Niente istruzione per gli stranieri: ecco il vero disastro dell’immigrazione all’italiana
di LINKIESTA
Altrove la scuola è l’ascensore sociale dei nuovi cittadini: in Italia arrivano migranti sempre meno istruiti. E quelli che ci sono – compresi i figli – non cercano di emanciparsi attraverso lo studio. E intanto il divario sociale continua ad aumentare
La disuguaglianza tra italiani e stranieri nel nostro Paese è in crescita. Sicuramente dal punto di vista economico: è già stato osservato come quasi tutto l’aumento della povertà cominciato con la crisi e proseguito anche durante la ripresa sia stato dovuto all’incremento del numero di immigrati indigenti. Non solo, tuttavia. La disuguaglianza si sta allargando anche ad altri campi, in primis quello dell’istruzione. E forse è anche peggio, perché questa è direttamente collegata alle possibilità di lavoro e guadagno futuro.
Negli ultimi anni la percentuale di italiani con una laurea è cresciuta, sia tra la popolazione attiva totale, sia nel segmento dei 30-34enni, ovvero dei giovani che hanno ormai terminato i loro cicli di studio. Del resto partivamo da livelli bassissimi, avevamo, e abbiamo ancora, il record negativo in Europa nella percentuale di persone con il massimo titolo di studio.
Tuttavia lo stesso incremento non si è verificato tra gli stranieri. Né tra quelli comunitari, in gran parte rumeni, né tra quelli extracomunitari. Tra i primi anzi tra il 2006 e il 2011-2012 vi è stata addirittura una diminuzione della proporzione dei laureati, passati dal 14,9% al 11,1% nel caso dei 15-64enni, e dal 17,9% al 12,9% in quello dei trentenni. Vi è stata poi una ripresa, ma molto, troppo lieve. Tra gli extracomunitari la curva è piatta. Erano il 10,9% in totale i laureati nel 2006, sono diventati solo l’11,9% nel 2017. Numeri quasi uguali vediamo tra i trentenni.
Il mondo degli immigrati funziona da valvola di sfogo del mondo degli italiani. In caso di crisi è il secondo a essere colpito dai licenziamenti, in caso di ripresa è il primo quello cui attingere per avere personale a basso costo. È una sorta di delocalizzazione interna. Quando un business diventa maturo, genera poco margine, ecco che la forza lavoro straniera entra in gioco
Questo significa diverse cose. Innanzitutto vuol dire che gli stranieri presenti nel nostro Paese, anche coloro che qui sono nati, non stanno affollando le università, e negli anni non hanno subìto quella stessa spinta che ha portato sempre più italiani a cercarsi una laurea. Si tratta di una divergenza molto evidente. A metà anni 2000 la proporzione di laureati tra gli autoctoni e gli immigrati era quasi identica, ora la prima è di 1,5 volte maggiore. E nel caso dei giovani di ben 2,5 volte.
Ma vuol dire anche che coloro che sono arrivati nel nostro Paese erano decisamente meno istruiti sia degli italiani sia degli immigrati già presenti. Non solo e non tanto coloro che sono giunti con gli sbarchi degli anni, ma soprattutto i protagonisti delle ultime ondate di migrazione precedenti alla crisi. È peculiare il caso degli stranieri comunitari. Si tratta di quella parte di rumeni meno istruiti che non potendo approfittare, come molti connazionali laureati, del boom economico che interessava e interessa la Romania, giungevano nel nostro Paese per sfuggire alla povertà ancora presente, badanti, muratori, provenienti dalle aree più periferiche del Paese.
Dall’Italia è rimasta lontana la cosiddetta immigrazione di qualità, quella che invece si rivolge ad altri lidi. Nella gran parte degli altri Paesi che sono stati interessati dall’arrivo di un largo numero di stranieri negli ultimi 15 anni la proporzione di laureati, almeno tra i trentenni, è cresciuta. La media UE è esemplare, indica una crescita di quasi il 10% in 10 anni. Ancora meglio, con un +12,2% in 11 anni, la Svezia, il Paese europeo con la maggior presenza di immigrati. Simile l’incremento nei Paesi Bassi, dove però si partiva da cifre inferiori. La Spagna, in condizioni economiche strutturali simili all’Italia, vede la stessa mancanza di progressi in questo tipo di statistiche, tuttavia già in partenza vi era una più grande proporzione di laureati e oggi è quasi doppia.
Ancora peggiore è il fatto che a diminuire è anche la percentuale di diplomati tra gli stranieri. Il fatto sarebbe normale se fosse motivato da una crescita dei laureati, è il caso infatti degli italiani. Ma non è così. All’importante diminuzione degli extracomunitari e degli stranieri comunitari con un diploma, superiore all’8%, non corrisponde come sappiamo alcun vero aumento dei detentori di una laurea.
Stanno invece crescendo coloro che hanno un’istruzione molto bassa. E questo accade sia nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali, senza un trend geografico riconoscibile. È l’ennesima dimostrazione del distacco crescente tra due mondi, quello degli italiani e degli stranieri. Che non vanno di pari passo, ma piuttosto sono complementari. Il secondo mondo, quello degli immigrati, funziona da valvola di sfogo, da cuscinetto, del primo. In caso di crisi è il primo a essere colpito dai licenziamenti, in caso di ripresa quello cui attingere per nuovi progetti che richiedano personale da non pagare troppo. È un mondo che funge da destinazione di una sorta di delocalizzazione interna. Quando un business diventa maturo, genera poco margine, ecco che la forza lavoro straniera entra in gioco. È chiaro che essendo questa la funzione principale degli immigrati nella nostra economia, così ricca di produzioni a basso valore aggiunto e povera di posti di lavoro nei settori più avanzati, non vi è molto incentivo né allo studio né tanto meno all’ingresso di persone con titoli così elevati. Eppure dovrebbe convenirci un cambiamento. Soprattutto se ci interessa la tenuta sociale, se non vogliamo la nascita di ghetti di fatto.
Non possiamo permetterci la continuazione di un circolo vizioso che vede la scarsa produttività della nostra economia perpetuarsi grazie alla presenza di tanto personale non qualificato che non ha un interesse vero a istruirsi e che continuerà a trovare lavoro quindi solo nei campi, nelle case di riposo, nei magazzini, nei ristoranti, perché non vi è molto di più. È un danno per la competitività del sistema Italia.
Perché possa realmente sorgere una economia basata sull’ICT, sui servizi avanzati, sulla ricerca, è indispensabile una maggiore offerta di personale con alte competenze. E se vogliamo che questa offerta sia ampia il segmento più giovane della popolazione, quello di origine straniera, non può essere escluso, rimanere separato. Sta crescendo in questi anni una generazione numerosa come non mai di ragazzi che sono nati in Italia anche se hanno genitori immigrati, e che ancora non hanno scelto cosa fare da grandi, se andare all’università, se specializzarsi, studiare di più di quanto abbiano potuto fare i genitori. Non possiamo permetterci di perdere anche questa di generazione, rimane poco tempo.
La disuguaglianza tra italiani e stranieri nel nostro Paese è in crescita. Sicuramente dal punto di vista economico: è già stato osservato come quasi tutto l’aumento della povertà cominciato con la crisi e proseguito anche durante la ripresa sia stato dovuto all’incremento del numero di immigrati indigenti. Non solo, tuttavia. La disuguaglianza si sta allargando anche ad altri campi, in primis quello dell’istruzione. E forse è anche peggio, perché questa è direttamente collegata alle possibilità di lavoro e guadagno futuro.
Negli ultimi anni la percentuale di italiani con una laurea è cresciuta, sia tra la popolazione attiva totale, sia nel segmento dei 30-34enni, ovvero dei giovani che hanno ormai terminato i loro cicli di studio. Del resto partivamo da livelli bassissimi, avevamo, e abbiamo ancora, il record negativo in Europa nella percentuale di persone con il massimo titolo di studio.
Tuttavia lo stesso incremento non si è verificato tra gli stranieri. Né tra quelli comunitari, in gran parte rumeni, né tra quelli extracomunitari. Tra i primi anzi tra il 2006 e il 2011-2012 vi è stata addirittura una diminuzione della proporzione dei laureati, passati dal 14,9% al 11,1% nel caso dei 15-64enni, e dal 17,9% al 12,9% in quello dei trentenni. Vi è stata poi una ripresa, ma molto, troppo lieve. Tra gli extracomunitari la curva è piatta. Erano il 10,9% in totale i laureati nel 2006, sono diventati solo l’11,9% nel 2017. Numeri quasi uguali vediamo tra i trentenni.
Questo significa diverse cose. Innanzitutto vuol dire che gli stranieri presenti nel nostro Paese, anche coloro che qui sono nati, non stanno affollando le università, e negli anni non hanno subìto quella stessa spinta che ha portato sempre più italiani a cercarsi una laurea. Si tratta di una divergenza molto evidente. A metà anni 2000 la proporzione di laureati tra gli autoctoni e gli immigrati era quasi identica, ora la prima è di 1,5 volte maggiore. E nel caso dei giovani di ben 2,5 volte.
Ma vuol dire anche che coloro che sono arrivati nel nostro Paese erano decisamente meno istruiti sia degli italiani sia degli immigrati già presenti. Non solo e non tanto coloro che sono giunti con gli sbarchi degli anni, ma soprattutto i protagonisti delle ultime ondate di migrazione precedenti alla crisi. È peculiare il caso degli stranieri comunitari. Si tratta di quella parte di rumeni meno istruiti che non potendo approfittare, come molti connazionali laureati, del boom economico che interessava e interessa la Romania, giungevano nel nostro Paese per sfuggire alla povertà ancora presente, badanti, muratori, provenienti dalle aree più periferiche del Paese.
Dall’Italia è rimasta lontana la cosiddetta immigrazione di qualità, quella che invece si rivolge ad altri lidi. Nella gran parte degli altri Paesi che sono stati interessati dall’arrivo di un largo numero di stranieri negli ultimi 15 anni la proporzione di laureati, almeno tra i trentenni, è cresciuta. La media UE è esemplare, indica una crescita di quasi il 10% in 10 anni. Ancora meglio, con un +12,2% in 11 anni, la Svezia, il Paese europeo con la maggior presenza di immigrati. Simile l’incremento nei Paesi Bassi, dove però si partiva da cifre inferiori. La Spagna, in condizioni economiche strutturali simili all’Italia, vede la stessa mancanza di progressi in questo tipo di statistiche, tuttavia già in partenza vi era una più grande proporzione di laureati e oggi è quasi doppia.
Ancora peggiore è il fatto che a diminuire è anche la percentuale di diplomati tra gli stranieri. Il fatto sarebbe normale se fosse motivato da una crescita dei laureati, è il caso infatti degli italiani. Ma non è così. All’importante diminuzione degli extracomunitari e degli stranieri comunitari con un diploma, superiore all’8%, non corrisponde come sappiamo alcun vero aumento dei detentori di una laurea.
Stanno invece crescendo coloro che hanno un’istruzione molto bassa. E questo accade sia nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali, senza un trend geografico riconoscibile. È l’ennesima dimostrazione del distacco crescente tra due mondi, quello degli italiani e degli stranieri. Che non vanno di pari passo, ma piuttosto sono complementari. Il secondo mondo, quello degli immigrati, funziona da valvola di sfogo, da cuscinetto, del primo. In caso di crisi è il primo a essere colpito dai licenziamenti, in caso di ripresa quello cui attingere per nuovi progetti che richiedano personale da non pagare troppo. È un mondo che funge da destinazione di una sorta di delocalizzazione interna. Quando un business diventa maturo, genera poco margine, ecco che la forza lavoro straniera entra in gioco. È chiaro che essendo questa la funzione principale degli immigrati nella nostra economia, così ricca di produzioni a basso valore aggiunto e povera di posti di lavoro nei settori più avanzati, non vi è molto incentivo né allo studio né tanto meno all’ingresso di persone con titoli così elevati. Eppure dovrebbe convenirci un cambiamento. Soprattutto se ci interessa la tenuta sociale, se non vogliamo la nascita di ghetti di fatto.
Non possiamo permetterci la continuazione di un circolo vizioso che vede la scarsa produttività della nostra economia perpetuarsi grazie alla presenza di tanto personale non qualificato che non ha un interesse vero a istruirsi e che continuerà a trovare lavoro quindi solo nei campi, nelle case di riposo, nei magazzini, nei ristoranti, perché non vi è molto di più. È un danno per la competitività del sistema Italia.
Perché possa realmente sorgere una economia basata sull’ICT, sui servizi avanzati, sulla ricerca, è indispensabile una maggiore offerta di personale con alte competenze. E se vogliamo che questa offerta sia ampia il segmento più giovane della popolazione, quello di origine straniera, non può essere escluso, rimanere separato. Sta crescendo in questi anni una generazione numerosa come non mai di ragazzi che sono nati in Italia anche se hanno genitori immigrati, e che ancora non hanno scelto cosa fare da grandi, se andare all’università, se specializzarsi, studiare di più di quanto abbiano potuto fare i genitori. Non possiamo permetterci di perdere anche questa di generazione, rimane poco tempo.
Fonte:https://www.linkiesta.it/it/article/2019/04/15/immigrati-italia-istruzione/41754/
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