La nostra Costituzione si capisce meglio se si leggono le discussioni che hanno portato alla sua stesura
di IACOPO BIONDI (FSI Firenze) e PIERLUIGI BIANCO (FSI Lecce)
Piero Malvestiti era democristiano. Non un “pericoloso comunista”. Era democristiano. Leggetevi la sua vita su Wikipedia. Capirete chi erano quei personaggi che hanno scritto la nostra Costituzione. Invece sotto leggete (fino in fondo, è lungo, ma merita la fatica) contro cosa la hanno scritta e per cosa. Poi leggete l’articolo 3 del trattato di Maastricht. Poi fate le vostre considerazioni.
L’intervento di Malvestiti nei punti principali, dal post di Pierluigi Bianco:
“Onorevoli colleghi, non è ormai una affermazione peregrina dire che il terzo Titolo del progetto di Costituzione, che tratta dei rapporti economici, ne è la parte più nuova, più moderna, direi addirittura più rivoluzionaria, senza paura della definizione, perché sono le cose che importano e non i nomi delle cose. E poi, se è vero che le Costituzioni nascono nei momenti drammatici della vita dei popoli, vuol dire anche che risolvono una soluzione di continuità, che gettano un ponte fra un passato, davanti al quale si è aperta una voragine, e un avvenire che già urge coi suoi palpiti di luce.
Davanti alle Costituzioni dell’Ottocento l’uomo del nostro tempo si pone alcuni interrogativi, che sono un grande e tragico processo a tutta una civiltà. Con un enorme stupore egli si chiede come è potuto avvenire che le grandi parole di libertà, di uguaglianza, di fraternità, riecheggiate nelle aule più solenni, promesse dalla labbra più degne, garantite dalla più sicura volontà, santificata con una così vasta testimonianza di sangue, non abbiano risparmiato all’Europa e al mondo — non abbiamo risparmiato all’uomo — l’orrore, la contraddizione, l’infamia della prima e della seconda guerra europea: e come necessitino di essere ancora proclamate e difese come preziosi, ma fragilissimi beni. Domande alle quali noi stessi stiamo dando una risposta concreta e costruttiva con questa nostra Costituzione, che dovrà dire sino a che punto la nostra critica è stata severa, onesta, disinteressata: se abbiamo avuto il coraggio della diagnosi e se abbiamo il coraggio della cura.
E mi permetta qui di ricordare che molto grave è stata l’accusa mossa dall’onorevole Togliatti nella seduta dell’11 marzo, proprio a proposito del Titolo che stiamo esaminando, quando non ha temuto di dire che si è talvolta seguito il metodo del compromesso deteriore, lavorando non più sulle idee e sui principî, ma sulle parole, togliendo una parola per metterne un’altra la quale direbbe approssimativamente lo stesso, ma fa meno paura, oppure può essere interpretata in un altro modo: sostituendo, insomma, la confusione alla chiarezza. «Tutti gli articoli relativi ai diritti sociali — ha detto testualmente l’onorevole Togliatti — sono stati rielaborati con questo deteriore spirito di compromesso verbale».
Io non so sino a che punto tutto questo risponda alla più precisa verità — perché v’è anche un metodo di solliciter doucement les textes che forse l’onorevole Togliatti non ignora —; ma so che v’è almeno una condizione alla quale dobbiamo obbedire, se siamo degli uomini politici cui il Paese ha affidato un grande compito; se siamo dei galantuomini: ed è di sapere che cosa vogliamo. Su una constatazione noi dobbiamo almeno essere d’accordo: che il divorzio fra politica ed economia è assurdo: che il sistema economico deve creare le condizioni di possibilità di esercizio della libertà politica; che le prerogative individuali sono illusorie per chi non è in grado di risolvere il problema del pane quotidiano.
Processo al capitalismo? Direi qualche cosa di più: direi processo ad una libertà che della vera libertà non aveva che un volto menzognero, perché aveva soltanto garantito la libera sopraffazione gabellata per libera concorrenza; lo sfruttamento tra le classi e tra i popoli; l’insopportabile costo umano della produzione; il caos dei prezzi. Ora, si può, sia pure benevolmente, sorridere del candido richiamo del nostro La Pira al carattere cristiano della nostra Costituzione; ma non si deve dimenticare che il processo al liberalismo, alla sua filosofia e alle sue origini storiche — il processo che noi stessi stiamo facendo e che dobbiamo portare fino in fondo — è stato inventato alcuni secoli or sono — dai giorni stessi di Lutero — dalla Chiesa cattolica.
Dunque, prima di tutto, il processo alla falsa libertà — dico a ragion veduta, falsa più che incompleta — e il processo al feudalesimo economico che garantisce il carattere beneficamente e pacificamente rivoluzionario della nostra Carta costituzionale.
Quali sono gli aspetti basilari del capitalismo? L’appropriazione privata dei mezzi di produzione, la concorrenza e la ricerca del profitto. L’economia politica arriva ad alcune conclusioni universali: che l’utilità marginale determina l’impiego più economico dei beni e dello stesso lavoro, e che in un’economia di mercato i prezzi rappresentano il vero valore delle cose e dei servizi.
Da queste premesse alla conclusione che, dunque, il processo di distribuzione e di ripartizione risulta equo, il passo è sin troppo breve. Vi è un grosso equivoco all’origine filosofica delle loro ricerche, ed è quel loro credere all’ordine naturale delle cose, quel giurare sulla «natura» ignorandone il Creatore e l’Ordinatore, e i suoi moniti e le sue leggi.
Lo stesso Marx, che pur pretende di postulare un elemento di giustizia assolutamente estraneo alle sue premesse filosofiche, non riesce a liberarsi dal feticismo del fatto: è l’economia a schiavi che genera una certa religione, una certa morale, un certo diritto, una certa politica; non sono la religione, la morale, il diritto, la politica che determinano o che trasformano alla radice la economia a schiavi. Primum purgari gridano gli economisti; la vostra legge morale ha torto se il fatto le dà torto; in ogni caso è un elemento estraneo, disturbatore.
Si avvertiva ormai una certa vischiosità della ricerca nei confronti del fenomeno completo: la brama insaziata dell’uomo moderno ha fatto saltare tutte le antiche ipotesi ed ha posto la scienza in flagrante e costante delitto di ritardo.
Al centro del sistema era, premessa fondamentale e necessaria, il principio della concorrenza. L’optimum sociale, e quindi, in definitiva la giustificazione dell’individualismo economico, derivava soprattutto da ciò, che l’automatismo della concorrenza eguaglia il saggio del profitto e tende a ridurlo al punto di coincidenza col costo di produzione.
Ed eccoci al temibile riflesso sociale di questo malessere economico.
Nel campo economico e morale — scrive d’altra parte il Pirou — il capitalismo odierno ha meno titoli di legittimità che non il capitalismo al quale ha succeduto. La convergenza della sua attività con l’interesse generale è più che dubbia, perché esso vive del monopolio e dello sfruttamento del consumatore, reso possibile da questo monopolio. Il valore tecnico dei suoi dirigenti non è meno dubbio, perché essi sono piuttosto finanzieri che tecnici e mirano più al guadagno della speculazione, che agli utili industriali. Ma c’è qualcosa di più grave ancora: ed è l’enorme potere di corruzione del capitalismo moderno, che rende oltremodo pericolosa la sua invadenza politica.
Permettetemi di trovare la conferma di tutto ciò in una pagina che resterà fra le più lucide ed impressionanti della storiografia economica: voglio dire della testimonianza augusta ed insospettabile della Quadragesimo Anno di Pio XI: «Ai nostri tempi non vi ha solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza della economia in mano di pochi e questi sovente neppur proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.
Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il denaro, agiscono da padroni, dominano il credito e padroneggiano i prestiti: onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, ed hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia: sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.
Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica dell’economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso, i più violenti della lotta e i meno curanti della coscienza. A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezza e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la prevalenza economica; di poi si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze, della sua influenza nelle competizioni economiche; infine si lotta fra gli stessi Stati, e perché le Nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini e perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche sorte tra le Nazioni… la libera concorrenza, cioè, si è da se stessa distrutta: alla libertà del mercato è subentrata l’egemonia economica: alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele».
Intanto, la stessa classe capitalistica ha del tutto cambiato di composizione e di struttura: e ciò darebbe ragione alla teoria della circolazione delle élites, se la nuova élite non meritasse piuttosto una diversa denominazione. Non più il cavaliere dalla «triste figura» e non più quella generazione di autentici ed infaticabili conquistatori che sono stati i creatori dell’industria moderna.
Fondare un’industria, lanciare un prodotto, conquistare un mercato voleva dire, sin verso la fine del secolo scorso, impegnare le proprie ricchezze, la propria vita, il proprio onore, oso dire, oltre ogni limite umano. V’era in ciò tutta l’ansia e tutta l’ebbrezza, ma anche tutta l’immane fatica e tutto il pericolo dell’avventura.
Ma, come ho detto, la seconda fase del capitalismo ci presenta un’elite che è completamente diversa da quella ormai cacciata di nido. Questo il quadro del nostro mondo economico. A questo punto la nostra rivolta ci ha suggerito una formula liberatrice: «La Repubblica è fondata sul lavoro». E, in questo terzo titolo diciamo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Si tratta di badare bene a due ordini di considerazioni: anzitutto che la Costituzione è un documento giuridico che deve esprimere norme di diritto; ma che appunto per ciò le formule ideali, ma obiettivamente irraggiungibili, possono portare ad uno stato di delusione che comprometterebbe la serietà stessa della Carta costituzionale.
Dobbiamo però dire subito che dicendo «lavoro» noi non ci riferiamo al suo carattere di pena, di tormento, di umiliazione — avremmo una Repubblica di forzati — ma alla sua dignità e alla sua funzione redentrice.
Ma il limite è pur sempre quello del destino personale dell’uomo: i suoi diritti derivano dalla sua natura, mentre la società non è per l’uomo che il mezzo necessario che lo aiuta a conseguire il fine. Solo a questo titolo il lavoro è insieme un diritto che involge un problema etico, e un dovere individuale e sociale. La scoperta più grande di Marx è che il capitalismo trasforma i rapporti tra gli uomini in rapporti fra cose: non c’è, cioè, una realtà economica sostanziale e perciò tutte le categorie economiche non sono che categorie storiche e non principî eterni come li professava l’economia borghese e classista: ma tutto ciò contraddice proprio il materialismo.
Bisogna liberare l’uomo, che è ingegno, volontà, lavoro, vita: l’attività implica un principio spirituale, e solo un principio spirituale garantisce l’attività. Ridiamo perciò al diritto di proprietà la sua funzione sociale nell’articolo 38. Ora, l’articolo 43 immette i lavoratori nella gestione delle aziende; ma, pure ammesso che tutto ciò debba portare un contributo notevole alla produzione, c’è sempre una domanda da farsi, una riserva da proporsi: a profitto di chi? Si può dire, genericamente, «a profitto della produzione»; ma questa è una parola.
Si tratta, concretamente, di modificare la ripartizione del profitto, senza danneggiare il normale funzionamento di un sistema produttivo che ha pur fatto delle grandi prove; si tratta di conservare quanto c’è di buono nel sistema, indirizzandolo verso un’evoluzione in cui l’imperativo sociale diventerà sempre più dominante; si tratta di toglier di mezzo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo senza sostituirvi l’ancor più atroce sfruttamento dello Stato su l’uomo. Si tratta, in sostanza, di creare una vera e vitale democrazia economica.
E allora, bisogna avere il coraggio di andare più in là. Soltanto così, noi diamo ai lavoratori quello che i lavoratori aspettano da noi; restituiamo al lavoro la sua nobiltà e la sua gioia; liberiamo il volto dell’uomo dandogli la scienza della vita, la serenità della vita, l’onore della vita. (Applausi al centro).”
Qui la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima, iniziata dall’Assemblea Costituente il 3 maggio 1947
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