Un’alternativa alla Google tax: pazza o nuova idea?
di CARMINE MORCIANO (FSI Bologna)
Parlando delle imposte alle multinazionali di internet e della nuova trovata, la Google tax, non entro nel merito dell’iva. In primo luogo perché non è un problema legato all’imposizione fiscale alle imprese, che agiscono da sostituti d’imposta: per chi quell’iva incasserà o se quell’iva deve essere pagata o meno conta maggiormente il rapporto di forza tra gli Stati dell’UE o tra gli Stati dell’UE e il resto del mondo. Ergo, se l’iva deve essere pagata e a chi dal consumatore, vero soggetto vessato dalla cara euro-imposta che a breve raggiungerà il livello del 25%.
In secondo luogo, perché il sovranismo abolirebbe le imposte indirette e, in primis, l’iva.
Quindi parlerei direttamente dell’imposta sui redditi: per le multinazionali del web è l’IRES ed oggi ha un livello flat tax del 24%. Bene: l’IRES è pagata dalle imprese sul proprio reddito, l’utile d’esercizio, che è la differenza tra ricavi e costi.
Il problema è capire quanto di questo utile è prodotto in Italia, dato che queste aziende operano in tutto il mondo, cercando ovviamente di concentrare i ricavi dove essi hanno un valore maggiore e concentrando i costi dove essi (di manodopera o fiscali o altro) sono minori.
E’ difficile raggiungere un risultato che sia giusto, che riesca a ripartire questo utile tra i vari Stati del mondo, di modo che la multinazionale di turno partecipi alle spese pubbliche di ogni Stato in cui ha prodotto utile nella giusta proporzione.
Ad oggi la multinazionale di internet paga solitamente le imposte sul reddito in uno Stato con bassa imposizione fiscale, se non direttamente in un paradiso fiscale, perché le imposte vengono versate dove l’azienda ha la cosiddetta “stabile organizzazione”. Queste aziende piazzano gli uffici o i magazzini dove conviene loro, producendo però ricavi e, di conseguenza, utile (avendo consumatori/clienti) in tutto il mondo.
Questo è, in sintesi, il problema, risolvibile con la nascita di qualche nuova figura giuridica societaria ma, in ultima istanza, ottenendo dei dati di bilancio che possano essere una buona approssimazione della ripartizione dell’utile tra gli Stati in cui l’azienda lo ha prodotto.
Questo tipo di aziende non solo vivono nella globalizzazione ma sono la globalizzazione: non c’è niente di più giusto che ragionare e agire sui dati globalizzati, consolidati nel bilancio contabile di gruppo.
Sappiamo che l’utile è la differenza tra ricavi e costi: il nostro obiettivo è capire quanto di questo utile è stato prodotto in ognuno dei diversi Paesi nei quali l’impresa ha operato. Riguardo ai costi, dico subito che non sarebbe un’idea malsana non considerarli proprio nella ricerca del giusto parametro per ripartire l’utile. Per fare qualche esempio: i costi operativi saranno presenti nei paesi con basso salario o assente legislazione sull’inquinamento; i costi di pubblicità saranno presenti nei paesi dove si spera di entrare nel prossimo futuro o dove si deve stabilizzare la quota di mercato, anche se tutti questi costi avranno generato e genereranno ricavi anche altrove. I costi si muovono e, probabilmente, si concentrano in aree diverse in momenti diversi. Escluderei la loro valutazione nello scegliere il parametro di ripartizione, perché troppo distorsivi del parametro stesso.
A livello di costi, per questo tipo di aziende potrebbe e dovrebbe essere compito del singolo Stato quello di orientare la multinazionale di turno a tenere qualche magazzino o qualche ufficio nel proprio Paese, ad avere qualche costo pagato nel proprio territorio, che poi è reddito nazionale.
Tolti i costi rimangono i ricavi, che sono la linfa vitale di ogni azienda, a maggior ragione in internet dove si vive di economie di rete, dove ottenere e ampliare quote di mercato è fondamentale, sempre nell’ottica di arrivare al monopolio o quasi. E’ quindi fondamentale ottenere i massimi ricavi (dettati da visibilità), senza i quali l’utile non esisterebbe neanche, soprattutto quello futuro.
I ricavi prodotti in un singolo paese possono essere il dato più significativo e collegabile all’utile rilevabile in quel singolo paese, il dato che può fornire la miglior approssimazione, tant’è che è stato preso anche da Bruxelles come base impositiva della Google tax (ma ora le imposte si chiamano con il nome di un’azienda?).
La Google tax, però, riguarda direttamente i ricavi, che non necessariamente generano utile; questo accade quando i costi sono più alti dei ricavi e l’azienda è in perdita. Con la Google tax, essa si troverebbe a dover comunque pagare l’imposta senza avere un reddito. Ciò non è affatto giusto ed è proprio questa la prima critica mossa a Bruxelles e che le multinazionali muoveranno in un prossimo futuro, vincendo probabilmente sul piano del principio.
Ma quello stesso dato dei ricavi può essere usato come base di ripartizione percentuale (tra i vari Stati) dell’utile ottenuto dalla multinazionale a livello globale.
Si potrebbe allora imporre a queste “aziende di internet” una riclassificazione dei loro ricavi totali globali rispetto allo Stato nel quale si sono generati (che tra l’altro avranno già nel loro controllo di gestione), ottenendo, per ogni singolo Stato, una percentuale di “partecipazione” ai ricavi totali.
Quella percentuale andrà moltiplicata all’utile consolidato (globale) dell’azienda o del gruppo: l’importo così ottenuto diventerà la base impositiva sulla quale l’azienda pagherà. Per esempio, in Italia l’IRES è al 24%.
Per esempio, se una data azienda ha ricavi in tutto il mondo per 50 miliardi, 5 dei quali prodotti in Italia (il 10%), e il suo utile è stato di 2 miliardi, la base impositiva su cui calcolare le imposte in Italia sarà di 200 milioni, pari al 10% dell’utile globale.
Questa appena descritta è solo un’idea, ma non è una soluzione perfetta, date le troppe sfumature del problema. Tuttavia è un qualcosa che si avvicina alla giustizia, che sarebbe vicinissimo alla giustizia se tutti gli Stati l’applicassero, globalizzassero le imposte sulle aziende globalizzate per definizione. Spero sia chiaro che il problema non è tanto il come fare, ma se si vuole fare.
Si può obiettare che questo tipo di imprese saranno disincentivate ad investire in Italia: ma se per investire in Italia dobbiamo permettere che qui non paghino una lira di imposte, se non portano lavoro e men che meno stabile, se sono quindi dannose per la bilancia dei pagamenti e per l’equilibrio fiscale, a mio avviso nessuno sentirà la loro mancanza.
Si può obiettare che lo Stato in cui quell’azienda ha la sede legale tasserà l’impresa a sua volta, generando distorsioni e duplicati impositivi, ma io rispondo che il problema sorge non perché l’Italia sarebbe ingiusta nella tassazione ma perché è il Lussemburgo di turno (per prendere ad esempio Amazon) che crea il problema; quindi si adegui pure il Lussemburgo, e se all’impresa di turno non va bene, è sempre possibile andare a cercare fortuna altrove.
Si può obiettare che molti ricavi non sono facilmente riconducibili ad un unico territorio: ma si potrebbe creare la percentuale del 100% tra paesi usando i soli ricavi univocamente riconducibili, e poi ripartire i ricavi senza nesso di causalità con un singolo Stato secondo le percentuali precedentemente ottenute.
Questo per dire che si può obiettare molto: ci saranno limature da fare nel calcolo dell’imponibile o scontri più o meno diplomatici da affrontare, lobby da fronteggiare e poco frequentare… ma dev’essere chiaro che il fatto di poter tassare – in un modo che si avvicini alla giustizia – questo tipo di imprese è un problema meramente politico, quello prima di volere e poi di imporre alle aziende di internet una legislazione tale da poter permettere un gettito pari a quello che le imprese del mondo reale già garantiscono, nella misura in cui generano utile nel territorio della Repubblica Italiana, o in una sua approssimazione.
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