Guerra commerciale sui dazi e disarmo nucleare. Come si intrecciano le partite più difficili sullo scacchiere mondiale
Donald Trump sospetta che Xi Jinping abbia sabotato il summit con Kim Jong-un a Singapore il prossimo 12 giugno. Ventiquattro ore prima di cancellare il faccia a faccia con Kim – che alla fine è stato confermato – l’inquilino della Casa Bianca aveva manifestato contrarietà nei confronti del presidente cinese. Lo aveva definito “un giocatore di poker di classe mondiale”.
Il sospetto era che dietro ai durissimi attacchi sferrati dal leader nord-coreano alla linea americana della denuclearizzazione “immediata, verificabile e irreversibile” – giunta in risposta allo spauracchio di Gheddafi agitato da John Bolton e Mike Pence – ci fosse la regia della Cina. Il 24 maggio scorso, era stato Trump a scrivere al leader di Pyongyang, giocando d’anticipo e cancellando l’atteso summit a causa dell'”aperta ostilità” mostrata dal regime nordcoreano.
Il nervosismo di Trump contro la Cina di Xi è sfociato nella rottura della pax commerciale, foss’anche per ottenere maggiori concessioni in vista dell’arrivo a Pechino del segretario al Commercio Wilbur Ross per il terzo round di colloqui a Pechino (2-4 giugno) che si è concluso senza accordo.
Pechino ora minaccia di annullare gli accordi fatti finora se gli Usa continueranno sulla strada delle tariffe. Lo spettro di una ‘trade war’ tra le due principali economie del mondo è ancora dietro l’angolo.
I due piani sono sovrapposti: sfidarsi sul commercio può servire a ottenere concessioni più ampie anche su altri campi. Difficile leggere le foglie di tè (così i cinesi alludono alla pratica di interpretare le politiche del Pcc). Ma una cosa è certa: “La Repubblica popolare si sta muovendo in maniera molto scaltra per contrastare la linea anti-cinese di Trump”, dice in una intervista all’Agi Claudia Astarita, docente di politica cinese a SciencesPo-Campus Le Havre, esperta di questioni coreane.
I timori di Pechino
C’è stato un momento in cui la Cina ha avuto paura di restare marginalizzata dallo scacchiere coreano (qui un recente articolo del Global Times). Non era un timore infondato: nella prima fase dei negoziati – archiviata l’escalation missilistica – Kim Jong-un aveva accettato di ripristinare il dialogo a patto che la Cina ne restasse esclusa. “Me lo hanno confermato funzionari sud-coreani in una recente missione a Seul su invito della Korea Foundation e del governo della Corea del Sud”, dice Astarita.
Il timore di perdere un posto “che gli spetta” spiega la caparbia con cui Xi ha riannodato i fili del dialogo con il riottoso alleato. “Se Pyongyang avesse aperto prima con Washington e con Seul, sarebbe stato uno smacco enorme per Pechino”.
Kim è stato un osso duro: Xi ha dovuto ingoiare una serie di bocconi amari. C’è stato il flop della missione del commissario Song Tao, cui sono seguite una serie di richieste di visite di alto livello che il dittatore nord-coreano ha gentilmente respinto al mittente.
La Cina ha lavorato su tre fronti: primo, ha agito in coerenza con la volontà delle Nazioni Unite e degli Usa, imponendo sanzioni più rigide (anche se la ripresa delle attività nella città industriale di Kaesong dopo il summit inter-coreano del 27 aprile scorso deve aver fatto parecchio insospettire gli americani); secondo, ha ricostruito sottobanco i rapporti con la Corea del Nord; terzo, ha suggerito di negoziare con Trump una formula di denuclearizzazione progressiva basata sulle concessioni reciproche.
È così che Pechino è riuscita a riaffermare la centralità nella penisola coreana. A dirlo sono i fatti. Kim è andato a incontrare Xi ben due volte: la prima a Pechino a marzo, la seconda a Dalian a maggio. “Nel giro di pochi giorni gli articoli anti-americani che campeggiavano nei siti di propaganda nord-coreana erano spariti nel nulla”, dice Astarita.
In quel momento si è compiuta la vera metamorfosi del giovane dittatore: Kim è diventato d’un tratto il migliore amico di Trump. “Un cambiamento sostanziale che la dice lunga sul Paese che più di altri può influenzare il dialogo con la Corea del Nord: chi se non la Cina?”.
Ora Xi non ha più paura. “Ha visto Kim già due volte, Trump neanche una. Non è un dettaglio da poco”, continua Astarita.
Ma attenzione: Pechino non vuole sostituirsi agli Usa. “La Cina ha ottenuto ciò che voleva: è stata riconosciuta come attore chiave dei negoziati. Preferisce che le venga riconosciuto il ruolo di potenza necessaria per portare avanti una mediazione di successo”.
Quando Kim ha alzato la posta in gioco, rispolverando una retorica offensiva nei confronti degli Stati Uniti, il ritorno delle tensioni non sono state la conseguenza del riavvicinamento tra Pechino e Pyongyang.
Tutto il contrario: “È merito della Cina – sottolinea Astarita – se poi Kim è tornato sui suoi passi: la risposta conciliante alla lettera con cui Trump annullava il summit è frutto dei buoni consigli di Xi, che deve avergli suggerito di abbassare i toni per non perdere un’opportunità straordinaria”.
Per Astarita, Trump ha ragione: Xi è un leader scaltrissimo. “Anche su altri tavoli ha dimostrato di essere sempre più abile nel gestire i propri interessi strategici”. Non è escluso che Kim avesse riacceso la miccia delle tensioni contro gli Usa per una eccessiva fiducia nei confronti del nuovo appoggio cinese. “Il presidente americano si è reso conto che la Cina ha molta più capacità di interferire sui suoi piani di quanto potesse immaginare”.
La tregua commerciale raggiunta a Washington il 19 maggio scorso è il segno plastico del successo della strategia cinese: “Più Pechino riesce a influenzare Paesi con i quali l’America ha questioni importanti in sospeso, più può ottenere concessioni dall’Amministrazione Trump il cambio del sostegno su questi tavoli. Più diventa necessario per Washington collaborare con Pechino per risolvere crisi pericolose, più la prima sarà costretta ad accomodare le richieste della seconda, ammorbidendo quindi la sua linea nei suoi confronti”, ha scritto Astarita in un recente articolo su Panorama.
Peccato che il capo della Casa Bianca, dopo neanche dieci giorni, abbia rotto la tregua con l’ultima accelerazione sui dazi. “Non è escluso che dietro ai nuovi dazi, ci sia la contrarietà di Trump che non riesce a trovare la quadra sulla denuclearizzazione. Finché i dazi non arrecano danni concreti all’economia cinese, la Cina non si preoccupa”.
Gli asiatici hanno imparato a non dare troppo credito alle boutade del presidente americano: lo dimostra la reazione veloce ma pacata del governo cinese, che ha messo in campo misure di segno opposto in risposta al rinnovato protezionismo americano.
Nel frattempo cresce la fiducia sui progressi diplomatici tra Stati Uniti e Corea del Nord, in vista del summit tra i due leader. Il vertice tra Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un si terrà come previsto il prossimo 12 giugno a Singapore. Lo ha annunciato lo stesso Trump dopo un’ora e venti minuti di colloquio nello Studio Ovale con il vicepresidente del Comitato centrale del Partito dei Lavoratori, il generale Kim Yong Chol, giunto a Washington con una lettera da parte di Kim Jong-un. Il presidente Usa si è detto sicuro che il processo di pace si concluderà con un successo, e che la trasformazione della Corea del Nord potrà avvenire sotto la guida di Kim. Mentre congela le nuove sanzioni già pronte per la Corea del Nord, Trump ha accettato – a quanto pare – che Pyongyang non rinunci immediatamente al suo arsenale nucleare: il capo della Casa Bianca è ottimista sul processo di denuclearizzazione, che resta il vero nodo delle trattative.
“Corea del Nord e Stati Uniti – ha detto Astarita – hanno trovato una convergenza di interessi su tutta la linea, dal trattato di pace alla denuclearizzazione. Ora possiamo avere la certezza che entro la fine dell’anno arriveremo al trattato di pace, e che un processo di denuclearizzazione lento ma progressivo verrà finalmente avviato. L’ esito di questa trattativa sembra dimostrare che tutti gli attori coinvolti hanno fiducia nelle buone intenzioni di Kim”
Kim, Moon e Xi hanno obiettivi convergenti: vogliono firmare un trattato di pace e riaprire il dialogo, soprattutto per rafforzare la cooperazione e la stabilità nella regione.
Chi desidera di più la pace è il leader nord-coreano, il quale vuole uscire dal regime sanzionatorio e rilanciare l’economia (per quanto i dati economici escludono che l’economia sia sull’orlo della catastrofe, anche perché le sanzioni sono facili da aggirare).
Kim vuole trasformare la Corea del Nord in una piccola Cina?
“Vogliono costruire Trump Tower e aprire il McDonald’s”, aveva detto alla CNN un advisor del presidente sud-coreano Moon Jae-in, il vero artefice del disgelo. Un regalo a Trump? Secondo l’influente quotidiano asiatico Asia Nikkei, Kim potrebbe rivelarsi un leader riformatore. Ma per sviluppare il capitalismo – di cui non ha grande conoscenza nonostante gli studi di economia in Svizzera – non prenderà lezioni dal presidente a stelle e strisce. Chiederà invece consiglio alla Cina, che negli ultimi 40 anni ha promosso il libero mercato con l’appoggio di uno Stato autoritario, sviluppando il capitalismo con una certa forma di neoliberalismo.
“Oggi la Corea del Nord – elabora Astarita – non ha le competenze per capire come indirizzare le riforme economiche. Gli unici Paesi in grado di aiutarla sono Corea del Sud e Cina. Dietro la decisione di riallacciare i rapporti con Pechino, si cela la necessità di confrontarsi con un interlocutore in grado di suggerire le scelte giuste, mantenendo un regime autoritario”.
L’obiettivo ultimo di Kim – ricordiamolo – è la sopravvivenza del regime. Una cosa è certa: se Pyongyang si rivolgesse alla Cina per un aiuto sulle riforme economiche, per Pechino sarebbe il coronamento di un sogno. “Un successo da sbandierare nel momento in cui crescono anche in Asia i sentimenti anti-cinesi mentre la Cina sta cambiando la retorica del soft power, con la creazione di un modello da esportare: non da copiare, bensì da adattare”.
FONTE: https://www.agi.it/estero/agichina/cina_usa_corea_del_nord_dazi_singapore-3981190/news/2018-06-04/
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