Sull’articolo 37
di MARCO TROMBINO (FSI Genova)
L’art. 37 della Costituzione della Repubblica Italiana recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione […]”
E’ sufficiente leggere queste righe per accorgersi subito che niente del genere accade oggi nel mercato del lavoro. Innanzitutto non è vero che la donna abbia le stesse retribuzioni degli uomini: gli stipendi medi delle lavoratrici sono mediamente più bassi, come dimostrano tutti gli studi dei principali istituti statistici. Basta un breve giro su un qualsiasi motore di ricerca per verificarlo.
Com’è possibile questa situazione nonostante che una precisa norma costituzionale lo vieti? Semplice: perché gli stipendi, nel libero mercato del lavoro privato, sono regolati dal gioco della domanda e dell’offerta. Poiché l’impiego pubblico è in forte contrazione e i dipendenti pubblici in diminuzione numerica, i (pochi) giovani che trovano un lavoro devono necessariamente proporsi presso aziende private. Le quali applicano i criteri di mercato quando decidono quale debba essere l’offerta di lavoro.
Qualsiasi CCLN prevede diversi livelli di assunzione (metalmeccanici, commercio, ecc.). Quindi una prima differenza si può verificare nell’offerta del livello: se ad un candidato di sesso maschile viene offerto un contratto a sesto livello e alla candidata di sesso femminile viene offerto un contratto al quinto, si crea uno scalino retributivo tra i sessi in maniera perfettamente legale. L’azienda non è tenuta ad offrire per forza un contratto di un certo ordine, ed è suo assoluto arbitrio stabilire, sulla base dei dettagli curricolari e del colloquio di lavoro, in quale posizione debba essere inquadrato un neoassunto. Inoltre, all’interno di un determinato livello contrattuale, la retribuzione può essere a sua volta variabile perché possono intervenire scatti di anzianità, aumenti stabiliti dall’azienda stessa e così via. Ed è così che finisce per ampliarsi la forbice tra i sessi.
I motivi per cui tale differenza si verifica sono di difficile determinazione, anche da parte di studi statistici ufficiali, giacché nessun datore di lavoro ammetterà mai di stimare meno le donne degli uomini, per ovvi motivi legati alle leggi in vigore sulla discriminazione di genere. Più confessabile, e a volte confessata, è la discriminazione nei confronti delle donne che sono intenzionate ad avere figli: andare in maternità implica assentarsi dal posto di lavoro, costringere l’azienda a trovare un sostituto, perdere tempo a passare consegne; a responsabili e manager tutto questo, sovente, non garba. Tanto più che viviamo in una cultura in cui avere figli non è più considerato un obbligo morale ma un’opzione evitabile; nei paesi dove i bambini in famiglia sono ancora un fatto normale le aziende non si pongono neanche il problema dell’assenza della donna per maternità (in alcuni paesi dell’Est Europa la maternità dura 3 anni, ragion per cui non esistono asili nido, eppure le donne lavorano lo stesso…). In Italia invece, dove il figlio è considerato un ingombro, qualcuno tende in fase di colloquio a favorire i candidati maschi, che questo problema alle aziende non lo porranno mai. Con buona pace dell’art. 37 della Costituzione.
Fermo restando che difficilmente un quadro normativo sarebbe in grado di cambiare, da solo, una radicata mentalità discriminatoria, l’intervento dello Stato diviene essenziale al fine di correggere il fenomeno. Se in un’azienda, a parità di livello e di anzianità, le retribuzioni medie di un genere superano quelle dell’altro oltre ad una certa forbice, devono scattare sanzioni. Le discriminazioni causate da situazioni di maternità devono essere punite in maniera esemplare, perché tra l’altro contribuiscono fortemente all’implosione demografica e alla disincentivazione dell’infanzia. L’assunzione presso enti pubblici non comporta necessariamente l’annullamento delle disparità di trattamento, ma un concorso pubblico presenta parametri sicuramente meno soggettivi di un colloquio di lavoro privato; l’espansione del settore lavorativo pubblico avrebbe – in maniera parziale, intendiamoci – effetti benefici anche da questo punto di vista.
Ma il contributo più importante deve venire dalla consapevolezza delle donne stesse, che devono tornare a considerare la stabilità lavorativa, la retribuzione e una maternità serena come sacrosanti diritti che spettano loro. E devono tornare a battersi per questo. In quest’epoca si sente spesso parlare di diritti delle donne, ma raramente se ne sente parlare nei termini di quello che dovrebbe essere il più importante di tutti: il salario.
Commenti recenti