati a rispondere degli eccidi. La cosa non deve stupire, dal momento che la giustizia a geometria variabile rappresenta la funzione essenziale del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, vero e proprio strumento giudiziario per legittimare la politica estera degli Usa (al quale non aderiscono, pur avendolo finanziato e appoggiato politicamente). Al riguardo, lo studioso Fabio Falchi tiene a porre particolare enfasi sulle «assoluzioni del noto “thug” bosgnacco Naser Orić e, il 16 novembre 2012, di due ex generali croati, Ante Gotovina e Mladen Markac, responsabili dell’uccisione di 324 civili e dell’espulsione di oltre 90.000 persone, azioni che secondo i giudici dell’Aia furono “legittimi atti di guerra”. Queste sentenze hanno suscitato scandalo, ma in realtà erano “politicamente corrette”, anche perché la Croazia sarebbe dovuta entrare nella Ue il 1° luglio del 2013. Riguardo al Tribunale penale internazionale dell’Aia per la ex Iugoslavia sono da ricordare le assoluzioni del noto “thug” bosgnacco Naser Orić e, il 16 novembre 2012, di due ex generali croati, Ante Gotovina e Mladen Markač, responsabili dell’uccisione di 324 civili e dell’espulsione di oltre 90.000 persone, azioni che secondo i giudici dell’Aja furono “legittimi atti di guerra”. Queste sentenze hanno suscitato scandalo, ma in realtà erano “politicamente corrette”, anche perché la Croazia sarebbe dovuta entrare nell’Unione Europea il 1° luglio del 2013».
Fatto sta che il vortice di violenza innescatosi con l’intensificarsi degli scontri tra serbi e croati finì per travolgere l’anacronistico piano Vance-Owen presentato nel gennaio del 1993 a Ginevra, spingendo le Nazioni Unite ad intervenire direttamente nel conflitto. Il 21 febbraio del 1992 era stata approvata dal Consiglio di Sicurezza la risoluzione 743 in base alla quale era stato istituito il contingente Unprofor, un corpo militare composto da 40.000 uomini provenienti da ben 39 Paesi incaricato di interporsi tra le varie fazioni in lotta. Tuttavia, i nodi relativi all’organizzazione, al coordinamento sul campo, alle regole di ingaggio e all’equipaggiamento vennero ben presto al pettine, palesando la colossale inadeguatezza della missione Onu; un’inadeguatezza di cui, alla prova dei fatti, gli Stati Uniti si servirono ancora una volta (dopo aver fatto altrettanto in relazione a Somalia e Ruanda) per richiamare l’attenzione generale sulla necessità di un intervento diretto della Nato. Ancora una volta, un’ulteriore strage, quella di della Piazza Markale del 5 febbraio 1994, venne immediatamente attribuita ai serbi, nonostante la presenza di numerosi indizi a carico della componente musulmana. Il successivo 6 giugno, il delegato speciale dell’Onu per la Bosnia Jasushi Akashi rivelò alla «Deutsche Presse Agentur» l’esistenza di un rapporto, redatto da alcuni funzionari incaricati dalle Nazioni Unite di indagare sull’accaduto e puntualmente insabbiato dal segretario generale Butrous Ghali, contenente una miriade di prove schiaccianti a carico delle milizie musulmane. Qualche settimana dopo, ad Akashi venne revocato l’incarico. Tutte le false, arbitrarie e tendenziose ricostruzioni operate nel corso della guerra concorsero, in definitiva, a dimostrare la totale mancanza di scrupoli dei leader serbi e la crudeltà dei loro sottoposti. Come rileva l’analista belga Michel Collon: «il 27 maggio 1992 una bomba uccide almeno sedici persone che facevano la coda davanti a una panetteria a Sarajevo; un centinaio i feriti. Subito vengono accusati gli assedianti serbi. Il Consiglio di Sicurezza Onu decreta sanzioni economiche contro quel che rimane della Jugoslavia, ovvero Serbia e Montenegro, accusata di appoggiare i serbi di Bosnia. Un’inchiesta sui responsabili, effettuata in seguito all’Onu, non verrà mai pubblicata. Il giornale britannico «The Independent» spiegò in seguito che «i responsabili delle Nazioni Unite e alti funzionari occidentali ritengono che alcuni dei peggiori massacri a Sarajevo, e anche la strage del pane, siano stati compiuti dai musulmani, difensori della città, e non dagli assedianti, per forzare un intervento militare occidentale» […]. I due attentati che colpirono il mercato di Sarajevo nel febbraio 1994 e nell’agosto 1995 si possono far risalire alla stessa strategia. Il primo arrivò giusto in tempo per far fallire il piano di pace proposto dagli europei di fronte all’intransigenza degli Usa e del leader musulmano della Bosnia, Izetbegović (la percentuale degli statunitensi favorevoli a un attacco armato contro i serbi passò d’un colpo da un terzo a oltre la metà). Il secondo legittimò i massicci attacchi contro le postazioni serbe intorno a Sarajevo». E infatti, tra il febbraio e il marzo del 1994 i velivoli della Nato abbatterono alcuni caccia serbo-bosniaci che sorvolavano lo spazio aereo bosniaco, interdetto da una precedente risoluzione. Si trattava della prima azione di guerra della Nato, effettuata in aperta violazione dei vincoli stabiliti nel Trattato ratificato nell’aprile del 1949 che poneva l’accento sul carattere difensivo dell’organizzazione e limitava il raggio d’azione della stessa a conflitti tra nazioni che mettessero a repentaglio la sicurezza nell’area dell’Atlantico settentrionale. Il problema, come rileva il professor Aldo Bernardini, era tuttavia dato dal fatto che, con l’implosione dell’Urss, «il Patto Atlantico, creato per fronteggiare la minaccia sovietica, non aveva più ragion d’essere. La Nato e tutto il suo apparato di potere cercavano urgentemente una nuova collocazione per giustificare la propria esistenza». Il processo di dissoluzione della Jugoslavia e il fallimento pilotato della missione Onu rappresentavano la soluzione, perché davano «l’opportunità alla Nato di trovare una nuova immagine: quella di forza d’interposizione per il “mantenimento della pace”».
Nel frattempo, un contingente croato-musulmano – di cui il governo di Washington aveva caldeggiato la formazione – rifornito di armi tedesche e statunitensi (recapitate a destinazione, assieme a numerosi mujaheddin islamici provenienti dai paesi del Golfo e dalla Cecenia, per mezzo di alcuni C-130 statunitensi) scatenava un attacco presso la sacca di Bihać (19 agosto 1994), dove erano arroccate le milizie del capo musulmano ribelle Fikret Abdić (alleato dei serbo-bosniaci). Il contingente, comandato dal Capo di Stato Maggiore Rasim Delić, si abbandonò ad un efferato eccidio puntualmente ignorato dagli organi di informazione, concentrati esclusivamente sui serbi. Intanto, mentre le forze della Nato tenevano occupate le milizie serbo-bosniache bombardando le loro postazioni militari stanziate lungo le alture che circondano Sarajevo, Tuđman scatenava la cosiddetta Operazione Tempesta. Nel maggio 1995, l’esercito croato usufruì dell’assistenza logistica fornita dagli Stati Uniti e delle incursioni aeree della Nato, che avevano distrutto i radar di Knin, per attaccare la Slavonia e far strage di circa 700 serbi. Subito dopo, le forze croate occuparono la Krajina, sotto lo sguardo impotente dell’insignificante contingente Unprofor dislocato nella zona per “proteggere i serbi”. La pulizia etnica disposta da Tuđman comportò l’esodo forzato di circa 300.000 serbi, nel corso del quale persero la vita più di 15.000 persone, senza che Tuđman (a differenza di Abdić) e la Croazia venissero presi di mira da alcuna sanzione internazionale. Nel frattempo, era tornata a infuriare la battaglia di Sarajevo. Inizialmente i serbo-bosniaci sequestrano come ostaggi alcuni membri dell’Unprofor per ottenere l’interruzione dei bombardamenti a tappeto da parte della Nato, che accolse le loro richieste imponendo un cessate il fuoco temporaneo.
Parallelamente, le milizie serbo-bosniache comandate dal generale Ratko Mladic mossero verso Srebrenica, cittadina ricca di giacimenti argentiferi collocata in una posizione altamente strategica, al centro della dorsale che costeggia ad ovest la Drina. Da questo piccolo centro urbano partivano molte delle incursioni attraverso cui i le milizie islamiste comandate dall’ex ufficiale dell’esercito bosniaco Naser Orić devastavano i villaggi serbi – clamoroso il massacro di serbi, puntualmente ignorato, compiuto dalle forze musulmane presso la cittadina serba di Kravica il 7 gennaio 1993 (data del Natale ortodosso) –, nonostante l’intera area territoriale fosse ufficialmente qualificata come “zona di sicurezza” smilitarizzata, sotto la supervisione dell’Onu. «Le operazioni – si legge all’interno di un rapporto redatto dal battaglione olandese incaricato di sorvegliare l’area per conto delle Nazioni Unite – erano relativamente imprevedibili perché le unità erano quasi senza addestramento e piuttosto indisciplinate. Le forze musulmane attaccavano sistematicamente dall’enclave prima di ripiegare nel territorio protetto delle Nazioni Unite. Inutile aggiungere che l’Unprofor, come i civili, erano utilizzati come scudi umani». Prima di conquistare la cittadina, Mladic incaricò un intermediario dell’Unprofor di intimare alle forze musulmane che si trovano all’interno del perimetro della zona smilitarizzata di deporre le armi, promettendo loro un trattamento conforme alle convenzioni di Ginevra e accettando di sottoporre il tutto alla supervisione dell’Onu. Il comando musulmano rispedì la proposta al mittente, limitandosi ad inviare donne, bambini ed anziani verso la base delle Nazioni Unite situata a Potočari. Una volta ultimata l’evacuazione – la cui regolarità in termini di diritto internazionale venne certificata sia da personale Onu, sia dai rappresentanti dell’esercito della Republika Srpska che da quelli musulmani – i guerriglieri rimasti sconfinarono nel territorio della Republika Srpska tentando di raggiungere l’enclave di Tuzla al fine di ricongiungersi alla 2° armata dell’esercito musulmano cui gli Stati Uniti forivano segretamente strumentazioni ed equipaggiamenti che consentivano alle forze islamiste di coordinare operazioni offensive. Le forze comandate da Mladic riuscirono tuttavia a intercettare il manipolo di guerriglieri, provocando una carneficina. Nonostante ciò, il 2° corpo dell’esercito musulmano si astenne dall’intervenire, sacrificando scientemente il cospicuo gruppo di miliziani penetrati nella Republika Srpska allo scopo di permettere al comandante della 28° divisione Naser Orić e ai suoi ufficiali più stretti di abbandonare Srebrenica, sfuggendo alle forze di Mladic. Così, Mladic non incontrò alcuna difficoltà nel conquistare la città, rammaricandosi tuttavia per non esser riuscito a catturare Orić. Quest’ultimo, nella fretta di abbandonare Srebrenica, non era riuscito a portare con sé la vasta documentazione che rivelava per filo e per segno gli spaventosi crimini di cui egli stesso e i suoi sottoposti si erano resi responsabili.
La storiografia ufficiale afferma che a Srebrenica le truppe comandate da Mladic si siano abbandonate a un efferato massacro di 8.000 civili, malgrado il conto delle presunte vittime scaturisse dalla mera sommatoria tra i 3.000 prigionieri catturati dalle forze serbo-bosniache e i 5.000 dispersi – gran parte dei quali vennero identificati in seguito – indicati in un rapporto stilato dalla Croce Rossa dietro suggerimento di Izetbegović , che si rifiutò sia di fornire l’elenco dei nominativi scomparsi, sia di organizzare un apposito censimento. «Se le autorità musulmane – osserva il presidente della Fondazione per la Ricerca sul Genocidio Milan Bulajic – avessero voluto veramente conoscere il numero delle vittime, avrebbero potuto organizzare nel 1996 un censimento della popolazione e compararlo con quello del 1991. Ma questo non è stato fatto perché, con quel censimento, il numero degli uccisi sarebbe emerso con precisione. Non è stato fatto nemmeno nel 2001, sebbene la legge stabilisca l’obbligatorietà di realizzare un censimento ogni dieci anni, perché sarebbe venuto fuori quanti serbi erano stati uccisi a Sarajevo e a Srebrenica. La Bosnia-Erzegovina è così rimasto il solo Paese nella regione a non aver provveduto a un censimento della popolazione […]. Forse non c’era l’intenzione di accertare una verità che avrebbe rivelato che un genocidio è stato perpetrato in 192 villaggi serbi della regione di Srebrenica e che il numero di serbi scomparsi o uccisi a Sarajevo era maggiore di quello dei musulmani scomparsi o uccisi a Srebrenica. Ecco perché affermo che a Srebrenica non c’è stato genocidio. Ci sono stati dei crimini di guerra da ambedue le parti». Numerosi cittadini serbi residenti nei dintorni della cittadina bosniaca denunciarono inoltre – senza ottenere la minima attenzione da parte delle autorità competenti – violenze commesse contro le loro famiglie dai guerriglieri musulmani, gettando un’ombra sulla identità dei cadaveri mostrati dai bosgnacchi. La Commissione Internazionale per le Persone Scomparse (Icmp) fondata per volontà diretta del presidente Clinton, sostenne di aver identificato, sottoponendoli alla prova del Dna, oltre 6.000 cadaveri uccisi a Srebrenica dalle forze di Mladic, ma quando il legale dell’imputato Radovan Karadžić richiese la trasmissione della documentazione relativa alle presunte identificazioni, l’Icmp oppose un secco rifiuto adducendo ragioni legate alla privacy dei (presunti) parenti delle vittime. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo Henry Wieland affermò che i suoi uomini non avevano raccolto alcuna prova in grado di accertare le presunte esecuzioni di massa a danno dei musulmani di cui erano accusati i serbi.
Molti dei corpi spacciati da Izetbegović per “vittime di Srebrenica” rappresentavano in realtà i cadaveri dei miliziani musulmani deceduti nel corso delle battaglie contro le forze serbo-bosniache di Mladic. Il paragrafo 115 del rapporto redatto da una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite il 15 novembre 1999 rivela inoltre l’esistenza, confermata anche dal capo della polizia di Srebrenica, di un negoziato segreto in cui Clinton pose una strage di almeno 5.000 musulmani come precondizione per l’intervento diretto della Nato contro la Repubblica Srpska. E mentre un’ondata di fuoco mediatico cominciava a bersagliare incessantemente i serbi e i loro leader politici Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Milan Martić, nessun resoconto giornalistico fu pubblicato per far luce sui massacri compiuti nei territori di Brantunac dai membri dell’Armata della Repubblica di Bosnia-Erzegovina comandata da Naser Orić, coadiuvata da mujaheddin musulmani provenienti dall’intera galassia islamica e assistita da agenzie private messe a disposizione di Izetbegović come la Military Professional Resources Inc. finanziata da Stati Uniti, Arabia Saudita e Malaysia. «A posteriori – osserva l’esperto analista John Schindler –, appare sorprendente che Izetbegović e la Sda siano riusciti a celare tali crimini e a dipingersi come vittime davanti all’Occidente. Come i musulmani siano riusciti a demonizzare i propri nemici e ad ottenere il sostegno dell’Occidente cristiano, ed in particolare degli Stati Uniti, nella loro guerra per l’Islam, rappresenta forse la più straordinaria e sconfortante saga della guerra civile bosniaca».
Nel settembre 1995, presero vita, nella località di Ginevra, le trattative del processo di pace che si conclusero (eloquentemente) nella base militare Wright Patterson Air Force di Dayton, nell’Ohio. La mediazione di Richard Holbrooke favorì una composizione delle parti che pose fine alla guerra. Il 14 dicembre, a Parigi, il presidente serbo Slobodan Milošević, il presidente croato Franjo Tuđman e il presidente bosniaco Alija Izetbegović firmarono il definitivo accordo di pace, che stabilì la cantonalizzazione della Bosnia – che divenne una vera e propria colonia degli Stati Uniti – su base etnica e la sovranità croata sulla Slavonia orientale. Venne così a delinearsi lo scenario che era stato prefigurato nel lontano 1980 dall’antropologo George Vid Tomashevich, il quale aveva profeticamente preannunciato, in una lettera al «New York Times», le drammatiche conseguenze che una interferenza esterna avrebbe provocato sulla Jugoslavia. «Dividere la Federazione Jugoslava – scrisse Tomashevich – sarebbe virtualmente impossibile senza una drastica e brutale operazione chirurgica politica ed economica che, nella migliore delle ipotesi, non avrebbe soddisfatto pienamente nessuna delle varie parti. Tutte le plausibili ipotesi di divorzio tra Serbia e Croazia non solo implicherebbero necessariamente una separazione della Bosnia, ma solleverebbero la questione esplosiva dell’identità etnica dei musulmani jugoslavi, provocando i conseguenti, drammatici scambi di popolazione con centinaia di migliaia di serbi e di croati sradicati dai territori contesi».
Nel frattempo, i guerriglieri islamici che erano confluiti nei Balcani dall’intera galassia musulmana iniziarono a impiantare le radici in Jugoslavia, ingrossando le già cospicue comunità musulmane locali convertitesi all’Islam durante l’occupazione ottomana ed originando la cosiddetta “dorsale verde”, l’invisibile filo islamico che ricalca la direttrice di penetrazione ottomana in Europa, collegando la Turchia alla Bosnia attraverso Bulgaria, Albania, Macedonia e Kosovo. Ciò che, da un punto di vista strategico, emerge dal conflitto bosniaco è la perfetta convergenza di intenti tra Stati Uniti, neofascisti – che nel caso specifico erano i croati – e guerriglieri islamici, che sarebbe riemersa sia in precedenza, con il sostegno ai mujaheddin il lotta contro l’Armata Rossa in Afghanistan, sia in seguito, con le vicende libica e siriana. Già durante la Seconda Guerra Mondiale aveva del resto preso vita nei Balcani un’alleanza nazi-islamista in funzione anti-comunista, consacrata dall’inquadramento nelle Schutz-Staffeln tedesche di divisioni islamiche croate, bosniache e albanesi. Avvalendosi dell’abbondante manovalanza offerta da Paesi che mirano ad estendere il proprio raggio d’influenza per via religiosa – e integrando persino l’Iran post-rivoluzionario nella loro strategia –, gli Stati Uniti hanno cercato di costituire una cintura islamica che cingesse d’assedio l’intera area ortodossa, separando definitivamente l’Europa dalla Russia. Per favorire il raggiungimento di questo obiettivo, la Cia ha collaborato con le Organizzazioni Non Governaive (Ong) finanziate dal magnate George Soros che operavano allo scopo di marginalizzare i media serbi collocati su posizioni filo-nazionaliste e promuovere quelli “liberali” che puntavano a spezzare la solida alleanza tra i serbo-bosniaci e la Repubblica di Serbia. I denari di Soros, affluiti in Bosnia tramite istituti di credito della Repubblica Srpska (come Pionir di Banja Luka, Nido-Bank di Laktaši, Priore-Bank di Brčko, Jozo-Commerce di Čačak, Resavsa di Despotovac) partecipati da enti riconducibili allo stesso magnate, sono inoltre serviti a finanziare la ricostruzione di numerose moschee bosniache distrutte durante la guerra civile, originando un funzionale sodalizio tra Cia, Soros ed islamismo radicale. Alija Izetbegović e il suo Sda furono i massimi beneficiari della situazione venutasi a creare, che consentì loro di mettere in atto, grazie ai finanziamenti delle petro-monarchie del Golfo Persico e anche all’instancabile opera di convincimento portata avanti dall’imam wahhabita Nezim Halilović, un ambizioso piano di islamizzazione della Bosnia. «Nei cinque anni dopo Dayton – nota Schindler, che ha definito la Bosnia-Erzegovina «l’Afghanistan europea» – Sarajevo era stata trasformata da città multiculturale in un covo di radicalismo islamico […]. I costumi islamisti – barba lunga per gli uomini, hijab per le donne – non si vedevano nella Sarajevo d’anteguerra, ma erano diventati comuni con il nuovo millennio. I radicali ebbero successo presso i giovani, i poveri e gli alienati, che furono indotti a ripudiare le usanze laiche a favore delle forme più estreme di Islam. Erano spuntate le moschee wahhabite, tutte invariabilmente finanziate dall’Arabia Saudita, e godevano di una notevole influenza». Osservati sotto questa luce, il ruolo ferocemente anti-serbo svolto dalla Turchia e il relativo appoggio fornito ad Ankara da parte di Washington assumono un significato geopolitico molto chiaro. «La “dorsale islamica” – osserva l’analista serbo Dragoš Kalajić – costituisce un’alternativa dinamica che prevede sia l’egemonia turca nei Balcani che una espansione delle masse di emigranti del Terzo Mondo proprio attraverso questa strada nel cuore dell’Europa […]. Il progetto serve sia a controllare l’espansione russa verso l’area mediterranea, sia, soprattutto, a riportare nello scacchiere balcanico un alleato strategico della Nato, la Turchia». Per questa ragione, la Turchia sostenne fin dall’inizio del conflitto la frammentazione dei Balcani allo scopo di promuovere la creazione di una catena di protettorati legati ad Ankara dal cordone ombelicale dell’Islam sunnita. E chi controlla quest’area territoriale si aggiudica un inestimabile vantaggio geostrategico, poiché la “dorsale verde” si candidava già allora a costituire la futura direttrice di trasporto delle materie prime (droga compresa) dall’Asia all’Europa, tagliando fuori la Russia. L’altro imperativo strategico perseguito da Washington era quello di creare tra l’Europa occidentale schierata al fianco degli Stati Uniti e il mondo slavo-ortodosso una divisione insanabile che saldasse sia idealmente che pragmaticamente il vincolo di alleanza sancito dal Patto Atlantico. Non è indubbiamente un caso, sotto questo aspetto, che Croazia, Montenegro, Slovenia, Stati nati dalla frammentazione jugoslava, hanno aderito a più riprese alla Nato andando a completare, di concerto con Bulgaria, Ungheria e Romania (Paesi integrati dall’Alleanza Atlantica tra il 1999 e il 2004), l’accerchiamento della Serbia.
La centralità che riveste il mantenere una netta separazione tra la Russia e l’Europa è indubbiamente alla base dell’immutato interesse con cui gli statunitensi hanno continuato a guardare alla regione balcanica negli anni successivi, sfruttando la crisi del Kosovo come pretesto per procedere al definitivo smantellamento di ciò che rimaneva della Jugoslavia. Quel Kosovo che, dopo esser stato liberato dalla “oppressione serba” grazie all’intervento militare della Nato del 1999, si è progressivamente trasformato, al pari della disastrata Bosnia-Erzegovina, in una sorta di feudo islamizzato dell’Alleanza Atlantica (ospita la più grande base Usa in Europa, Camp Bondsteel) guidato politicamente da personaggi che si trovano al centro dei più sporchi traffici internazionali (droga e organi in particolare). Nonostante ospiti Camp Bondsteel, la più grande base militare che gli Stati Uniti hanno in Europa, il Kosovo si è accreditato alla fine del 2015 come il «principale vivaio dello “Stato Islamico” in Europa, nonostante sul suo piccolo territorio siano presenti 5.000 soldati della missione Nato a guida italiana e 1.500 agenti della missione di polizia europea Eulex. Secondo i dati del Ministero degli Interni di Pristina, sono almeno 300 i kosovari che sono andati in Siria a combattere con il Califfato e che fanno regolarmente avanti e indietro via Turchia e Macedonia. Questo dato fa del Kosovo, che ha solo 1,8 milioni di abitanti, il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello “Stato Islamico” e una rampa di lancio per future azioni terroristiche in Europa».
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