Un arcipelago di elementari disegnini compongono l’etichetta argentea. Una stella che galleggia sul mare; dei cuoricini sparsi qua e là; un simpatico occhio smorto, effigie del nuovo glamour. Al centro, la firma del mandante di questa tragedia estetica: Evian, acqua di lusso. È questa l’immagine che è rimbalzata sui social network e che ha fatto scatenare il popolo del web. Alla modica cifra di 8€ si può acquistare una bottiglia la cui etichetta è letteralmente pasticciata da uno dei più importanti personaggi del nuovo spettacolo: Chiara Ferragni, la diva che si è fatta su Instagram. Un ottimo prodotto per clienti disidratati di illusioni, con i suoi 75 cl di puro spettacolo.
La commercializzazione di questa bottiglia custodisce in sé un aspetto penoso: anche l’acqua – un bene essenzialmente primario e inalienabile – può essere gettata in quel macchinario tritatutto che è la spettacolarizzazione. Per Evian non è una novità costruire campagne di marketing di questo tipo. Sono infatti note le sue numerose collaborazioni con stilisti del calibro di Kenzo, Jean Paul Gaultier e Christian Lacroix. E giustamente, il marchio non rinuncia al rinnovamento. La pubblicità – mondo in continuo mutamento – lentamente rottama i vecchi personaggi dello showbiz televisivo, affidandosi ad un particolare cosmo di volti che popola internet: gli influencer. Instagram è infatti la nuova frontiera dello spettaccolo e della simulazione; la quintessenza dell’immagine e dell’apparenza; il nuovo spazio dell’iperrealtà sociale. Dice Guy Debord in La società dello spettacolo:
il mondo si trova sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che nello stesso tempo si fa riconoscere come il sensibile per eccellenza.
In quella bottiglia c’è tutto questo: il nome di Chiara Ferragni viene prima del bene fisico e reale; l’immagine è più importante dell’acqua che viene venduta.
Indagare sull’acqua della Ferragni può essere utile per evidenziare aspetti della nostra società che altrimenti spesso s’ignorano. L’intenzione di questo articolo non è fare del moralismo fine a se stesso, ma usare questo fenomeno – tanto quotidiano quanto estremo – come spunto per una riflessione su ciò che contraddistingue la nostra epoca. Il tema è: cosa si compra alla cifra di 8€ acquistando quella bottiglia d’acqua? Ciò che si acquista non è il bene reale, ma è innanzitutto il segno e l’immagine che quel bene incarna: un segno costruito semioticamente per incrementare il valore del bene. Tant’è che l’acqua passa in secondo piano: il consumatore acquista quella bottiglia perché ha il nome impresso della Ferragni, la cui firma garantisce l’infusione nell’oggetto del suo stile e del suo modo di vivere. Il consumatore che decide di comperare quella bottiglia, mette nel carrello i momenti pubblici dell’influencer italiana; le sue foto pubblicate su Instagram; il suo stile di vita; i suoi successi; i suoi sogni. Siamo nell’epoca in cui è la mappa che precede il territorio; è la mappa che genera il territorio direbbe Baudrillard. In questo caso è l’immagine glamour di Chiara Ferragni a far si che quell’acqua possa esistere. Un capovolgimento aberrante, considerata l’entità del bene in questione. L’estetica si materializza. Tutto diventa un immagine, un segno, uno spettacolo: un oggetto transestetico.
È la simulazione, insieme all’attività delle immagini, a costituire il principio organizzativo della società postmoderna. Con simulazione s’intende il modo di rappresentazione del reale che non ha però né origine, né realtà: il reale viene sostituito con i segni del reale. In un mondo formato da simulazioni e simulacri, gli individui fuggono dal deserto del reale per rifuggiarsi nell’estasi dell’iperrealtà, in cui le immagini e le virtualità dei computer, della televisione e dell’esperienza tecnologica compongono un universo più reale del reale. Persino le identità degli individui nella postmodernità e nel consumismo si formano tramite l’appropriazione di immagini e codici, usati per percepire la propria soggettività e relazionarsi con l’Altro. Il risultato? Identità fragili perse nella ricerca continua di segni di cui appropriarsi per poter esistere.
I fratelli Wachowski si sono ispirati al pensiero di Baudrillard per realizzare il film Matrix, nonostante il filosofo ne abbia disapprovato i risultati perché “Queste persone considerano l’ipotesi del virtuale come un dato di fatto e la trasformano in fantasma visibile”:
Viviamo dunque in una civiltà in cui il canone culturale di riferimento è quello dell’immagine. Come si è giunti sino a questo punto? Qual è il significato di questo sbilanciamento del canone a favore dell’immagine invece che della parola? In Il futuro dell’immagine, Federico Vercellone ripercorre la storia di un conflitto insito nella comunicazione e nella trasmissione culturale: quello tra immagine e parola, i quali si sono da sempre contesi il ruolo di medium comunicativo di riferimento.
Come spesso accade, occorre osservare Platone per risalire all’origine di questa vicenda, essendo il primo ad aver relegato l’immagine nel territorio dell’apparenza: essa è un illusione sulla base della creazione di una terza dimensione – la profondità – che risulta in verità inesistente perché tecnicamente e artificiosamente realizzata. Non solo: nel X libro de La Repubblica, l’immagine risulta essere una copia di un’altra copia, in quanto è l’imitazione di un oggetto che riproduce a sua volta l’idea, il modello. Un’imitazione che fa appello alla parte irrazionale dell’anima. Il meccanismo di identificazione indotto dalla mimesis non fa altro che destabilizzare la psiche del soggetto, comportando dei danni a livello morale e sociale. Insomma, con Platone si osserva – con la sua preferenza assoluta verso la parola e il discorso – l’incipit del conflitto.
Con Platone – il logos dell’immagine – viene stralciato quasi violentemente dalla vicenda iconica per esservi riammesso a singhiozzo a tappe successive
afferma Vercellone nel suo libro. Una storia che attraversa il neoplatonismo di Plotino, passando per Fichte, Novalis e Hölderlin, attraversando la nascita dell’Estetica nel Settecento – in cui il conflitto viene narcotizzato, perché l’immagine viene confinata nel mondo dell’arte – e giungendo fino ai giorni nostri, in cui si tematizza la nascita della società dello spettacolo. Il tema entro cui ruota il conflitto che si scatena a più riprese nel corso della storia è la questione dell’autoriflessività dell’immagine, che si basa su un modello di riconoscimento di sé e del mondo: si guarda al sé mentre si guarda al di fuori di sé. Emerge così la possibilità di definire l’autoriflessività dell’immagine come una forma adeguata dell’autocoscienza.
Certamente si tratta di una forma diversa rispetto al logos discorsivo: il modello espressivo tipico dell’immagine incorpora al suo interno anche un modello argomentativo e i due, cooperando, realizzano una comunicazione estremamente efficace ed immediata. Il conflitto pertanto non sembra vertere sulla contrapposizione tra verità e illusione, ma tra due modalità distinte di produrre la ragione come sistema di relazioni: quella della parola, tramite una razionalità discorsiva costruita attorno all’attribuzione di un predicato ad un soggetto; e quella dell’immagine tramite
la capacità riflessiva di accogliere l’altro nel proprio riflesso per tornare su di sé
(Vercellone, Il futuro dell’immagine).
Si può prendere come punto di svolta del conflitto l’orazione ut pictura poesis presente nel Del Laoconte di Gotthold Ephraim Lessing, in cui viene dichiarata la separazione delle arti della parola da quelle figurative. Ciò che consegue a questa suddivisione delle arti conduce all’estetizzazione dell’immagine, vicenda che la trasforma in pura forma. L’immagine perde il suo essere istitutrice di mondi e portatrice di senso: il suo significato diventa meramente estetico. Questo passaggio – afferma Vercellone – costituisce la premessa della società dello spettacolo, poiché l’immagine viene privata della sua portata sacrale e questo comporterà, in seguito, l’esplosione dell’immagine estetica nei “liberi territori secolari del mondo”.
Tenendo conto di questo breve percorso, la portata pessimistica dell’improvviso primato dell’immagine nella civiltà dello spettacolo viene certamente ridimensionata: si tratta infatti dell’esito, forse provvisorio, di un conflitto che ha radici antiche. Vercellone sostiene che il carattere illusorio e derealizzante dell’immagine – osservato in primis in Platone – abbia origine nel suo essere un artificio tecnologico e non naturale. Sarebbe la tecnica la responsabile dell’accezione negativa attribuita all’immagine sin da Platone. A fondo della questione pertanto è insita la contrapposizione uomo-natura: l’uomo utilizza la propria conoscenza con scopi performativi e utilitaristici. Questo contribuirebbe ad infondere, nel corso del Novecento, un pessimismo che non ha nulla a che vedere con i reali significati e fattori che emergono dall’uso della tecnica. Perché in ogni caso, bisogna tener conto che la tecnica non è che il risultato di una tendenza presente strutturalmente nella costituzione antropologica dell’essere umano.
Ma la concezione, per molti versi apocalittica, che filosofi come Baudrillard e Debord hanno avuto dell’immagine, si esaurisce con la constatazione che tali concezioni siano fondate sostanzialmente su un pregiudizio? Ovviamente no. Posto che il problema della tecnica non si dissolve certamente con questa argomentazione, occorre sottolineare che la questione dell’immagine non è relativa solamente alla sua costruzione artificiosa, ma soprattutto al motivo per il quale essa viene costruita: alle intenzioni specifiche che contraddistinguono la creazione di questi artifici tecnologici. Si tratta insomma di contestualizzarne l’artificiosità e l’utilizzo. E nella società dei consumi, la produzione delle immagini è funzionale ad un sistema di oggetti e di merci a cui è necessario attribuire dei segni e dei significati per poter essere venduti.
Entrano in gioco a questo punto le immagini, che hanno lo scopo di sedurre i consumatori e di diversificare immaterialmente le merci laddove non ci sono più differenze materiali. Il fine ultimo pertanto risulta essere la massimizzazione del profitto. L’immagine – o il segno-valore, per utilizzare il linguaggio di Baudrillard – viene costruita appositamente per rendere la merce appetibile; per conferirle un senso che altrimenti non avrebbe. Questa grande varietà di segni-valore è opera di tutta una tecnologia semiotica che fabbrica appositamente segni, valori e narrazioni da impiantare nelle merci attraverso la pubblicità. Il problema relativo alla civiltà dei consumi non è solo la mera artificiosità dell’immagine quindi, caratteristica in qualche modo scontata in quanto prodotto dell’essere umano, bensì il motivo per cui l’immagine viene creata – ovvero, la seduzione, la vendita, il controllo – e l’artificiosa costruzione e attribuzione di un’immagine che non appartiene veramente all’oggetto: proprio come l’immagine di Chiara Ferragni non appartiene in maniera reale e autentica a quella bottiglia d’acqua.
Black Mirror – Caduta Libera
La questione non si può dire ancora conclusa però. Essendo l’immagine un logos dotato di una capacità comunicativa e autoriflessiva particolare ed efficace per la sua immediatezza; è anche una forma attraverso cui plasmare la propria identità, nonché una modalità di trasmissione culturale. E in un sistema di merci e di immagini come quello della società dei consumi, quest’aspetto viene amplificato e i valori consumistici diffusi nella società tramite le immagini delle merci. È per questo motivo che, con Bauman, si può dire che
nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce
(Bauman, Consumo dunque sono).
Le immagini del consumo sono così pervasive da penetrare nella società in ogni sua parte, a tal punto che i soggetti si reificano, trasformandosi e comportandosi come le merci: il loro sogno è quello di diversificarsi e di farsi desiderare maggiormente rispetto agli altri consumatori-merce, così da non scomparire in quella massa informe di individui che compone la società.
Da questo punto di vista, Instagram è il fenomeno che riassume meglio il percorso di quest’articolo. Si tratta infatti di un mondo virtuale e iperreale in cui i soggetti si trasformano autonomamente in immagini – spesso modificate e ritoccate – le quali consentono di spettacolarizzare in modo illusorio la propria vita. Un agglomerato di foto e instastory che raccontano chi si è; quanto si vive bene; quali esperienze entusiasmanti si sono vissute. Per competere con gli altri e risultare più appetibili; per dimostrare quanto si è più popolari; per potersi vendere meglio nel mercato sociale. I like e i followers: un nuovo sistema di recensioni del prodotto in vendita. Un dispositivo che trasmette in diretta la propria vita e la rende unica, sotto lo sguardo di spettatori che sognano di divertirsi allo stesso modo. Se il simbolo della coscienza borghese era lo specchio, nel quale il soggetto vi si riflette, convinto di ottenere una vera immagine di sé; i nuovi consumatori hanno una vasta gamma di profili nei social network, in cui riflettere quel fatticcio che è la propria identità. Ma quando il telefono si spegne, cala il sipario e viene rivelata la menzogna. E allora il profilo Instagram diventa una confezione bellissima, al cui interno non c’è nient’altro che il vuoto di una normale esistenza: una merce come un’altra.
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