L’erosione della credibilità del gruppo dirigente nel nostro Paese procede da tempo ben al di là delle contingenze di singole crisi. L’affacciarsi di movimenti nuovi è stato, dal periodo di Mani Pulite, regolare e costante.
Lega, Italia dei Valori, Movimento a 5 stelle e la stessa Forza Italia, tutti segnati, anche se in diversa misura, dagli accenti della demagogia e del populismo, hanno rappresentato e rappresentano fenomeni più o meno duraturi, alcuni all’apice, altri già riassorbiti ed altri ancora in via di riassorbimento, mentre le sigle storiche rivedute e corrette oggi non rappresentano che una minoranza dell’elettorato.
Elettorato anch’esso in evidente contrazione attestandosi stabilmente ormai il voto attorno al 50% degli aventi diritto.
La preoccupazione con cui alcuni guardano alla impreparazione tecnica e politica dei nuovi esponenti, elementi che darebbero l’immagine di un Paese senza guida, andrebbe utilmente indirizzata, piuttosto, verso la comprensione della mancanza di credibilità ormai endemica che ha colpito i cosiddetti quadri storici che avrebbero dovuto essere, sulla carta, quelli preparati ed efficienti. Ed i sommovimenti recenti rappresentano vivacemente la necessità diffusamente sentita di liberarsi di loro.
Ben oltre le singole crisi dobbiamo oramai considerare questo fenomeno della loro erosione di credibilità come quello di un declino complessivo le cui radici risalgono indietro nel tempo e di cui il trattato di Maastricht, che ha dato inizio alla stagione dell’unità Europea, ha contribuito ad amplificare la portata sottraendo porzioni importanti di legittimità ai gruppi dirigenti nazionali, spesso con la loro complicità compiaciuta, quasi fosse un destino segnato se non agognato.
E se le dinamiche di cambiamento sono, se attive, quelle in grado di preservare nel tempo le capacità politiche delle classi dirigenti che così si rinnovano, è nell’impedimento a queste dinamiche che andrebbe cercato il motivo di questo loro tramonto.
Alcuni fatti drammatici degli anni settanta assumono, in questa visione prospettica, un carattere di tragicità assoluta e di svolta terminale.
L’omicidio Moro diventa, con lo sguardo di oggi, un evento che investe la parte forse non più autorevole, ma sicuramente quella più centrale e strategica, di quei gruppi dirigenti, quella cattolico-democratica, instradandola finalmente verso un destino drammatico da cui non riuscirà più a sollevarsi. Lasciando progressivamente senza voce politica adeguata un intero settore di questo Paese.
Si pensi al quadro che emerge dalle memorie di Steve Pieczenick addetto al Dipartimento di Stato Americano e inviato in Italia da Jimmy Carter per la gestione della crisi riguardante il rapimento Moro.
“Capii, a un certo punto, che l’unica soluzione politicamente accettabile era che Moro non tornasse vivo dalla prigionia e mossi tutti gli apparati per non dare altra soluzione alle BR che l’uccisione del prigioniero. Comunicai le mie impressioni a Cossiga che fu d’accordo. Non ho motivi di pensare che non avesse informato Andreotti.” Alle forze di polizia e al generale Dalla Chiesa che sapevano dove era detenuto lo statista fu detto di non intervenire e Moro fu ritrovato morto.
Quindi il Ministro degli interni democristiano in accordo col Presidente del Consiglio democristiano operarono per la morte del Presidente della Democrazia Cristiana mentre, a poche centinaia di metri, Papa Paolo VI ancora attivamente agiva perchè questo non accadesse.
La nemesi portò tutto il carico di eversione accumulato nei decenni a scaricarsi nel campo di coloro che alternativamente ne avevano agito come garanti e beneficiari e, nascostamente in tante loro parti, come parte attiva nel sovvertimento della dialettica sociale e democratica. Il progetto politico moroteo, di rinnovamento tramite un coinvolgimento dei comunisti al governo, non vide mai veramente la luce e Paolo VI, dopo aver personalmente pronunciato, con gesto irrituale che non ha precedenti nella storia della Chiesa, l’omelia ai funerali di Moro (che lì ebbe a definire “uomo mite, buono, saggio, innocente ed amico”), si ammalò e morì pochi mesi dopo. Gli succedette un pontefice ‘filoatlantico’ (anche se a volte suo malgrado) che certamente a Piezcnick sarebbe piaciuto. Il generale Dalla Chiesa fu trucidato quattro anni dopo in un attentato in Sicilia. Di quel Partito e di altri, travolti dagli scandali e dalla cecità, quindici anni dopo non restava nulla. Così come del fragile dettato cattolico in politica, con la sua ‘eresia’ di mediazione interclassista, eretica perchè basava se stessa sull’esistenza delle classi, da allora, si sono perse le tracce, cancellato in un mese, quasi con atto burocratico, e definitivamente consumato poi nella subalternità alle logiche egemoniche di quel pensiero unico che davvero cattolico, o anche solo cristiano, non è stato mai.
La Democrazia Cristiana forgiatasi nelle asprezze del ventennio e della lotta antifascista soccombeva alle contraddizioni imposte dal realismo politico della guerra fredda. Dopo di allora i dirigenti di quel partito Zaccagnini, Martinazzoli e lo stesso Andreotti entrano nel cono d’ombra della storia politica, protagonisti irrilevanti per non aver compreso, per non aver potuto o non aver voluto.
La tragedia si era consumata, di fatto, in quella compagine e tutti gli altri attori, a cominciare dai brigatisti, apparvero, fragorosamente e loro malgrado, come comprimari passivi. La democrazia italiana una volta di più, una volta ancora, l’ultima di quella Repubblica, non riuscì a smarcarsi, e nel modo più tragico, dal proprio destino di subalternità eversiva.
L’interrogativo che ci riguarda oggi è rivolto a comprendere chi e come abbia politicamente sostituito quei gruppi dirigenti e quel partito. E soprattutto quale pensiero caratterizzi oggi quel settore moderato. Risposta non facile, come si è visto in partenza, sostanzialmente perchè l’assunto di fondo da allora, che le classi non esistono, si è dimostrato errato.
Una società ormai attraversata dal pensiero unico ha aperto la strada ai vessilliferi dei poteri forti e alla loro ambizione di rappresentarla tutta riducendo il confronto politico elettorale sui piani contrapposti delle leadership individuali da un lato e del livello etico dall’altro, proprio mentre si era aperto il vaso di Pandora delle liberalizzazioni che avevano trasformato il Paese in una terra di conquista per appetiti della più varia natura. I controllori e i controllati escono così dallo stesso canestro e i ruoli come gli spazi di mediazione e di garanzia divengono risibili e volatili. Dimenticata e sradicata l’antica lezione dell’Europa post-bellica che i poteri forti si bilanciano con forti organizzazioni di classe, ai cittadini viene somministrata a dosi da cavallo l’utopia unica che il caro leader e un governo forte li tutelino magicamente nei confronti di quegli stessi poteri che però sono appena stati assunti come unico riferimento e come unico soggetto economico in campo.
Lo Stato da strumento di mediazione sociale diviene strumento di gestione del consenso in conto terzi.
Parallelamente, a supporto, quella del ‘politicamente corretto’ si è dipanata come una sub-ideologia aristocratica in grado di essere interpretata tanto da chierici di destra quanto di sinistra dando l’illusione utile che ci potesse essere un modo progressivo tutelante le libertà, rigidamente individuali, per stare nel liberismo. Col risultato, per esempio, che accanto alle nuove parità di genere ricompare la schiavitù di fatto sui luoghi di lavoro.
Il cattolicesimo risulta marginale, per di più dolorosamente estraneo a buona parte del politicamente corretto così come estraneo alla dittatura della scienza, e frantumato nelle sue versioni ecumenica, identitaria e formale con i relativi gruppi intellettuali che le interpretano dentro e fuori la Chiesa stessa. E tutto ciò nonostante che il Pontefice di oggi sia quello più vicino al dettato del Concilio Vaticano secondo dalla morte di Luciani, e si stia attrezzando per condurre la sua struttura fuori dalla lunga notte in cui si è trovata per tanti anni.
Questo insieme dà l’immagine di una politica solo apparentemente più laica ma, in realtà, assai più esposta al bigottismo.
Il quadro d’insieme odierno risulta così essere chiaramente condizionato dall’impoverimento delle opzioni storiche col conseguente svuotamento della dialettica politica e quindi della funzione delle élite. Chi opera su linee politiche e quindi su opzioni e contenuti complessi si trova costretto a combattere, in via preliminare, con un contesto culturale che ne esige la semplificazione demagogica perchè se ne possa dare notizia. Il rispetto delle reali esigenze di carattere sociale dell’elettorato viene così annullato lasciando però sempre aperta la porta ingannevole della democrazia dal basso, porta che sempre si richiude perchè sono state cancellate le principali esperienze storiche che alla democrazia dal basso hanno dato reale consistenza.
Finito il cattolicesimo democratico rimane il moderatismo di maniera che ne è la versione tascabile buona per tutti gli schieramenti e per tutti gli affari. Ritorna alla mente l’anatema di Martinazzoli a bollare gran parte del suo mondo politico rimasto: il moderatismo sta alla moderazione come l’impotenza alla castità.
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