Uno degli argomenti più forti della controrivoluzione oligarchica che ha investito l’Occidente dagli anni ’70 è sempre stato il “non c’è alternativa”. Non c’è alternativa alle liberalizzazioni e alle privatizzazioni, non c’è alternativa a concentrare le ricchezze nelle mani di pochi, non c’è alternativa a lasciare la finanza a briglie sciolte. Il modello di modernizzazione neoliberale – basato sulla compressione di salari e diritti a vantaggio di una ristretta élite – è stato così presentato come un dato naturale, un’inevitabile soluzione politico-economica per tutte le società che non volessero venir escluse dall’economia globale. Questo mito è stata alimentato e potenziato da un fattore geopolitico non indifferente: la decadenza prima e la scomparsa poi dell’Unione Sovietica.
Con tutte le sue tragiche contraddizioni, l’Urss aveva rappresentato fin dalla Rivoluzione d’Ottobre (1917) un polo alternativo a quello liberal-capitalista capitanato dagli Stati Uniti. I popoli oppressi – dall’Africa all’Estremo Oriente – avevano per decenni guardato a Mosca per cercare un modello di sviluppo economico che permettesse ai loro paesi di emanciparsi politicamente ed economicamente dall’Occidente. E da Mosca era arrivato per decenni ai popoli oppressi quell’aiuto economico ed intellettuale necessario per liberarsi dalla pesante ipoteca occidentale.
Questo meccanismo ha iniziato ad inclinarsi proprio in corrispondenza di quella reazione delle borghesie occidentali tante volte evocata come “rivoluzione neoliberale”. La crisi del modello sovietico – iniziata negli anni ’70 – è stata tanto politica quanto economica. Politica perché il modello istituzionale creato dall’Urss è stato incapace di riformarsi, generando la guida confusa e autodistruttiva di Gorbachev. Economica perché il dirigismo economico centralizzato ha via via mostrato i suoi pesanti limiti a soddisfare i bisogni di una società avanzata come quella sovietica.
La mancanza a livello globale di alternative reali e credibili al modello capitalista ha così aperto la strada – in quasi tutto il mondo – al vento della rivoluzione neoliberale. Sottolineo questo quasi, perché una parte del mondo questa reazione l’ha subita in modo particolarissimo: la Cina. Dopo la morte di Mao Tze Tung e la presa del potere di Deng Xiaoping, questo paese-continente ha intrapreso la strada del superamento del modello economico dirigista di matrice sovietica.
In occidente, la liberalizzazione del mercato interno cinese e la sua progressiva apertura al mercato globale hanno fatto maturare la convinzione che la Cina avesse abbandonato la sua vocazione socialista. Una convinzione comoda a legittimare la svolta liberale di tutte le forze politiche occidentali. Le riforme della dirigenza cinese sono state così lette come un’ulteriore conferma dell’impossibilità di una alternativa economica al capitalismo imperante. Una convinzione questa che si è facilmente legata – soprattutto nella sinistra europea che stava imbracciando a piene mani la “Terza via” blairiana – alla critica all’autoritarismo politico imposto dal Partito Comunista alla società cinese. La Cina si è così trasformata nell’immaginario collettivo nella patria di un cripto-capitalismo autoritario, senza conflitti interni e con una classe dirigente comunista solo nel nome.
E mentre questo immaginario si rafforzava, la realtà evolveva e ci lasciava senza strumenti per interpretare cosa stava veramente cambiando in un paese che ospita un quinto del genere umano. I cinesi sono così comparsi all’improvviso nelle nostre vite quotidiane come temibili competitori nel mercato globale e abili catalizzatori delle volontà delocalizzatrici delle élites occidentali. Poi, piano piano, hanno conquistato il ruolo di “ladri di tecnologie” e di potenza regionale in ascesa. Fino ad arrivare oggi ad essere una potenza globale riconosciuta e temuta, che si permette di fare shopping fra i gioielli di famiglia europei sopravvissuti alla crisi e all’austerità. Un paese avanzato, che dopo aver sradicato l’ignoranza e la fame dal suo territorio, può permettersi di contendere il primato tecnologico agli Stati Uniti sinofobici di Donald Trump.
Come è stato possibile questo grande salto in avanti di un paese fino a qualche decennio fa sottosviluppato e povero? Accontentandosi delle spiegazioni dei nostri amati liberali occidentali, la risposta sarà sempre e solamente una: perché è una feroce dittatura comunista. E noi – pur non essendo parte degli amati liberali occidentali – non negheremo certo il ruolo della repressione nel contesto cinese. Essa c’è, e ha sicuramente contribuito a mantenere in piedi il paese nonostante le sue enormi contraddizioni interne. Ma se ci limitassimo ad esse, non potremmo comprendere le conquiste della Cina contemporanea.
Il vero segreto del modello cinese è stato un altro: un’economia di mercato a guida pubblica. L’enorme Partito Comunista Cinese (90 milioni di iscritti) ha in questi decenni guidato un’economia mista, in cui il settore pubblico ha assunto un ruolo attivo nella direzione del settore cooperativo e privato, orientandoli a servizio dell’interesse nazionale. Certo, è stata permesso lo sviluppo di gruppi capitalistici privati. Ma ad essi è stata lasciata una libertà di movimento limitata dal rispetto delle linee guida di sviluppo indicate dal Governo. E dopo la grande liberalizzazione degli anni ’80 e ’90, il settore privato ha cominciato a regredire lasciando spazio ad una nuova avanzata del settore pubblico e cooperativo.
Questa capacità di controllo pubblico sull’economia (definita dal Pcc come “economia socialista di mercato”) ha permesso alla società cinese di sviluppare le proprie potenzialità in modo coerente e razionale. Lontana dalle bolle finanziarie del capitalismo occidentale, l’economia cinese ha dimostrato la capacità di focalizzarsi prima sull’accumulazione di capitale economico e tecnologico, per poi passare ad investimenti massicci – e, di nuovo, guidati – nei settori a maggiore produttività. Ecco come siamo arrivati alla Cina di oggi: tramite lo sviluppo di un’economia mista a guida pubblica.
Certo, questo vorticoso processo di modernizzazione ha creato contraddizioni sociali e – soprattutto – livelli di diseguaglianza interna assolutamente non-socialisti. Ma essi erano difficilmente evitabili per un paese che volesse recuperare un gap economico così forte in così poco tempo. Non per niente, la dirigenza cinese ha impostato oggi la lotta alla corruzione (fonte primaria della diseguaglianza interna) come sua priorità politica. La Cina si è trasformata oggi nel più grande campo della lotta di classe mondiale. Una lotta di classe i cui esiti non scontati imprimeranno un segno distintivo al XXI secolo e che avviene tutta all’interno del Partito Comunista. Il quale, non a caso, tende ad essere un fattore di compromesso più che di repressione nei crescenti conflitti sociali che agitano il paese.
Con tutte le sue particolarità, la Cina di oggi rappresenta quello che l’Unione Sovietica ha rappresentato per gran parte del Novecento. Un modello economico alternativo a quello capitalista statunitense (e alle sue propagazioni democratiche in Europa e autoritarie in gran parte del resto del mondo). Un modello di economia mista a guida pubblica funzionale all’avanzamento tecnologico dell’umanità.
Un modello che già oggi mostra all’Europa capitalista che un’alternativa economica non solo è possibile, ma è anche preferibile. Starà quindi a noi capire capire se e come questa alternativa possa essere adattata alle nostre insopprimibili aspirazioni democratiche.
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