Nel corso degli ultimi decenni c’è stata un’indubbia sottovalutazione di gran parte delle forze di sinistra dei rischi derivanti dai processi di internazionalizzazione del capitalismo maturo, e ci si è ritrovati, senza troppo accorgersene o preoccuparsene, ad agire dentro un terreno di gioco che si è fatto col tempo assai ostile e inospitale.
Tutti gli strumenti di cui si era dotato il movimento operaio durante il “secolo breve” per governare e orientare i processi economici, dagli anni ’70 ad oggi sono stati a poco a poco spuntati. Prima la globalizzazione neoliberista, poi il cosiddetto pilota automatico messo in moto dalla tecnocrazia europea hanno svuotato le istituzioni democratiche di poteri e funzioni e immobilizzato la politica in un recinto. Oggi le decisioni economiche si impongono come qualcosa di oggettivo e naturale, e mai come oggi quelle stesse decisioni o non arrivano agli organi rappresentativi, o se arrivano vi arrivano prese in altra sede, in una sede in cui la stragrande maggioranza dei cittadini non ha alcuna voce in capitolo.
Il movimento operaio è stato protagonista del secolo scorso, non solo perché difendeva gli ultimi, ma perché aveva creato degli strumenti di lotta straordinari. Con la globalizzazione e la nuova architettura europea sono venuti meno i vecchi strumenti dell’agire politico della sinistra [G. Di Donato – T. Bucci, Quale Sinistra?, Roma, 2016].
Cosa fare dunque?
Uno dei nodi del problema è senz’altro l’Europa.
Il punto resta sempre lo stesso: o si torna indietro, al recupero della sovranità monetaria e nazionale oppure si procede ad una maggiore integrazione politica per superare il grave deficit di democrazia attuale e rompere quel dominio di tecnocrazia e neoliberismo che caratterizza l’Europa attuale. A partire da una generale revisione dei trattati e dei vincoli di bilancio vari, dalla necessità di introdurre meccanismi di condivisione del debito, assegnando infine un diverso ruolo alla Bce perché cominci a finanziare, sia pure a certe condizioni, direttamente gli Stati, in modo che la finalità primaria delle sue azioni diventi, accanto alla stabilità dei prezzi, quella di promuovere la piena (e buona) occupazione.
Oggi, però, non esistono i presupposti per muovere in questa direzione, così come mancano le condizioni politiche, sociali e culturali per avanzare verso gli immaginifici Stati Uniti d’Europa (bisogna qui considerare come l’Europa sia molto differente dagli Usa perché in Europa è nato lo Stato nazione e abbiamo a che fare con tradizioni e linguaggi differenti). Ragionando in termini astratti, appare ben più realistica una prospettiva di tipo confederale, e cioè un modello di alleanza tra Stati confinanti, che perseguono, soprattutto in campo internazionale, scopi comuni mediante apposite istituzioni, pur mantenendo ciascuno piena indipendenza e sovranità.
Al contempo, non sembrano esserci troppi margini per riformare l’Europa all’interno dell’attuale quadro di compatibilità date. Esistono dispositivi di ricatto e di comando talmente forti e sofisticati da immobilizzare fin dall’inizio processi democratici poco graditi e di soffocare sul nascere qualsiasi tentativo di rottura del paradigma neoliberale (vedi il caso Grecia).
Non parrebbe allora esserci altra strada che non fosse quella di smontare tutto per ricostruire daccapo, per rilanciare su nuove basi un processo diverso di cooperazione e solidarietà fra i paesi europei.
La prospettiva generale resta, comunque, quella rivitalizzare le democrazie nazionali per promuovere un nuovo e più vigoroso internazionalismo, in un’ottica di pace e giustizia fra le nazioni.
Accanto al tema del recupero della sovranità democratica, c’è il problema legato ad un tessuto sociale oggi estremamente frammentato e individualizzato. Da qui la necessità di ricomporre un nuovo blocco sociale accumunato dalla coscienza di vivere una stessa condizione di ricatto e sfruttamento, riuscendo in una nuova chiamata alla lotta politica rivolta all’intero mondo dei vecchi e nuovi sfruttati (disoccupati, precari, lavoratori dipendenti, partite iva alle prese con diminuzione di diritti e tagli dei compensi ecc.), sul modello “proletari (vecchi e nuovi) unitevi e organizzatevi”.
Nel contesto attuale spetta però alla sfera politica il compito di provare a ricomporre e organizzare ciò che è stato abilmente diviso e frammentato negli ultimi decenni e che non nasce più spontaneamente nel sociale (dalla fabbrica scaturiva la classe operaia, dai luoghi e dai ruoli legati al mondo del lavoro scaturivano identità e blocchi sociali).
In questo senso, il “populismo” può configurarsi come un efficace strumento politico in grado di unificare le istanze insoddisfatte provenienti da una società frammentata e dar vita ad un nuovo senso di comunità ed appartenenza.
Nel frattempo, c’è da liberarsi di tutta una serie di illusioni fumose presenti nel dibattito pubblico a sinistra: su tutte quella sorta di ostilità verso lo Stato che porta a svalutarne quella specifica forma democratico-costituzionale, dalla forte impronta sociale perché centrata sulla dignità del lavoro, che la forma Stato ha assunto nel secondo dopoguerra, consentendo una larga inclusione sociale e politiche di segno progressivo.
Altro luogo comune da smascherare è il mantra del tramonto della sovranità. L’attuale scenario di post-sovranità, nella globalizzazione neoliberale, non ha certo significato mitigazione del potere, ma al contrario ha lasciato campo aperto ai poteri selvaggi transnazionali. Inoltre, essendosi la democrazia impiantata nell’albero della sovranità, come sovranità popolare, combattere la sovranità politica ha significato, di fatto, indebolire la democrazia [G.Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Bari, 2014].
E non sa convincere nemmeno l’idea di un “transito” indolore verso una politica senza sovranità, nella quale il cittadino cederebbe volentieri il passo al cosmopolita. L’idea che la crisi della sovranità sia un problema solo per gli Stati non è accettabile. Essa, infatti, è un problema anzitutto per le persone, perché senza sovranità i loro diritti politici (e non solo) non sono garantiti e le politiche redistributive non si possono attuare. Pertanto la questione della sovranità continua, ancora oggi, a porsi e a reclamare di essere urgentemente ridefinita.
Anche il tema del “confine” merita di essere trattato in maniera meno manichea. Innanzitutto, non è affatto vero che ogni forma di appartenenza sia «nazionalista». Ma, a parte il fatto che l’identificazione tra nazione e nazionalismo è storicamente falsa (la nazione, anzi più propriamente lo Stato-nazione, è soprattutto un contenitore, un contesto, che definisce uno spazio e un terreno comune per l’esercizio della sovranità popolare), è il punto teorico-politico a essere fuorviante. I bisogni di appartenenza e identità sono profondi e radicati e possono essere declinati in molti modi, anche democratici e aperti. Soprattutto, le forme politiche che l’Occidente ha inventato sono ridotte: città, imperi, Stati. La forma impolitica ancora non è stata inventata. Credere che, come per incanto, lo spazio liscio globale non generi refrattarietà identitarie e caos geopolitico (vedi il caso Catalogna), è molto ingenuo, e in fondo funzionale alla narrazione globalista neoliberale [G. Preterossi, Radicalità, in “Filosofia politica”, aprile 2017, pp. 69-80].
La democrazia ha quindi bisogno di una spazio, di una cornice entro cui esercitarsi, e finora lo schema dello Stato-nazione dalla natura democratico-sociale, che l’Europa ha conosciuto nel secondo dopo guerra, si è dimostrato il terreno ideale entro cui imporre il primato della dimensione politica sulla dimensione economica.
Altra variabile essenziale in un sistema democratico è il sentimento di coesione e di lealtà politica fra i cittadini. E la coesione e la lealtà politica – per quanto astrattamente garantite nelle società moderne dallo strumento del diritto – suppongono comunque l’esistenza di legami prepolitici fra i membri del gruppo, rinviano ad una identità collettiva. Ed è provato che la tenuta dei legami identitari si fa sempre più incerta via via che l’ambito geopolitico di uno Stato si dilata e si fa sempre più sfumato. Neppure il più astratto “patriottismo dei diritti” può fare a meno, per così dire, di una qualche “intimità” fra i membri del gruppo: essi non possono essere dei soggetti “estranei” gli uni agli altri. L’estraneità è l’opposto della solidarietà democratica. La prova a contrario viene oggi fornita dagli estesi fenomeni di insofferenza e di razzismo che colpiscono le società contemporanee [D. Zolo, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Roma, 2001].