Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile. Giorgia Meloni non è certo il primo capo di governo indotto dalle circostanze a recitare l’imbarazzante prosa panglossiana dell’ottimismo ingiustificato.

L’occasione, per lei, giunge dai dati Istat sugli occupati: nell’ultimo anno si registra un incremento occupazionale di quasi mezzo milione di unità. Il governo interpreta la notizia come fosse una prova empirica del suo eccelso operato. Per i media prevalenti anche la più elementare delle verifiche sembra una perdita di tempo: meglio plaudire più presto e più forte degli altri. Eppure, qualche precisazione bisognerà pur farla.

Il primo chiarimento necessario è che, con la sola eccezione dell’anno orribile della pandemia, in Italia incrementi non dissimili dell’occupazione si sono verificati sotto tutti i governi dopo quello di Monti, con un record post-pandemico nei mesi a cavallo tra gli esecutivi Conte e Draghi. Se poi si vuol proprio giocare a chi si prende i meriti, allora bisogna tener conto del fatto che l’occupazione risponde alle politiche di governo sempre con un certo ritardo, che la letteratura scientifica solitamente stima di circa un anno. Per quanto possa suscitarle fastidio, ciò significa che in queste ore Meloni si sta al massimo vantando di una dinamica le cui origini risalgono ai mesi di Draghi, così come Draghi si rallegrava di una crescita eventualmente imputabile alle politiche di Conte, e così via a ritroso.

Ma l’aspetto forse più increscioso, per i candidi di palazzo Chigi, è il confronto con il resto d’Europa. L’Italia registra infatti la più bassa percentuale di occupati in rapporto alla forza lavoro disponibile: appena il 65%, ben nove punti sotto la media europea. Si tratta forse del record negativo maggiormente caratteristico delle specifiche arretratezze dell’economia italiana, essendo determinato soprattutto dalla bassissima quota di occupazione femminile: al di sotto di quella maschile di 15 punti percentuali, il divario più ampio di tutta l’Ue, persino oltre quello di Romania o Grecia. Se esiste un segno incontrovertibile di persistenza nel nostro paese delle tipiche anticaglie del capitalismo patriarcale, è esattamente questo.

Ora, la scienza economica ci dice che quando un paese parte da prestazioni così smaccatamente più penose degli altri, dovrebbe anche disporre di margini di miglioramento maggiori, che solitamente si manifestano in tassi di crescita più elevati che altrove. Ebbene, per adesso questo fenomeno in Italia non si è affatto verificato, tantomeno sotto Meloni. Basti notare che nell’ultimo anno l’occupazione in Italia è cresciuta meno della media europea. Con un effetto sul tasso di occupazione, specialmente femminile, che non è minimamente in grado di compensare l’enorme ritardo rispetto agli altri paesi dell’Unione.

La situazione di arretratezza del capitalismo italiano, del resto, è testimoniata anche da altri dati, che un tempo si sarebbero definiti «di struttura». Un esempio di queste ore è l’annuncio dei quasi tremila licenziamenti di Alitalia. Spente ormai da tempo le abbaglianti luci berlusconiane sugli «imprenditori coraggiosi» che avrebbero dovuto preservarne l’italianità, la ex compagnia di bandiera è ormai ridotta a un osso spolpato.

Mentre Francia e Germania governavano con risolutezza i processi di centralizzazione del settore, l’Italia del trasporto aereo è all’ultimo atto di una commedia dell’anti-politica industriale tutta scritta seguendo il rassegnato precetto di Guido Carli: il governo dell’economia è una roba complessa che possono permettersi solo le nazioni avanzate, mentre ai paesi arretrati tocca solo di abbracciare la croce del libero mercato e sperare che gli vada bene.

Al di là delle fanfare panglossiane della destra di governo, a noi non sta andando affatto bene. Al punto che anche parlare di declino sembra un eufemismo. La verità è che i capitani del capitalismo italiano e i loro fedeli servitori al governo sembrano ormai capaci di una cosa soltanto: crogiolarsi in un’apologia del sottosviluppo.

FONTE:https://ilmanifesto.it/lapologia-del-sottosviluppo