Caccia in Crimea e scambi di accuse fra Russia e Ucraina
AEREI E ACCUSE FRA MOSCA E KIEV [di Martina Napolitano]
Il ministro della Difesa russo Sergej Lavrov ha annunciato il dispiegamento di una decina di aerei da guerra in Crimea: il loro arrivo è previsto per il 22 dicembre. Diverranno parte di uno schieramento permanente nella penisola annessa nel 2014. Già a fine novembre, sempre in Crimea era giunta un’ulteriore batteria di missili S-400.
Il 5 dicembre il ministero della Difesa ha comunicato che Kiev starebbe progettando un’offensiva nel Donbas per la fine dell’anno. Il Cremlino quindi risponde preventivamente inviando missili e aerei militari in una zona che considera non soltanto sua, ma minacciata e da difendere.
Mosca, d’altronde, continua a ritenere legittimo l’arresto dei marinai ucraini seguito allo scontro navale di poche settimane fa nello stretto di Kerch. Non solo: un tribunale russo ha prolungato lo stato di fermo fino a gennaio (la pena per “superamento illegale della frontiera russa” potrebbe portare fino a sei anni di reclusione) e il 6 dicembre anche uno dei legali dei militari è stato tratto in arresto. Secondo un recente sondaggio, il 93% degli intervistati considera legittime le azioni russe e il 73% tende a pensare che siano stati gli ucraini a provocarle.
A Kiev, invece, sono le autorità ucraine a temere che la Russia stia preparando un’escalation nel Donbas. Oltre a cercare di isolare economicamente il porto di Mariupol, i russi starebbero pianificando un’offensiva terrestre. Fonti militari parlano di uno schieramento di carri armati T-62 lungo il confine orientale del paese. Gli Stati Uniti, nella persona dell’inviato speciale per l’Ucraina Kurt Volker, confermano. Il 13 dicembre il premier ucraino Vladimir Grojsman ha inoltre proposto di ampliare le sanzioni contro la Russia.
XI E RIFORME
Nessuno può dettare alla Cina cosa fare e cosa non fare. E Pechino non intende deviare dal cammino del “socialismo con caratteristiche cinesi” avventurandosi in riforme azzardate. Questi i due principali messaggi lanciati dal presidente Xi Jinping con un discorso in occasione del 40° anniversario dal lancio del programma di riforme di Deng Xiaoping, passato alla storia come la serie di decisioni che ha cambiato il volto economico e sociale della Repubblica Popolare.
Xi è tra due fuochi. Sul fronte internazionale è impegnato nella sfida a tutto campo – per nulla limitata al suo versante più visibile, quello commerciale – con gli Stati Uniti, bersaglio nemmeno troppo implicito del monito di non provare a imporre ricette. Ma il leader cinese si deve guardare anche dal fronte interno. È di recente emerso in pubblico qualche segnale di scontento a proposito della traiettoria economica del paese, del cui peggioramento viene accusata la dirigenza del Partito comunista, rea di aver eccessivamente accentrato il potere, di essere troppo vicina agli interessi delle potenti imprese statali e di sacrificare per questo l’imprenditoria privata. Ossia della stessa classe media di cui Pechino ha bisogno per dare maturità e stabilità alla propria economia.
RIARMO GIAPPONESE
Per la prima volta dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, il Giappone vuole le portaerei. Lo sviluppo era nell’aria: puntando sulle portaelicotteri e aumentando il loro margine di manovra, Tokyo aveva già segnalato di voler tornare a essere potenza marittima. Ora il governo Abe ha autorizzato la modifica delle portaelicotteri per permettere a queste navi di far decollare e atterrare gli F-35, di cui nel frattempo ha triplicato gli ordini, per arrivare a dotarsi di 147 cacciabombardieri di ultima generazione. L’annuncio si accompagna alla rassicurazione che il Giappone non intende dotarsi di vere e proprie portaerei. Ma la concessione alla postura pacifista non altera la sostanza strategica.
Innanzitutto, la mossa si inserisce nel quadro di un aumento record della spesa militare (27 trilioni di yen in cinque anni), di un maggiore investimento sulle capacità cibernetiche e sull’intelligenza artificiale, di un innalzamento dell’età pensionabile dei militari per tamponare gli effetti della crisi demografica e dell’installazione di due batterie antimissile Usa sul proprio territorio.
L’arcipelago si sta attrezzando a convivere con una regione potenzialmente più disputata, percependo come non più scontata e automatica la protezione degli Stati Uniti e soprattutto come più aggressiva la ricerca d’influenza da parte di Pechino. Sa che lo strumento militare è necessario a partecipare più attivamente al contenimento della Cina e a tessere alleanze nel Sud-Est asiatico attraverso visite portuali, esercitazioni e un domani, chissà, anche offerta di protezione. Il riarmo nipponico non annuncia dunque guerra, ma maggiori responsabilità di Tokyo nel plasmare l’ambiente circostante.
A COLLOQUIO COI TALIBAN
Che gli Stati Uniti parlino con i taliban non è più un mistero. Però le ultime trattative sull’Afghanistan in ordine temporale, quelle avvenute in questi giorni negli Emirati Arabi Uniti, meritano di essere annotate per almeno tre aspetti.
Primo, per chi era presente. Per la prima volta, hanno partecipato anche gli emissari del governo di Kabul. I portavoce degli insorti negano di averci parlato, ma la sostanza è la stessa. La Russia aveva provato a sponsorizzare una grande conferenza per il futuro dell’Afghanistan, ma senza gli americani e l’esecutivo di Kabul è difficile ottenere risultati concreti. Apparentemente, si dibatte sull’annuncio da parte dei ribelli di un cessate il fuoco; gli Usa dovrebbero ricambiare fissando una data per il ritiro, non si sa se parziale o completo.
Secondo, per chi ha facilitato. Washington ha pubblicamente ringraziato il Pakistan, da sempre l’attore più influente presso i taliban, avendo contribuito alla loro nascita negli anni Novanta. Negli ultimi mesi gli Usa hanno messo alle strette Islamabad in molti aspetti (aiuti finanziari, rapporto con la Cina) e ora i pakistani provano a smorzare la pressione mostrandosi collaborativi.
Terzo, per chi ha ospitato. Normalmente a farlo è il Qatar, sul cui territorio sorge l’unica rappresentanza diplomatica dei taliban. Stavolta però hanno organizzato gli Eau, ulteriore segno dell’ascesa al protagonismo degli Emirati, a danno proprio di Doha, oggetto di boicottaggio da parte delle altre petromonarchie. Eau, Pakistan e Arabia Saudita (che pure ha mandato degli emissari) sono gli unici tre paesi che negli anni Novanta riconobbero il regime talibano.
Nessuno di questi tre punti autorizza a concludere che da questa tornata negoziale escano soluzioni durature. Però si può essere ragionevolmente sicuri che si è entrati nel dettaglio.
COMANDO SPAZIALE
L’amministrazione Trump sta per ricreare il Comando per lo Spazio. Entro la settimana verrà siglato un ordine esecutivo che concentrerà le funzioni legate al cosmo nell’undicesimo comando combattente delle Forze armate Usa. Con questa espressione si intendono le strutture militari specializzate in un’area geografica o in una particolare funzione (cyber, forze speciali, trasporto, armi nucleari) e sono dotate di una certa autonomia, anche decisionale. Si tratta di un ritorno poiché nel 2002 l’esistente Comando per lo Spazio venne inglobato nel Comando strategico, deputato alle armi atomiche. Non ha però nulla a che vedere con il piano di Trump di creare una Space Force, ossia un corpo a sé stante affiancato a Esercito, Aeronautica, Marina, eccetera. In ogni caso testimonia che Washington torna a ritenere non più nella propria assoluta disponibilità anche questa dimensione.
RIASSUMENDO CON UNA CARTA
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