Il petrolio del 21esimo secolo
di SENSO COMUNE (Mario Lorenzo Janiri)
Sono di fresca attualità i problemi che affliggono la protezione dei nostri dati personali, affidati inconsapevolmente a qualche social network di cui non possiamo fare a meno. Il caso più eclatante è quello di Cambridge Analitica. Fra il 2013 e il 2015, negli Stati Uniti, un enorme quantità di dati “politicamente sensibili” destinati a una ricerca accademica sono stati raccolti su Facebook (anche senza autorizzazione) e poi rivenduti a una società di analisi di dati a scopo politico. Dati che sarebbero stati utilizzati per influenzare alcune campagne elettorali, fra cui quella legata a Trump e Brexit. Quanto viene contestato è ovviamente illegale, ma il vero problema è che Facebook, secondo alcune inchieste, era a conoscenza del fatto e non è stata capace (o non ha voluto) di controllare il fenomeno. Non avrebbe, infatti, informato gli utenti in questione del “furto” di dati, né avrebbe dovutamente vigilato sulla distruzione di questi. Similmente, da poco Google è accusata di violare le leggi di protezione sui minori, collezionandone le preferenze a scopi pubblicitari. La lista è lunga, ma, in generale, quando si parla di dati, il fenomeno si sta facendo sempre più grande (la tecnologia si migliora e così i modi e le fonti che attingono alle nostre informazioni) e più preoccupante (i dati iniziano ad avere rilevanza politica, oltre che commerciale).
Insomma, “i dati sono il petrolio del 21esimo secolo”. Chi abbia coniato questa frase, che coglie a pieno l’essenza del problema sociale che sta incessantemente avanzando, è ancora dibattuto. Come il petrolio, hanno assunto ormai rilevanza politica, ma non solo: il mercato che ruota attorno a questo fenomeno presenta tutte le caratteristiche di un monopolio. Solo per citare un numero, Facebook e Google rappresentano al momento quasi il 60% del mercato pubblicitario digitale.
Un “monopolio”, in teoria economica, è un fallimento di mercato, in quanto genera perdite secche di surplus del consumatore, senza considerare i problemi legati all’equità che possono scaturire. Ed è cosi che lo Stato dovrebbe intervenire, attraverso sussidi, regolando o intervenendo nella produzione. Ma come mai Facebook, e altri pochi operatori, si possono definire “monopoli” o comunque “tendenti al monopolio”? Non c’è la presenza di un monopolio naturale (dovuto a economie di scala a loro volta dovute ad elevati costi fissi), ma principalmente sono le economie di rete a consentire tutto ciò. I consumatori, in questo caso, traggono utilità crescente in funzione del numero di altri fruitori. Se il senso del prodotto in questione è comunicare con gli altri, condividendo le proprie esperienze, è naturale che ci si aggreghi in un unico contenitore. Così, con target diversi, i social network che noi tutti conosciamo (Facebook, Twitter, Instagram), acquisendo una certa massa critica, di fatto creano una situazione quasi monopolistica. I concorrenti, infatti, per rimanere nel mercato dovrebbero acquisire una fetta di utenza molto cospicua, che né i nuovi clienti né i clienti già schierati potrebbero colmare. I costi di riconversione sarebbero altissimi (saremmo disposti a lasciare Facebook per un concorrente, anche se pagati o forniti di servizi migliori?).
Normalmente un monopolio prefigura una bassa elasticità al prezzo di un prodotto. Prezzo che sembra non esserci in Facebook, in quanto gratuito. Tuttavia, i dati che noi (quasi inconsapevolmente) concediamo al social con le nostre azioni e i nostri interessi sono il “valore” che creiamo per il sito in questione. E, se manca la competizione per i problemi già citati, una sola azienda può sfruttare il potenziale immenso delle nostre informazioni, senza dover rendere conto a nessuna dinamica concorrenziale.
Ed è qui che arriva lo Stato
I problemi sopra citati sono enormi e la politica sembra ancora poco cosciente del ruolo che dovrebbe avere il settore pubblico in tale questione. Basti guardarsi l’interrogazione congressuale a Zuckerberg, circa i fatti di Cambridge Analitica. Innanzitutto dobbiamo interrogarci sul senso e sul ruolo dell’intervento statale. Ci sono varie interpretazioni e possiamo fare vari collegamenti. Essendo i comportamenti monopolistici sotto controllo di varie autorità pubbliche, si dovrebbero innanzitutto intensificare gli sforzi volti alla regolamentazione di queste realtà. Per esempio il fatto che i ricavi stiano iniziando a esser tassati nei paesi dove vengono conseguiti è un ottimo passo in avanti. Come anche le recenti indagini dell’Antitrust italiana sull’ “inganno” prima menzionato, grazie al quale Facebook cerca in tutti i modi di nascondere all’utente il fatto che ceda dati (e che quindi un prezzo noi lo stiamo pagando).
Ma, oltre a questo, se abbracciamo la visione paternalistica di uno Stato che si prende cura dei propri cittadini, si potrebbe considerare la “connessione” fra di noi bene pubblico? Ne gioveremmo sicuramente di più se lo Stato utilizzasse i nostri dati per ricerche volte al miglioramento del sistema sanitario, scolastico o, in generale, del complesso di public policy in gioco. Perché lasciare tale spazio a finalità di mercato, più o meno scorrette, allora?
Il grande problema connesso al fenomeno, come d’altra parte altri tanti altri fenomeni legati alla globalizzazione, è che trascende i confini nazionali. La localizzazione, i ricavi, i dati, le regole ad essi connessi esulano il controllo politico nazionale. Sarebbe richiesta una politica globale di controllo pubblico sul fenomeno, che non è ancora possibile, vista l’enorme disomogeneità socio-culturale che ci caratterizza. Politiche a livello nazionale sono possibili. Alcuni paesi limitano o proibiscono l’utilizzo, come Cina e Iran. Lo stesso Partito Comunista Cinese sta iniziando a pensare di entrare come azionista in colossi dell’high-tech asiatico, come Alibaba. Ma, senza estremizzare, da questo 25 Maggio la stessa Unione Europea (e non è un caso che sia una mossa comunitaria) ha deciso di muoversi: maggiore comunicazione agli utenti sul trattamento dei proprio dati personali, con il conseguente diritto all’oblio di questi ultimi.
Al di là dell’azione statale, poi, alcune voci e movimenti fuori dal coro stanno acquisendo maggiore peso. Il co-founder di Whatsapp, Brian Acton, ha recentemente lanciato la provocazione di abbondonare in massa Facebook, seguita al movimento #deleteFacebook. Il Center for Humane Technology, in forma più strutturata, raccoglie personaggi da mondi diversi, quali hi-tech e filosofia, per proporre un “rinascimento” per una maggiore emancipazione dai social network. Nel farlo si rivolge alla politica, per la regolamentazione del fenomeno, ma anche all’opinione pubblica e agli stessi colossi del web (che spingono, attraverso operazioni di lobbying, a rendere i loro prodotti più sostenibili per la società). Altre proposte includono i network di controllo globale, ossia delle sorte di cooperative o community che prefigurano un controllo maggiormente democratico e sociale dei giganti del web attraverso il progressivo acquisto di quote societarie (vedi il movimento buytwitter). Oppure il social network minimalista, Ello, privo di pubblicità rivolta a vendere dati. Tutti progetti che si scontrano con i problemi già citati. E il cui successo tarda ad arrivare.
Infine c’è la provocazione: perché non nazionalizzarli? Magari sarà un discorso da affrontare con il tempo, quando le posizioni di mercato si consolideranno maggiormente o quando questi strumenti diventeranno ancora più pregnanti. Potrebbe sembrare distopico pensare a uno Stato che vede tutto, in stile Grande Fratello, ma è una buona via per riuscire a governare un fenomeno che ci coinvolge più di quanto pensiamo. Saremo inoltre costretti a pensare a modalità di governance globale, che potrebbero giovare le diverse società in modi diversi.
Il fenomeno aumenterà. Pensiamo solo alle conseguenze in termini di raccolta dati che porterà l’”internet delle cose”. Gli stessi big di internet sembrano molto interessati al fenomeno e non tarderanno a essere in prima fila. La politica non può lasciare che il forum della democrazia resti un luogo anarchico e così suscettibile a manipolazioni “commerciali”. Che se ne inizi a parlare allora.
Commenti recenti