Delitto e funzione d’ordine. Su “Corpi di Passaggio” di Andrea Cedrola
Di LE PAROLE E LE COSE (di Achille Castaldo)
Fin dalle citazioni in epigrafe questo romanzo mostra di voler fare i conti con un passato irrisolto, da cui invano si prova a liberarsi distogliendo l’attenzione, e da cui ci si ritrova invece inevitabilmente assediati (ad esempio: “le cose si affastellano l’una sull’altra e intasano l’anima, soprattutto quando sono lasciate in sospeso,” Rafael Bernal). Non si tratta però soltanto del vissuto personale, ma anche, e forse soprattutto, dei coni d’ombra di una storia nazionale che non sembra mai essere stata del tutto portata a coscienza. È il caso del passaggio tra il regime fascista e quello repubblicano, che molti conti aperti certamente ha lasciato, e i cui cadaveri sono stati sepolti con poca sabbia o addirittura lasciati a vagare tra i vivi come se niente fosse. In effetti, la macchina sociale che fa da sfondo alle vicende del protagonista Gerardo Conforti è in gran parte la sopravvivenza appena camuffata di quella dell’anteguerra, con i suoi apparati di polizia e le sue strutture di potere lasciate intatte, come intatta sembra essere rimasta la loro opera di repressione.
Il contatto tra questo apparato statale sopravvissuto a se stesso e lo sviluppo sempre più rapido dell’economia italiana a partire dagli anni Cinquanta, che porta con sé lo smottamento della società arcaico-rurale e l’avvento di quella di massa, produce quell’impressione di caos, di frenesia, così ben riprodotta in questo secondo romanzo di una serie cominciata nel 2016 con La speranza è un vizio privato. In entrambi i volumi al centro della narrazione troviamo un delitto, uno dei molti casi di cronaca nera irrisolti che accompagnano il dipanarsi della storia di questo paese. Quello che il racconto di Cedrola ci restituisce, però, non è un tentativo di soluzione, né tantomeno una spettacolarizzazione riattualizzata, ma semmai l’ipotesi che la funzione “strutturale” di tali delitti sia stata essenzialmente d’ordine. Che il delitto, cioè, nel suo assumere una vasta portata mediatica, con la sua enorme funzione polarizzante sull’opinione pubblica, con il suo tratteggiare il profilo di mostri, vittime, martiri ed eroi, con il suo dare spessore alle forze del male e a quelle del bene, abbia svolto un’azione regolatrice sul magmatico e incontrollabile fluire dell’immaginario che accompagnava lo sviluppo economico-sociale che stava trasformando l’Italia. Certo, si trattava di una funzione soltanto embrionale nel caso al centro del primo romanzo, ovvero l’infanticidio commesso da Rina Fort (che però assume un ruolo inaugurale e quasi archetipico). Funzione che è invece pienamente sviluppata in Corpi di passaggio con il caso Montesi, forse il primo dei grandi fatti di cronaca in cui giallo, politica, costume, morale sono già inestricabilmente intrecciati.
Un corpo di donna viene ritrovato sulla spiaggia nell’aprile del 53. “Corpi di passaggio”, recita il titolo: si tratta di uno dei molti corpi attraverso i quali dovrà passare, come si diceva, il flusso dell’immaginario per potersi trasformare in discorso, per stabilizzarsi in ordine sociale, sistema di valori, visione del mondo. Anche la società del dopoguerra, insomma, nonostante si sia da poco (apparentemente) liberata del fascismo, accede all’ordine solo attraverso la violenza. Forse a partire da qui possiamo cominciare a interpretare la struttura narrativa di questo romanzo, in cui “la parte del delitto” (il riferimento a 2666 di Roberto Bolaño non è casuale) è narrata in una terza persona di grande mobilità, che proprio attraverso gli spostamenti della focalizzazione, l’ironia, l’ingresso nei registri dei personaggi, segnala la presenza di un narratore in grado di percorrere la tradizione del romanzo italiano fino al Gadda del Pasticciaccio (e oltre), e che però alla consueta maschera del bonario moralismo manzoniano sostituisce semmai un immoralismo che sembra volersi sottrarre al destino segnato della funzione d’ordine di cui si diceva. A tutto ciò si oppongono i brani narrati in prima persona da Gerardo Conforti e sua nipote Katja, sullo sfondo del Cilento dei nostri anni 10, e nei quali il racconto del delitto di sessant’anni prima si intreccia con l’emersione di un altro omicidio destinato però a svolgere una funzione si direbbe opposta, ovvero scompaginare per sempre schemi sociali e legami familiari, mettendo in crisi ogni rassicurante divisione tra bene e male (e legando così nonno e nipote nella medesima irriducibile “anarchia” valoriale). A questa parte cilentana e alla prima persona che la segna, sembra dunque spettare il ruolo di scompaginare le strutture acquisite attraverso le quali viene assimilata la Storia.
Tuttavia, è sbagliato parlare, in questo caso, di funzione caotica, dal momento che quest’ultima è a sua volta solo il frutto di schemi imposti dall’ordine instaurato attraverso la violenza. Si tratta piuttosto di una dimensione puramente eterogenea rispetto a ciò che gli sta di fronte per escluderla e condannarla. Così, la forma di vita di un ottantenne alcolizzato ancora in perfetta salute, e quella di una donna che ha rifiutato ogni compromesso con le pressioni sociali che avrebbero potuto intrappolarla all’interno di percorsi riconoscibili e rassicuranti, si sottraggono a quella struttura d’ordine che dal corpo sulla spiaggia di Torvaianica sembra essersi sprigionata, e che assegna ogni cosa alla sua casella rendendola comprensibile – comprensione alla quale le vite di Conforti e Katja sembrano appunto rifiutarsi.
L’eterogeneo, secondo la definizione proposta da Georges Bataille nella Struttura psicologica del fascismo (1933), è l’insieme delle forze e degli elementi che si sottraggono alla dimensione omogenea che costituisce il fondamento produttivo della società. Se gli elementi di cui è composta la parte eterogenea valgono innanzitutto per la loro funzione, e non per la loro individualità – sono cioè intercambiabili – ciò che sta nell’eterogeneo vale per la sua individualità irriducibile, e non si lascia riassorbire – né utilizzare – dalle maglie della struttura omogenea. Rimediare a questo inconveniente sarebbe appunto la funzione del fascismo, che emergerebbe nei momenti di crisi della struttura omogenea proprio per riassorbire in essa – e paradossalmente sfruttare ai suoi fini – elementi eterogenei di cui non solo va a disinnescare la pericolosità, ma che addirittura utilizza per risolvere in modo violento le contraddizioni sfuggite di mano alla struttura omogenea. Il leader fascista, esso stesso parte della dimensione eterogenea, ne mette a frutto le tendenze imperative, cioè miranti al dominio e in definitiva al godimento attraverso l’imposizione della forza sui più deboli, per attrarre a sé le forze sovversive e addomesticarle.
Augusto Trovatore, l’antagonista di Conforti in entrambi i romanzi, è non a caso un criminale formatosi durante il regime (suo fratello era stato un gerarca), che fino all’ultimo con esso ha collaborato ai tempi di Salò, e che nell’Italia del dopoguerra si trasforma in uomo d’affari di successo, senza rinunciare però al lato oscuro della forza criminale. Proprio grazie a quest’ultima è infatti in grado di proliferare, far soldi, risolvere problemi propri e altrui: esattamente, dunque, mettendo a profitto della struttura sociale dominante forze devianti e potenzialmente sovversive. A queste appartiene anche Conforti, che in quest’ultimo romanzo vediamo navigare in quella terra di mezzo, tra bohème, lavoro precario e piccola criminalità, dove si annida un potenziale rivoluzionario che più volte si è fatto sentire nella seconda metà del secolo scorso. Ciò che divide i due personaggi è proprio il delitto, che giungendo a imporre il proprio ordine di ferro agisce in effetti sulla vita di Conforti come un evento di disturbo, e tale è anche la sua funzione all’interno del romanzo, che anziché ruotare intorno ad esso sembra piuttosto costruito per liberarsene, per riuscire finalmente a metterlo da parte senza subire la sua forza regolativa, i suoi schemi, senza accettare il piano di conflittualità che da esso deriva. In questo senso, la vera impresa di Conforti sembra quella all’apparenza impossibile di creare e mantenere – all’interno della società omogenea – uno spazio separato per sé e per chi gli è vicino, all’interno del quale rifiutare i terreni di scontro che continuamente gli vengono imposti.
Se il romanzo garantisce a Conforti una voce con la quale narrare in prima persona, Augusto, che pure ne è escluso, è l’unico personaggio che non offre alcun “ingresso” al narratore in terza persona, che non può essere insomma vissuto dall’interno, che offre al lettore soltanto una enigmatica superficie – fatta eccezione per alcuni brevissimi attimi, che svolgono però la funzione di far sentire ancora più acutamente la propria mancanza, come avviene in quei film dove uno stile di inquadratura perennemente a distanza offra improvvisamente il lampo di un primo piano. È attraverso questa distanza che l’autore ci restituisce l’esperienza del rapporto con il capo fascista, che è tutta proiettiva, esterna, fondata sul godimento solo immaginario di una partecipazione al potere attraverso la quale si è invece da esso assimilati. Ma nella sua pura oggettività, questa esistenza indecifrabile svolge in definitiva lo stesso ruolo del corpo ritrovato sulla spiaggia: offrire materia disponibile al passaggio delle forze che regolano l’immaginario sociale. È dunque solo nell’identificazione con chi tutto ciò ha rifiutato, che diviene possibile sfruttare l’esperienza narrativa per sperimentare il rifiuto, la sottrazione, l’“effervescenza” di cui parlava Bataille, ovvero il moto ascensionale attraverso cui le forze sovversive assolvono al proprio ruolo di portare in alto ciò che è rimasto intrappolato sul fondo.
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=36680
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