Ciucchi senza confini
di Il Pedante
Apprendo dai giornali che il Comune di Treviglio (BG) ha recentemente ritirato e mandato al macero duemila copie di un opuscolo di educazione stradale destinato alle scuole perché, in un box di approfondimento, vi si leggeva che «alcune razze sono costituzionalmente meno tolleranti all’alcol della razza bianca». Seguivano disagio, lamentazioni e sgomento. Per la preside di un istituto comprensorio presente alla conferenza stampa di presentazione, «nel 2018 leggere cose simili è inaccettabile» (Repubblica, 10 maggio). La vicesindaco si scusava e assicurava di prendere «le distanze da quella frase anche se siamo sicuri che si tratti di un errore compiuto in buona fede». In quanto al sindaco, nel rivelare che la nozione era ripresa una pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità, non intendeva rivendicarne così la correttezza ma, anzi, la giudicava «fuori luogo e inopportuna» (Corriere della Sera, 10 maggio). E annunciava: «chiederemo all’ISS di cambiarla».
Per tradurre queste reazioni occorre innanzitutto rilevare che quelle parole non sono inaccettabili «nel 2018». Sembrano piuttosto esserlo per chi vive nel 2018. Perché non risulta che quest’anno la genetica del metabolismo dell’etanolo sia cambiata rispetto all’anno scorso né, per quel che sappiamo, ai decenni o ai secoli precedenti. La variabilità interetnica degli effetti dell’alcol sull’organismo è un fatto documentato e analizzato da studi internazionali numerosi ancorché sfuggiti, per qualche ragione, al vaglio dei revisori trevigliesi.
Tra i primi, nel 1972, lo psichiatra Peter H. Wolff osservava su Scienceche «giapponesi, taiwanesi e coreani, dopo avere assunto quantitativi di alcol che non hanno alcun effetto rilevabile sui caucasoidi, reagiscono con un marcato flushing facciale [vampate di calore al volto, n.d.P.] e lievi o moderati sintomi da intossicazione». Con lo sviluppo dell’approccio genetico (Goedde et al. 1979; Agarwal et al. 1981), si è scoperto che nell’organismo di individui appartenenti a ceppi etnici diversi agiscono varianti genetiche (alleli) e dosaggi diversi degli enzimi deputati alla digestone dell’alcol e dei suoi sottoprodotti: l’alcol deidrogenasi (ADH) e l’aldeide deidrogenasi (ALDH). Si è così osservato, ad esempio, che nei popoli dell’Asia orientale l’insorgenza più rapida e violenta dei sintomi da intossicazione etilica si accompagna a una prevalenza degli alleli ALDH2*2 e ADH1B*2. O che l’allele ADH1B*3, prevalente nei popoli dell’Africa, si assocerebbe «a una più rapida eliminazione dell’alcol e a una risposta più intensa all’alcol negli individui di retaggio africano» (Wall et al. 2016), a conferma dei risultati sperimentali che mostrano una «reazione più forte» agli alcolici da parte dei bevitori afroamericani rispetto ai loro omologhi di discendenza europea (Pedersen et al. 2014). O ancora, che che negli individui di pelle nera un consumo moderato di alcol in età adulta e geriatrica non produrrebbe i benefici ipotizzati nei bevitori bianchi (Jackson et al. 2015). La composizione del pool enzimatico si è inoltre rivelata essere un utile strumento esplicativo e predittivo della tendenza all’abuso di sostanze alcoliche negli individui appartenenti a etnie diverse. In generale, dove il metabolismo produce effetti più spiacevoli e intossicanti si registra una minore propensione alla dipendenza da etanolo (Chen et al. 1999; Kuo et al. 2008). Proprio la maggiore «tolleranza» agli alcolici contribuirebbe così a spiegare il più alto tasso di etilismo presso le popolazioni di razza europoide o caucasica, cioè bianca.
Ora, perché tutto ciò deve destare scandalo? La capacità di «reggere» gli alcolici non è una qualità morale, non rende le persone o i popoli migliori. Come non li rendono migliori (o peggiori) il colore della pelle, la foggia degli occhi, la forza fisica o le dimensioni del cranio. Sono caratteristiche fisiologiche che ciascuno riceve alla nascita, senza colpa né merito. Sicché l’offesa agli uomini non può consistere nel rimarcarne le differenze ma, casomai, nel disconoscerle, nel privarli della loro identità più profonda e granitica, quella genetica, per annichilirli nell’indistinzione di un’idea. Se è vero che molti popoli del mondo sono afflitti da diseguaglianze e discriminazioni, la via per difenderne i diritti non può essere quella di levar loro anche il diritto di essere sé stessi.
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Ennesimo paradosso del «politicamente corretto», la vicenda dell’opuscolo di Treviglio illustra bene alcune delle più recenti e contraddittorie concettualizzazioni somministrate all’opinione pubblica. Da un lato, per come è stata raccontata da diversi giornali, soddisfa in pieno i requisiti di una «lotta alle fake news» a lieto fine, dall’incriminazione di un messaggio e della sua presunta e sottintesa aggravante discriminatoria («hate speech») alla censura finale con annesse scuse di chi lo ha diffuso. Si è però visto che la nozione non era «fake» e, quindi, nemmeno priva di una sua utilità nel contesto. Ciò che l’ha resa «inaccettabile» era piuttosto la sua mancata conformità a un sistema di valori, a un esprit du temps che si riflette nel progetto politico di integrare (leggi: assimilare) le minoranze etniche presenti nel nostro Paese e di contrastare le sempre più diffuse critiche ai protagonisti, alle modalità e/o ai numeri dell’immigrazione. Confermando così che, in questo come in altri ambiti, le fake news sono «false» perché – vere o false che siano – minacciano di falsificare gli obiettivi e i messaggi di chi ha il potere di perseguirle. E che il loro ammennicolo serve a conferire i crismi dell’incontestabilità fattuale a un fine politico contestabile e soggettivo.
Dall’altro lato, non si può non rimarcare che la censura con ignominia di una nozione ripetutamente suffragata dalle migliori conoscenze scientifiche, avvenga proprio negli stessi mesi e negli stessi contesti in cui si assiste a un’esaltazione pubblica senza precedenti de «la scienza» come criterio supremo della conoscenza e del diritto. Di una scienza le cui «evidenze» devono trionfare su tutto: sulle opinioni e sulle libertà dei singoli, sui parlamenti e, quindi, sui fondamenti del governo democratico e repubblicano. Perché la scienza, dicono, «non è democratica». Ma nel caso osservato, un’asserzione scientifica consolidata diventava invece «fuori luogo e inopportuna» non portando acqua all’universalismo omologante, più che tollerante, del vertice. Ciò sembra suggerire che «la scienza» e «la verità» servano a fingere l’universalità degli obiettivi particolari di chi le brandisce («vota la scienza») e a relegare i critici nella gogna della «bufala», del «complottismo» e dell’«odio». Che siano cioè «non democratiche» finché servono a interdire la coesistenza democratica delle opinioni. Diversamente non servono, danno anzi fastidio.
Fonte: http://ilpedante.org/post/ciucchi-senza-confini
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