Lo strano viaggio del ministro Salvini in Qatar che ha minato alla base il vertice di Palermo con la Libia
di BUSINESS INSIDER ITALIA (Mauro Bottarelli)
Matteo Salvini a Doha, in Qatar. Imagoeconomica
Cosa unisce il flop annunciato del vertice di Palermo sulla Libia, le tensioni all’interno della maggioranza di governo e la sempre presente ombra russa attorno alle scelte di politica estera della Lega? Forse, il fatto che il ministro Matteo Salvini, formalmente titolare degli Interni, in realtà non opera in modalità multiruolo per ipertrofia dell’ego ma per una precisa scelta: indirizzare proprio la politica estera del governo.
Ovviamente, utilizzando il facile alibi della lotta all’immigrazione clandestina e suoi due mantra accessori: fermare gli sbarchi alla partenza e la famosa strategia in base alla quale chi scappa, va “aiutato a casa sua”.
Insomma, se il ministro dell’Interno, di fatto, si è preso fin da principio l’interim anche della Farnesina è per una ragione pratica, inattaccabile, concreta. Persino logica.
Ci sono però un paio di problemi. Il primo, per così dire di forma. Il secondo, ben più serio, di sostanza. E di sovranità nazionale violata, se si vuole arrivare a questo paradosso.
Appare infatti poco rituale che un ministro dell’Interno viaggi in lungo e in largo anche in Paesi che non hanno alcuna connessione diretta con il problema migratorio, incontri leader non solo partitici ma politici esteri (Viktor Orban, oltretutto in un luogo istituzionale come la Prefettura di Milano) e, soprattutto, non si premuri affatto di nascondere la tentazione di diventare il candidato del sedicente “fronte sovranista” in vista delle elezioni europee del prossimo maggio, puntando dritto alla guida della Commissione.
Si direbbe interesse privato (in questo caso, politico-elettorale) in atto pubblico ma, si sa, in Italia la campagna elettorale permanente non è certo prerogativa del governo penta-leghista. Sarebbe interessante, in tal senso, conoscere però i reali sentimenti che albergano nello spirito e nell’operato di quello che dovrebbe essere il formale titolare della Farnesina, il ministro Enzo Moavero-Milanesi, il quale appare totalmente trasparente nel suo ruolo: semplicemente, le scelte che contano in fatto di politica estera, le fanno altri.
O Giuseppe Conte, vedi la titolarità assoluta sul vertice libico in corso a Palermo o le visite-lampo (senza resoconti o, peggio, comunicazioni alla Camere sui contenuti politici e gli eventuali accordi stretti) negli Stati Uniti da Donald Trump oppure Matteo Salvini, vero globetrotter della diplomazia, dall’amata Russia dove si sente più a casa che in tanti Paesi europei fino all’Africa della tratta dei migranti da estirpare, passando di sfuggita dall’ex amica Austria.
Ieri, poi, il colpo di teatro finale rispetto al “liberi tutti” in atto nel governo, ovvero il cosiddetto giallo sul vertice di maggioranza su Manovra e Libia tenuto dal premier Giuseppe Conte, prima di partire per Palermo, in splendida solitudine con l’altro politico multi-tasking dell’esecutivo, il ministro Salvini appunto. Accompagnato, a quanto sembra, dall’uomo dei conti del Carroccio, il sottosegretario alla Presidenza, Giancarlo Giorgetti. Quest’ultimo, stranamente sparito dai radar dopo l’intervista a Porta a porta nella quale assestò una clamorosa spallata alla Manovra, fissando in 400 punti il livello di guardia dello spread, oltre il quale le nostre banche sarebbero andate in tale livello di sofferenza da necessitare, in alcuni casi, la ricapitalizzazione. Periodo di castigo pubblico?
A fare sensazione, ovviamente, è stata l’assenza dell’altro vice-premier e azionista di maggioranza della coalizione, Luigi Di Maio e, soprattutto, del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, trattandosi di un vertice per fare il punto sulla Manovra alla vigilia della risposta da inviare alla Commissione UE. Ancora più clamorosa, se confermata, la determinazione in base alla quale anche gli inviati del Fondo Monetario a Roma sarebbero stati ricevuti solo da Giorgetti e non dal titolare, almeno formale, della politica economica del governo. Oltre che del suo debito.
I Cinque Stelle hanno immediatamente smentito che si trattasse di un vertice di maggioranza, appuntamento che sarebbe sì in programma ma dopo il ritorno di Giuseppe Conte da Palermo: ovvero, dopo il termine del 13 novembre, entro il quale a Bruxelles attendono la risposta italiana alle critiche sullo sforamento dei conti. Insomma, un vertice per fare il punto della situazione ex post, assoluta novità.
Il portavoce di Giuseppe Conte, il funambolico Rocco Casalino, ha pateticamente tentato di mettere una toppa all’incidente diplomatico, parlando non di un vertice formale ma di un rapido colloquio informale fra primo ministro e titolare dell’Interno, prima di imbarcarsi verso Palermo. Poi, il colpo di teatro: al vertice improvvisato avrebbe partecipato anche Luigi Di Maio. Ma in separata sede, ovvero, Conte avrebbe parlato prima con un vice-premier e poi con l’altro. Motivo del doppio confronto? Sconosciuto.
Al netto di tutto, smentite e conferme, ci sarebbe una sola certezza: mancava solo Giovanni Tria, cioé il titolare della materia, tanto per confermare la natura poco ortodossa delle dinamiche interne all’esecutivo. E per fornire altra materia a Maurizio Crozza in vista della sua imitazione di venerdì prossimo. Insomma, un quadro decisamente pittoresco.
Peccato che in questo guazzabuglio di responsabilità vengano trattati temi di importanza capitale per il Paese, come la sua politica economica, i rapporti con l’Europa e la linea di politica estera.
Ed ecco entrare in scena il vertice di Palermo sulla Libia, quello su cui si sarebbe fatto il punto nel vertice dei misteri (in due tempi, oltretutto) e che, di fatto, sancisce il fallimento della politica estera collettiva e al tempo stesso dilettantisticamente anarchica del governo.
Assenti tutti i big, da Putin a Trump fino all’interessatissimo sul tema Macron. E se il forfait di quest’ultimo appare decisamente poco sorprendente, visti i fallimenti in cui si sostanziarono anche i due vertici simili che organizzò con colpo di mano rispetto ad alleati e Nato nei mesi scorsi all’Eliseo (legittimare quello dei competitor italiani con la sua presenza sarebbe stato un autogol clamoroso), più significative sono apparse le assenze del presidente statunitense e di quello russo, entrambi formalmente amicissimi del nostro governo e del suo primo ministro in particolare. Non sfuggirà alla memoria, infatti, come Donald Trump, nel corso della visita estiva di Conte alla Casa Bianca, addirittura investì il nostro Paese del ruolo guida nella “cabina di regia” italo-americana sulla Libia, mentre non più tardi di due settimane fa l’idillio fra Conte e Putin vide quest’ultimo addirittura azzardare la promessa di acquisti di nostri Btp, una volta che sarà terminato il Qe della Bce.
Foto di gruppo a Palermo: Giuseppe Conte tra il capo del governo unitario appoggiato dall’ONU a Tripoli, il primo ministro Fayez al-Sarraj a sinistra), e l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia Ghassan Salame. Dietro il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian e il capo della politica estera dell’UE Federica Mogherini. Filippo Monteforte / AFP / Getty Images
Entrambi hanno mandato propri rappresentanti. E non i ministri degli Esteri ma dei vice o degli incaricati d’affari, le seconde linee: un po’ come si fa con gli appuntamenti contro le cadette in Coppa Italia per preservare le forze per partite più importanti in campionato o Champions.
Ma al netto della presenza dell’ultim’ora del presidente egiziano, Al-Sisi, la sedia vuota che certifica l’inutilità ontologica del vertice di Palermo è stata quella del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, di fatto il politico libico senza il quale una pace duratura non potrà mai essere raggiunta. Il quale, dopo un pressing diplomatico dell’ultim’ora, è sbarcato in Sicilia ma, al netto della photo-opportunity garantita a Giuseppe Conte (fotocopia di quelle scattate all’Eliseo durante i vertici con Macron e sostanziatesi in nulla a livello pratico, se non il caos libico attuale), ha chiaramente posto dei limiti alla sua presenza: ovvero, nulla che lo possa accomunare al vertice ufficiale, solo incontri bilaterali e a Mondello, non a Palermo. Come dire, darò udienza solo a chi dico io e nel mio “regno”. Il personaggio non è certo nuovo a pose da prima donna ma qualcosa potrebbe essere andato fuori giri nelle ore febbrili che hanno anticipato il suo arrivo in Sicilia, con tanto di missione a Tobruk di incaricati della Farnesina.
Qualcosa che spiegherebbe anche il perché di un’operazione sgomberi a Roma, capace di catalizzare l’attenzione di tutti i media e rinfocolare polemiche mai sopite sul tema immigrazione, organizzata proprio nel giorno clou del vertice palermitano, quasi a voler distoglierne l’attenzione di dosso. O, quantomeno, sviarla.
Cosa, di fatto, potrebbe aver fatto irrigidire così tanto l’uomo forte della Cirenaica?
Al netto del sostegno storico dell’Italia al suo antagonista, Al-Sarraj, in seno alla posizione ufficiale di Onu e Nato, al centro del malcontento ci sarebbe stata la presenza nel capoluogo siciliano di rappresentanti di milizie estremiste ritenute vicine ad Al Qaeda e, soprattutto, del Qatar, a sua volta ritenuto finanziatore proprio delle forze islamiste che mirano a destabilizzare la Libia, in particolar modo la parte controllata con pugno di ferro da Haftar e l’intero contesto mediorientale.
In testa, i Fratelli Musulmani. Lo stesso Qatar che, non più tardi di dieci giorni fa, vide sbarcare in visita ufficiale il nostro ministro degli Esteri ombra – o ad interim -, Matteo Salvini. Il quale, dopo aver in un recente passato (l’ultima intemerata in tal senso risale al 5 giugno 2017) accusato lo Stato del Golfo di essere il cavallo di Troia utilizzato dall’estremismo islamico per infiltrare l’Occidente, attraverso il suo finanziamento miliardario per aperture di moschee e opere di proselitismo, pare aver miracolosamente cambiato idea:
“Il Qatar si sta distinguendo per un certo equilibrio rispetto agli estremismi mostrati in questi giorni da altri Paesi, per esempio l’Arabia Saudita. Vi dico che ho trovato un Paese stabile e sicuro, dove l’estremismo islamico non ha futuro. In più da qui passano milioni di posti di lavoro per gli italiani“.
Magari milioni no ma certamente dall’Emirato passano i miliardi del contratto siglato il 14 marzo scorso da Leonardo-Finmeccanica per la fornitura di elicotteri destinati ad ampliarne la flotta militare. Per l’esattezza, 3 miliardi. E fin qui, nulla di nuovo. E nulla che tutti gli altri Paesi, Francia in testa, non facciano da sempre con Stati che violano platealmente diritti umani e convenzioni internazionali. Pecunia non olet. E non certo da ieri. O dal 4 marzo scorso.
Ma potrebbe esserci dell’altro dietro all’assenza a Palermo del generale Haftar e al Qatar-gate che sembrerebbe sostanziarla, alla luce del neonato entusiasmo del ministro dell’Interno per l’emirato e la sua visione illuminata e moderata dell’islam. Potrebbe esserci qualcosa che ha molto a che fare con l’interesse numero uno che la Libia rappresenta per tutti, presenti o meno al tavolo del vertice-flop organizzato dal governo italiano (il quale, attraverso i suoi rappresentanti, ha raggiunto Palermo solo nel pomeriggio di lunedì, quando tutti i delegati libici erano presenti nel capoluogo siciliano da quello di domenica): il petrolio.
Per l’esattezza, una partnership petrolifera su cui gravano parecchie ombre. E che vede protagonisti proprio due amori del ministro dell’Interno, uno storico – la Russia – e uno neonato ma apparentemente molto appassionato, il Qatar appunto. Al centro della liason, poco gradita allo storicamente filo-russo (per convenienza) Haftar, il sospetto che la banca russa a controllo statale Vtb abbia finanziato in maniera significativa una parte dell’acquisizione di una quota azionaria del gigante petrolifero russo Rosneft da parte della Qatar Investment Authority.
A lanciare l’accusa, citando nove fonti anonime a conoscenza dell’accaduto, la Reuters, la quale dopo aver interpellato Rosneft ha riferito come la banca abbia negato ogni suo coinvolgimento nell’affare. Un affare grosso, però. Avvenuto lo scorso anno e che ha coinvolto il 19,5% di Rosneft, rilevato appunto dal fondo del Qatar e dalla svizzera Glencore.
A far muovere le sue accuse a Reuters ci ha pensato, paradossalmente, la stessa Banca centrale russa, la quale ha tracciato le attività della Vtb, vista la sua natura statale e ha reso noto come quest’ultima abbia garantito prestiti per 6,7 miliardi di dollari ad anonime entità estere. Ma non basta, perché il prestito sarebbe seguito a un altro prestito, questa volta da 5,20 miliardi di dollari e garantito dalla Banca centrale russa alla stessa Vtb. Il sospetto, appare chiaro: il governo russo, attraverso la Banca centrale e un istituto di credito pubblico, avrebbe di fatto finanziato l’acquisizione di una quota rilevante del suo gigante petrolifero da parte del fondo qatariota e della multinazionale svizzera delle materie prime. Tanto più che, quando la notizia dell’acquisizione conquistò le prime pagine lo scorso dicembre, il mercato si attendeva che l’operazione fosse, proprio per la natura statale dell’entità coinvolta, limitata a investitori russi: la partecipazione fu valutata 11,57 miliardi di dollari, per i quali Glencore partecipò con “soli” 324 milioni. Il resto fu pagato, senza ricorso a finanziamento bancario, dalla Qatar Investment Authority. Ma attenzione, perché in un periodo pre-elettorale per Vladimir Putin, con le spese per la difesa alle stelle a discapito di quelle per welfare e pensioni, ecco che le non particolarmente cariche casse statali russe riuscirono a rimpinguarsi con 10,55 miliatdi di dollari dall’operazione, inclusi 270 milioni di extra-dividendi. Rosneft, dal canto suo, ottenne una partecipazione indiretta in Glencore pari allo 0,54%. Manna in un periodo in cui l’entrata fiscale principale, ovvero proprio le royalties energetiche, languiva a causa del prezzo del greggio pericolosamente vicino alla soglia di breakeven fra profittabilità e perdita sul medio termine, anche in base ai parametri russi di costi fra estrazione, raffinazione e vendita. Ultimo tassello ma esplicativo dell’ombra che grava sulla vicenda, il fatto che l’autorità qatariota e Glencore non intendessero mantenere il controllo della quota di Rosneft acquisita ma, bensì, cederla al conglomerato energetico cinese Cefc. Puro business? O una triangolazione Mosca-Pechino da tenere nascosta? O altro ancora?
Qualcosa di strano accadde, visto che il piano venne bloccato dalle stesse autorità cinesi, le quali – avendo già messo gli occhi sulle attività della Cefc – lanciarono un’inchiesta in piena regola che portò immediatamente al siluramento dell’amministratore delegato del gruppo. Al centro dell’indagine, un giro di vite di Pechino su pratiche illecite di business da parte di aziende private cinesi. Insomma, la patria del sistema bancario ombra, massimo dell’opacità finanziaria tollerata per anni, ha voluto mettere un freno all’operazione: un indizio che, al netto del garantismo, appare quasi più di una prova. Perché quella mossa di Vtb, quantomeno economicamente bizzarra? E perché il prestito della Banca centrale russa? Business, ovviamente. E, come anticipato, la necessità di puntellare un gigante di Stato che, con le valutazioni del greggio ai minimi sui mercati internazionali e la crescente concorrenza non solo OPpec ma anche dello shale oil statunitense, cominciava a inviare segnali di malessere. Profondo.
Il problema, però, è anche politico. Perché operare con il Qatar e in quel modo, se confermato, getta un’ombra anche sul profilo da combattente senza macchia di Vladimir Putin contro l’estremismo islamico, medaglia politica di profilo internazionale conquistata grazie all’azione del suo esercito in Siria al fianco delle truppe di Assad, di quelle iraniane e di Hezbollah contro Isis e Al-Nusra. Di più, trattasi della stessa Russia che a più riprese – e non senza ragioni – ha più volte accusato gli Usa e i suoi alleati, Paesi del Golfo in testa, di rapporti quantomeno ambigui verso i tagliagole di Al-Baghdadi e i loro gruppuscoli alleati e satelliti, vedi gli “Elmetti bianchi”.
Il Qatar, poi, è storicamente il finanziatore dei Fratelli Musulmani, una delle ragioni che sul finire della primavera del 2017 portò al suo isolamento internazionale, dopo la dura presa di posizione del Dipartimento di Stato Usa e del Consiglio di Cooperazione del Golfo a guida saudita, in quel momento disperatamente alla ricerca di una nuova verginità rispetto a certe amicizie inconfessabili. E i Fratelli Musulmani sono nemici giurati sia del generale Haftar sia del presidente egiziano Al-Sisi, presente sì quasi in forma di mediazione e supplenza dell’ultim’ora a Palermo, la classica “vecchia gloria” che si invita al’inaguazione di un ristorante che è stata snobbata dai divi del momento, ma con il quale occorre mantenere un profilo estremamente cauto, soprattutto dopo l’affaire diplomatico legato al caso Regeni e il ritiro dell’ambasciatore italiano, strappo ricucito solo di recente dal governo Gentiloni. Insomma, un quadro di interessi e triangolazioni decisamente delicato. Troppo delicato, non fosse altro per il quadro d’insieme che si staglia sullo sfondo: lo sfruttamento delle enormi potenzialità petrolifere libiche, una volta che la situazione nel Paese sarà pacificata. O, nell’attesa, il loro accaparramento mordi e fuggi, sottraendo quote di mercato agli avversari. Come ha fatto Eni recentemente a danno di Total, sfruttando la sponda atlantica e atlantista degli inglesi di Bp.
In un contesto simile, con il vertice di Palermo già organizzato e nel disperato tentativo di non rivelarsi un flop, per quale motivo il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, si è sentito in dover di fare uno spot di quel genere, sfiorando il parossisimo e smentendo le sue stesse posizioni di pochi mesi prima, al Qatar, mettendo a rischio fino all’ultimo secondo la presenza del generale Haftar, rivelatasi poi nei fatti più formale e simbolica che sostanziale? Comunque sia, decisamente ridimensionata. Di più, perché è andato in missione in Qatar, visto che dagli Stati del Golfo non partono barconi e non esiste l’ipotesi di rapporti bilaterali per il ricollocamento, non inviandoci profughi?
Per partecipare alla Fiera delle armi, facendo per l’ennesima volta operazione di lobbying al comparto, già beneficiario della nuova legge sulla legittima difesa? Per, più in generale, perorare la causa del business italiano in un mercato fiorente e molto ricco? Da quando è titolarità del Viminale, però? Non esiste l’Ice, l’istituto per il Commercio Estero? Le commesse militari non dipendono dalla Difesa? E i rapporti internazionali dalla Farnesina?
- Salvini alla fiera delle armi in Qatar. Imagoeconomica
Vista l’ombra delle amicizie internazionali della Lega, domande che meriterebbero una risposta, dato che indirizzano la politica estera del Paese. Nel caso del Qatar, poi, in aperto contrasto con i nostri interessi in Libia, per difendere i quali è stato organizzato il vertice di Palermo. Interessi tra cui spicca proprio la lotta all’immigrazione clandestina su cui ha costruito le sue fortune il ministro Salvini e che, paradossalmente, la sua attività stile pro-loco a favore del Qatar rischia di mettere a repentaglio, dopo che proprio il generale Haftar la scorsa estate minacciò di far cannoneggiare le navi della nostra Marina, in caso entrassero in acque libiche per contrastare i barconi.
Con cosa abbiamo a che fare? Pressapochismo, dilettantismo entusiasta, mancanza di comuncazione nell’esecutivo, eccesso di protagonismo? O c’è dell’altro?
Commenti recenti