Monsieur Afrique USA: guardare l’Africa attraverso il parabrezza, non più lo specchietto retrovisore
di L’INDRO (Fulvio Beltrami)
Il nuovo, articolato e complesso approccio all’Africa degli USA affidato a Tibor Peter Nagy. Obbiettivo: ridimensionare l’influenza economica dell’Europa e della Cina, riprendere il controllo del continente
Dopo le disastrose manovre di destabilizzazione dell’Africa, utilizzando gruppi terroristici islamici che si sono rivoltati contro l’Occidente, dopo il tentativo di ingaggiare in Africa una guerra fredda contro la Cina, persa in partenza, e la fallita campagna mediatica contro l’espansionismo cinese nei Paesi africani, gli Stati Uniti sono stati costretti a cambiare radicalmente la loro politica nel Continente.
Una politica estera precedentemente basata su alleati militari strategici quali Etiopia, Rwanda, Uganda, sui protettorati (Liberia), sulla presenza militare dell’Africom, impegnata in una falsa lotta contro il terrorismo internazionale e sulla ‘rapina’ delle risorse naturali essenziali per l’industria americana. Il 48% dei minerali preziosi, ferro, rame, caucciù utilizzati nell’apparato industriale americano vengono importati dall’Africa. Questa percentuale arriva al 68% per quanto riguarda il Coltan, minerale che resiste ad altissime temperature e quindi ideale per la componentistica di smartphone, computer, sistemi satellitari, industria aereonautica e spaziale e nell’industria elettronica in generale.
Grazie al paziente ma costante lavoro di lobby di influenti nazionalisti, come Kenin J. Kelly, Youyi Zhang, Deborah Barutigam e Kevin Gallangher, Casa Bianca e Pentagono hanno radicalmente cambiato l’approccio verso l’Africa, varando la ‘Via della seta Made in USA’. Lo scorso 3 ottobre il Senato americano ha votato una legge che crea la USIDFC (U.S. AGENCY FOR INTERNATIONAL DEVELOPMENT ADMINISTRATOR MARK GREEN ON THE CREATION OF THE U.S. INTERNATIONAL DEVELOPMENT FINANCE CORPORATION – Corporazione degli Stati Uniti per lo Sviluppo Finanziario Internazionale), una nuova agenzia finanziaria rivolta allo sviluppo dell’Africa per contrastare l’impero cinese nel Continente. La legge, denominata BUILD Act, è stata votata in una raro clima di bipartitismo tra repubblicani e democratici, con una maggioranza di 93 voti a favore e 6 contrari.
La USIDFC è destinata a diventare il principale veicolo finanziario degli Stati Uniti per lo sviluppo economico africano che permetterà alla potenza in gravi difficoltà di contrastare l’influenza europea e l’espansione cinese nel Continente. La nuova agenzia si basa sulle idee del Presidente Richard Nixon, che portarono, nel 1971, alla creazione del OPIC, migliorando l’efficacia degli interventi.
Questo nuovo, articolato e complesso approccio verso il Continente, basato sulla cooperazione industriale e pari rapporti tra Stati, necessita di persone di alto calibro, non ultimo in quanto il Presidente Donald Trump ha una visione dell’Africa considerata da molti ‘razzista’ (nel 2017 definì il Continente come un agglomerato di ‘Paesi di merda’), e l’entourage presidenziale non riesce a comprendere le complesse dinamiche africane e, di conseguenza, a prendere decisioni appropriate per migliorare i rapporti e contrastare l’espansionismo cinese.
L’uomo giusto è ‘Monsieur Afrique’, come lo hanno nominato i francesi, ovvero, Tibor Peter Nagy. Nato nel 1949 a Budapest è immigrato negli Stati Uniti, dove si è laureato nel 1972, presso l’Università della Tecnologia del Texas. Dopo aver conseguito la laurea, forte delle sue conoscenze nell’ambito politico e militare americano, Nagy iniziò una brillante carriera diplomatica in Africa, occupando cariche di Ambasciatore in Guinea ed Etiopia. Richiamato in patria, ha occupato la carica del Vice Responsabile per le Relazioni Internazionali presso l’Università della Tecnologia del Texas, prima di essere nominato, dal Presidente Trump, Assistente del Segretario di Stato per gli Affari Africani lo scorso 10 maggio.
Approvata la carica dal Senato il 28 giugno, Nagy ha preso in carica l’ufficio il 23 luglio, trascorrendo i suoi primi due mesi a pianificare una strategia in linea con la nuova politica americana in Africa. Dal 2 al 4 novembre è stato impegnato nella sua prima tournée africana, scegliendo due Stati dell’Africa Occidentale: Guinea (02 novembre) e Mali (4 novembre). La scelta di questi due Paesi non è casuale. Nella nuova politica americana verso l’Africa, oltre alla necessità di contenere la Cina, vi è la necessità di riprendere una politica anti–europea tesa a ridimensionare le zone di influenza economica dell’Unione Europea in Africa.
Visto che il principale attore europeo nel Continente è la Francia, si è deciso di riattivare la guerra fredda attuata contro Parigi degli anni Novanta. Una nuova guerra fredda che non si dovrebbe più basare unicamente sull’appoggio di guerriglie, come successe in Rwanda e Repubblica Democratica del Congo, ma su una agguerrita concorrenza politico-economica. Alcuni osservatori sembrano aver individuato in questa strategia, che passa per l’Africa, l’obiettivo di Washington di indebolire il peso dell’Europa e le sue possibilità di approvvigionamento delle risorse naturali africane, per meglio controllarla e contrastare la minaccia russa sul Vecchio Continente, senza che altri attori europei (principalmente Francia e Germania) possano sviluppare una pericolosa politica continentale ‘europeistica’, che minaccerebbe direttamente l’egemonia americana sull’Europa.
«È molto importante per me la visita in Mali per poter comprendere la situazione e trovare efficaci supporti a questo Paese, che comprendano sia il sostegno all’attuale Governo sia agli accordi di pace di Algeri, di cui le Nazioni Unite nel febbraio 2019 pubblicheranno le loro conclusioni sui progressi realizzati. L’obiettivo degli Stati Uniti è quello di stabilizzare l’insieme dell’Africa Occidentale, lavorare con i governi della regione e distruggere la minaccia terroristica», ha affermato Nagy, in una recente intervista al mensile francese ‘Jeune Afrique’.
Nagy non si sofferma troppo sulla problematica del terrorismo islamico in Africa per evitare di rispondere a imbarazzanti domande di difficile risposta. I gruppi terroristici islamici in Africa sono stati utilizzati per almeno 15 anni (esclusa la Somalia) per destabilizzare potenze emergenti come la Nigeria e i Paesi dell’Africa del Nord. Gruppi come Al-Qaeda Magreb hanno in passato goduto di supporti e finanziamenti dalla CIA e dal Pentagono e rispondono ad un Paese alleato americano in Medio Oriente, l’Arabia Saudita, che a sua volta li finanzia. Il network terroristico creatosi in Africa fa riferimento ad Al Qaeda e al DAESH (conosciuto in Occidente sotto il nome di ISIS), due creature dei servizi segreti americani per destabilizzare il Medio Oriente e contenere Paesi ‘nemici’ quali Siria e Iran. La tattica destabilizzatrice tramite l’utilizzo dei gruppi islamici si è rivelata un boomerang, sia per gli Stati Uniti che per la Francia, costringendo l’Occidente a impegnarsi a distruggere i movimenti terroristici precedentemente favoriti se non creati.
Il Mali rappresenta un Paese strategico nella nuova politica americana nel Continente. La guerra civile è stata creata principalmente dalla Francia, che, supportando i movimenti Tuareg del nord –Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad (MNLA)– e i gruppi terroristici islamici –Ansar Dine, Mujao et Aqmi (Al Qaeda in Magreb)– intendeva indebolire il Governo del Presidente Alpha Oumar Konaré che stava promuovendo una politica nazionalistica anti–francese. Come è successo per la Repubblica Centrafricana, anche in Mali i gruppi islamici alleati di Parigi si sono rivolti contro, costringendo, nel 2013, a intervenire militarmente (Operazione Chervalle).
I soldati francesi in poche settimane hanno liberato la maggior parte delle regioni nord occupate dai terroristi islamici, senza, però, distruggerli, in quanto necessari per future operazioni di destabilizzazione contro Paesi africani ostili alla Francia. Questa decisione, presa dal Presidente François Hollande in sintonia con Washington, si è tramutata nella principale causa dell’attuale instabilità in Mali e nella regione. I gruppi terroristici si sono ripiegati oltre confine, come previsto nei piani militari francesi, ma hanno continuato una guerra a bassa intensità senza abbandonare il progetto di staccare il nord del Mali per integrarlo nel Grande Califfato d’Africa.
La politica americana affidata a Nagy è quella di sabotare i giochi geo-strategici franco-europei nella strategica regione del Sahara, che ingloba gran parte dell’Africa Occidentale sotto il controllo francese, ovvero Mali, Mauritania, Niger, Ciad, Tunisia, Marocco, e altri Paesi quali Libia, Algeria, Egitto. Questa vasta regione è ricca di risorse naturali: gas naturale, petrolio, coltan, oro, rame, etc, il che si traduce in necessità, per Europa e Stati Uniti, di controllare la regione.
La politica francese per il controllo di queste risorse naturali è chiara. Dopo aver distrutto la Libia (governata da un leader forte e non controllabile, Mohamed Gheddafi), Parigi ha iniziato un disgelo con l’Algeria e un incondizionato supporto al regime dittatoriale del generale Abd al-Fattah al-Sisi, in Egitto. Per quanto riguarda le sue ‘colonie’ (le ex colonie) africane Parigi, attraverso la France-Afrique e la sua massiccia presenza militare, tenta di mantenere lo status quo garantito da deboli governi fantoccio, favorevoli agli interessi economici francesi.
Nagy, rafforzando i rapporti con il Mali, e sotto il pretesto della lotta contro quei gruppi terroristici che l’America ha contribuito a far nascere (ora sfuggiti dal controllo occidentale), ha il compito di ridurre l’influenza francese sulla regione per accappiarsi delle immense risorse naturali del Sahara necessarie per l’industria americana.
La guerra sotterranea americana contro l’Europa e la Francia è già partita.
La posizione conciliante verso la vittoria elettorale del Presidente Paul Biya in Camerun, ottenuta tramite frodi elettorali, contrasta con le prese di posizione dell’Unione Europea e della Francia. Nagy ha letteralmente invertito la politica di scontro verso il Camerun precedentemente voluta dal Presidente Trump, al fine di conquistare un prezioso alleato regionale da diversi anni in aperto contrasto con la Francia. In Egitto, Washington sta cercando di portare Parigi in secondo piano, per trasformare la Francia in una alleato accondiscendente per meglio affrontare la gara con la Russia per assicurarsi l’alleanza dello strategico Paese arabo africano.
L’unico punto di intesa con l’Europa rimane la Repubblica Democratica del Congo. Washington, Bruxelles e Parigi sono convinti che il Presidente Joseph Kabila rappresenta un serio ostacolo per gli interessi occidentali nel Congo, Paese che contiene quasi le stesse quantità di risorse naturali del Sahara. Le abili mosse del rais Kabila, hanno bloccato i piani eversivi ideati da Washington, il complotto americano iniziato nel 2012, e i tenatitivi francesi di attuare un cambiamento di regime.
Stati Uniti e Unione Europea non digeriscono la possibilità che l’ex Ministro degli Interni e delfino presidenziale, Emmanuel Ramazani possa ottenere una facile vittoria nelle elezioni di dicembre. Nagy, nell’intervista a ‘Jeune Afrique’, ribadendo la speranza che effettivamente le elezioni si possano tenere il 23 dicembre, afferma che: «rimangono sfide significative per portare avanti il processo. Il regime, ad esempio, ha impedito lo svolgimento di una manifestazione di opposizione a Lubumbashi pochi giorni fa. Questo significa che vuole restringere ulteriormente uno spazio politico già molto ristretto? Aspettiamo di giudicare … Ma oggi, dobbiamo riconoscere che non abbiamo alcuna garanzia sul corretto svolgimento di queste elezioni».
Dinnanzi alla eventualità di una vittoria di Ramazani e, quindi, della continuazione del regime di Kabila, che si sta sempre più orientando verso la Cina, Stati Uniti e Unione Europea sono dilaniati dal dilemma se far buon viso a cattivo gioco, accettando la vittoria del regime, o se abbatterlo militarmente utilizzando Paesi vicini avversi al Congo: Angola, Uganda, Ruanda. Un dilemma di non facile soluzione.
Tibor Peter Nagy si fa promotore della continuità dell’appoggio politico ed economico americano ai principali alleati africani: Etiopia, Rwanda, Uganda, puntando principalmente sull’Etiopia, dove, dal giugno di quest’anno, soffia un promettente vento di radicale cambiamento democratico. Nella sua intervista rilasciata a ‘Jeune Afrique’, Nagy sostiene senza riserve l’attuale Primo Ministro etiope Abiy Ahmed definendolo un vero leader politico che «è riuscito a imporre un incredibile cambiamento democratico interno, aprendo spazi di confronto e non di scontro con l’opposizione».
Ma l’interesse americano verso Abiy non è solo rivolto alla capacità di questo leader africano di aver evitato il collasso di un Paese strategico, che fino a pochi mesi fa era vicinissimo alla guerra civile–etnica, che poteva destabilizzare il Corno d’Africa e, in parte, l’Africa Orientale. L’interesse americano verso l’Etiopia è anche rivolto verso l’Eritrea, verso la quale Abiy è stato l’artefice della inaspettata pace dopo un lungo ventennio di conflitto tra i due Paesi. Nagy considera a ragione l’Eritrea come un Paese strategico, sia per la sua posizione geografica sia per le sue ricchezze naturali. Tramite l’Etiopia intende aumentare l’influenza americana in Eritrea, che necessariamente sarà proiettata verso l’obiettivo di diminuire l’influenza che l’Italia esercita sulla sua ex colonia.
Il rinnovato sostegno all’Etiopia, Rwanda e Uganda ha un prezzo da pagare: l’abbandono del sostegno alle opposizioni e alla società civile. Dall’inizio del secondo decennio del Duemila, Washington ha osservato con preoccupazione la maturità politica dimostrata dagli attuali regimi di questi alleati strategici, nutrendo il timore per la nascita di politiche nazionalistiche contrarie ai propri interessi. In special modo Yoweri Kaguta Museveni e Paul Kagame hanno imposto agli Stati Uniti una collaborazione forte e alla pari non desiderata.
Per rimediare i servizi segreti e USAID avevano deciso di supportare l’opposizione e la società civile, nella speranza di creare dei ‘Movimenti Arancione’, come nell’Europa dell’Est, capaci di attuare un cambiamento di regime favorevole agli interessi americani. La nuova politica statunitense ha costretto a fare un passo indietro, rinnovando il supporto a questi Paesi guidati da leader forti e prendendo le distanze dalle opposizioni interne e dalla società civile, che ora corrono il rischio di veder drasticamente diminuire il supporto finanziario e politico nella loro opera di democratizzazione interna. Questo non significa che Washington accetti Stati dittatoriali, significa che ogni cambiamento democratico in Etiopia, Rwanda e Uganda sia preferibile che avvenga all’interno degli attuali regime, affidabili e sicuri.
Nagy nell’intervista ha negato questa presa di distanza, sostenendo, al giornalista che dava per scontato la presa di distanze degli USA dall’opposizione e dai rappresentanti della società civile, che «Posso assicurarvi che negli ultimi mesi a Washington sono stati organizzati diversi incontri con gli oppositori di alcuni paesi. Sul posto, nulla è cambiato: le nostre ambasciate sono lì per mantenere un dialogo costante con i rappresentanti dell’opposizione e della società civile, anche, a volte, provocando il fastidio dei governi. Parliamo con tutti e continueremo a farlo».
Per quanto riguarda la nuova politica americana in Africa attraverso il BUILD Act e la USIDFC, Tibor Peter Nagy ha le idee chiare, dimostrando che ‘Monsieur Afrique’ è l’uomo più qualificato per realizzare tale politica. «Il nostro interesse cresce man mano che sempre più americani cominciano a realizzare il potenziale dell’Africa. La gioventù africana ha la capacità di aumentare la crescita economica del continente e del resto del pianeta», ha dichiarato. E ha proseguito: «Non posso biasimare gli africani per aver fatto affari per anni con i cinesi, che erano poi gli unici a essere interessati a loro. Il nostro compito ora è mostrare agli imprenditori statunitensi che siamo pronti a sostenere i loro investimenti in Africa. A differenza dei cinesi, possiamo convincerli ma non obbligarli a farlo. Gli Stati africani devono fare la loro parte, creando un ambiente favorevole ed equo per le controversie commerciali, l’imprenditorialità, l’accesso alla formazione … La realtà è che sono le aziende occidentali a creare l’ambiente, chi trasferisce la tecnologia, che sta costruendo il mercato del lavoro di domani in Africa. Abbiamo una visione del continente che è cambiata dalla Guerra Fredda. Lo vediamo oggi come un partner maturo, con un enorme potenziale in molte aree».
Al giornalista che gli chiede come risponde a chi pensa che l’interesse americano per l’Africa sia proporzionale a quello cinese, … risponde con un secco: «Questo è sbagliato!», e conclude che l’America si resa conto che «è opportuno guardare l’Africa attraverso il parabrezza e non più nello specchietto retrovisore».
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