Unione Europea a stelle e strisce
Integrazione economica e militare europea nelle strategie USA
L’Unione Europea come futuro antagonista imperialista degli Stati Uniti? È una tesi che riscuote consenso in larghi settori dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. Certo, i primi auspicano soprattutto un’inversione di tendenza della politica economica neoliberista di Maastricht: si afferma, più con fede che con cognizione di causa, un’altra Europa è possibile, senza che intanto nemmeno si provi a delineare su quali assi costruire un’altra Italia possibile. I secondi, invece, pur rilevandone la subordinazione agli USA nello scenario geopolitico, appoggiano sommessamente l’integrazione europea ed il correlato smantellamento delle sovranità statali: ciò in quanto consentirebbe di costruire le sovrastrutture di quell’Impero (comunitario) europeo tanto agognato a scapito di quelle nazionalità che, ove si ritenesse necessario, vanno represse alla cecena qualora osino rivendicare l’indipendenza e rifiutare il posto assegnatole nella gerarchia dei poteri dell’auspicata macroentità geopolitica statale senza anima e senza radici.
Non ci si chiede però perché gli Stati Uniti abbiano creato e sostenuto, come vedremo nel prosieguo dello scritto, il processo d’integrazione europea. Posto che l’aggressività imperialista USA è un effetto di strategie geopolitiche –delineate ad esempio nei National Security Strategy della Casa Bianca del 1991 e 2002– volte a prevenire la formazione di un antagonista imperialista (che in molti individuano nella Cina) in grado di sfidarne l’egemonia o anche di aspirare a svolgere un ruolo regionale o globale maggiore, com’è possibile che Washington non abbia quantomeno provato ad ostacolare ad esempio la formazione della moneta unica europea, se questa veramente potesse, scardinando l’egemonia del dollaro negli scambi internazionali, mettere in discussione la preminenza statunitense?
Sono state formulate analisi paradossali secondo cui l’invasione dell’Iraq e gli intenti aggressivi verso l’Iran ed anche il Venezuela sarebbero motivati esclusivamente o prevalentemente dai loro progetti di utilizzo dell’euro come valuta per le contrattazioni petrolifere e commerciali al posto del dollaro. Non sarebbe stato allora più ‘semplice’ e meno costoso impedire sul nascere l’integrazione monetaria invece di promettere guerre contro chiunque annunci un più esteso utilizzo dell’euro nel contesto, però, di un sistema finanziario internazionale palesemente dominato dalla finanza statunitense?
Possibile si sia trattato e si tratti di una distrazione di tale portata per Washington, cui peraltro non manca l’appoggio di borghesie compradore politiche ed economiche all’interno dei vari Stati europei e non difetta di strumenti di pressione di varia natura? In realtà, da svariate dichiarazioni e documenti emerge come l’Unione Europea funga sostanzialmente da strumento di colonizzazione USA, che mirano ad inglobarla e a farne quella testa di ponte verso il continente asiatico prefigurata soprattutto dall’influente geopolitologo USA Zbigniew Brzezinski nel suo rinomato saggio "La grande scacchiera".
1948. Nasce l’ACUE
Divulgando parte del contenuto di documenti declassificati dell’Amministrazione USA (cfr “Euro-federalists financed by US Spy Chiefs”, di Ambrose Evans-Pritchard, Daily Telegraph, 19 settembre 2000, leggibile al sito www.telegraph.co.uk) Joshua Paul, attualmente collaboratore del U.S. Army Force Development Directorate, ha mostrato come l’integrazione europea sia una creatura del Dipartimento di Stato e della CIA. Un progetto ad ogni evidenza finalizzato (assieme al “Piano Marshall”, nel 1948-1952, e alla NATO dal 1949) ad ancorare politicamente, economicamente, culturalmente e militarmente agli USA gli Stati europei.
I documenti rinvenuti da Paul attestano che Washington, per promuovere l’“ideale europeo”, si avvalse del Comitato Americano per l’Europa Unita (American Committee for United Europe, ACUE), creato nel 1948. Politici, giuristi, banchieri e persino sindacalisti siedevano nel suo consiglio di direzione, ma il nerbo centrale dell’ACUE era costituito da uomini dei servizi segreti. Primo Presidente del “Comitato” fu infatti William Donovan, capo dell’ufficio USA dei servizi strategici durante la Seconda Guerra mondiale (Office of Strategic Services, OSS), precursore della Central Intelligence Agency (CIA). Vice presidente fu Alen Dulles, direttore della CIA dal 1953 al 1961, a detta di alcuni storici l’ispiratore di finanziamenti USA alla DC nell’ambito delle prime elezioni del dopoguerra in Italia. Presente nel consiglio anche Walter Bedell Smith, nominato nell’ottobre 1950 primo direttore della CIA. Paul Hoffman, ex ufficiale dell’OSS, capo dell’amministrazione del “Piano Marshall” e presidente della Fondazione Ford, divenne capo dell’ACUE verso la fine degli Anni Cinquanta.
L’influenza dell’ACUE sul Movimento Europeo
L’ACUE è stato il maggior finanziatore del Movimento Europeo (nel 1958, ad esempio, fornì il 53.3% delle entrate), una piattaforma di coordinazione di organizzazioni europeiste creata formalmente alcuni mesi dopo il congresso di Hague del 7-11 maggio 1948, organizzato dal “Comitato internazionale dei movimenti per l’Europa unita”. Un congresso che vide la partecipazione di un ampio spettro di alte personalità politiche del continente conclusosi con tre risoluzioni (politica, culturale ed economica) in cui, già allora, si auspicava la formazione di «un’Unione Europea politica ed economica» connotata da liberalizzazione dei movimenti dei capitali, coordinazione delle politiche di bilancio e del credito, unificazione valutaria.
Come riporta il sito dell’organizzazione (www.europeanmoviment.org), il Movimento Europeo –presente attualmente in 41 Paesi– ha giocato un ruolo essenziale nel processo di colonizzazione/integrazione europea «esercitando influenza sulle istituzioni nazionali e comunitarie» fino ai giorni nostri, come in occasione del Trattato costituzionale peraltro respinto in Francia e Olanda: lo stesso Valery Giscard D’Estaing, ex presidente della Convenzione Europea, è stato presidente del Movimento, e figura ora come presidente onorario.
Secondo Joshua Paul (“Creating a stable Iraq”, Washington Times, 6 novembre 2003) è stato però l’ACUE a «gestire i programmi del Movimento e a dirigerne i leader», tra cui politici “europei” di primo piano, «rilasciando fondi solamente una volta che l’esecuzione proposta fosse stata approvata e dirigendo il Movimento in modo da impedirne la raccolta dentro l’Europa e mantenendolo dipendente dall’America».
È proprio Donovan, con un memorandum datato 26 luglio 1950, a dare istruzioni per una campagna a favore del Parlamento europeo. Ed è una comunicazione del Dipartimento di Stato USA datata 11 giugno 1965 e inviata al vice presidente della Comunità Economica Europea (CEE), Robert Marjolin, ad invitare a «portare avanti in segreto» i progetti di Unione monetaria: «non se ne deve parlare fino a che l’adozione di proposte del genere diventerà praticamente inevitabile». “Proposte” che sono sfociate nel varo dell’euro, considerato dagli USA uno strumento di dominio sulle economie degli Stati europei, essendo più semplice controllare –piuttosto che una pluralità di valute ed istituti di emissione– un’unica valuta emessa da una sola Banca Centrale, a sua volta pressoché svincolata dalle esigenze politiche e finanziarie di ogni singolo Stato.
I finanziamenti ai “federalisti europei” arrivavano tramite canali come le Fondazioni Ford e Rockefeller e uomini d’affari legati all’amministrazione USA. Tra i destinatari degli “aiuti”, figuravano politici di primissimo piano: il ministro degli esteri francese Robert Schuman, «attraverso cui l’ACUE diresse la costituzione di un forum di uomini d’affari e leader economici europei sostenitori dell’integrazione europea»; Jean Monnet, presidente dell’Alta autorità di quella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) entrata in vigore nel 1952, giudicata il primo importante passo di cessione di spezzoni di sovranità statale (in questo caso di risorse decisive, per Francia e Germania, anche dal punto di vista del potenziale militare) ad un Ente sovranazionale; il ministro degli esteri belga Paul-Henri Spaak, che presiedette nel 1955 il Comitato preparatore di quel “rapporto Spaak” che portò, due anni dopo, alla creazione dell’Euratom e della Comunità Economica Europea. Il 6 maggio 1957, dopo aver firmato 42 giorni prima i due succitati Trattati di Roma (sottoscritti da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi), Spaak prende possesso delle funzioni di Segretario generale della NATO. Interlocutori dell’ACUE risultavano comunque pure gli italiani Giovanni Agnelli, Giovanni Malagodi, ex segretario generale del Partito Liberale, Ugo La Malfa, ex segretario del Partito Repubblicano, Franco Malfatti, sottosegretario DC di vari governi dal 1958 al 1980 e presidente della Commissione Europea dal giugno 1970 al marzo 1972.
Che Joshua Paul abbia parlato del legame tra USA ed Unione Europea anche nel succitato articolo dedicato all’Iraq non deve dunque sorprendere. L’ex ricercatore della Georgetown University a Washington concludeva così il suo scritto: «il lavoro della CIA e del Dipartimento di Stato nel creare un’identità europea costituisce un precedente storico poco conosciuto sul quale possiamo basarci oggi per aiutare gli iracheni ad adottare una immagine di se stessi che sia il perno del nostro successo e del loro futuro di pace». Parole che ci aiutano a comprendere come la promozione di un’identità artificiale al posto di quella nazionale siano un obiettivo fondamentale per un imperialismo che prova a conquistare cuori e menti dei colonizzati.
La subordinazione della PESD alle strategie USA
Il processo d’integrazione europea, lungi dall’essere premessa ad un non auspicabile imperialismo europeo, risponde ai desiderata USA di un’Europa ancor più inglobata sul piano ideologico, geostrategico, militare ed economico.
Sul piano militare, esplicito è il rapporto redatto dal Center for Strategic and International Studies, influente “pensatoio” (think thank) USA. Come riportato da un resoconto di Defense News (14 ottobre 2005), i generali NATO in pensione Joseph Ralston e Klaus Naumann hanno scritto che «una Difesa europea integrata (…) è un imperativo». Concetto analogo è stato espresso addirittura dal PNAC, il Project for a New American Century, che annovera tra i suoi membri l’attuale capo del Pentagono Donald Rumsfeld, il presidente della Banca Mondiale Paul Wolfowitz ed il rappresentante all’ONU John Bolton. Proprio Gary Schmitt, direttore esecutivo del famoso “pensatoio” dei cosiddetti “neoconservatori” ben rappresentati nell’Amministrazione Bush, annunciava l’intenzione (cfr. il quotidiano francese Libération, 3 ottobre 2005) di voler istituire un “Comitato per una forte Europa”, mediante il quale operare, secondo quanto affermato nei principi guida del Comitato, affinché «Stati Uniti ed Unione Europea investano adeguatamente nelle proprie forze armate in modo da dotarsi di una forte capacità militare impiegabile in un’ampia varietà di missioni in tutto il mondo».
Ma qual è lo stato della “Difesa europea” e dei suoi rapporti con la NATO (vale a dire gli USA)? La PESD (politica europea di sicurezza e difesa), ricordiamolo, fa il suo ingresso nelle competenze dell’Unione Europea con la firma del Trattato di Maastricht (1992), con l’esplicito compito di condurre operazioni di “mantenimento della pace” e di “gestione delle crisi” (missioni cosiddette di Petersberg). Al Consiglio europeo di Helsinski (10-11 dicembre 1999), ci si impegnò a creare –sempre in ambito “Petersberg”– una Forza di reazione rapida europea di 60.000 uomini, da dispiegare entro 60 giorni (previa valutazione NATO) in “aree di crisi” per almeno un anno. Un obiettivo ancora lungi dall’essere raggiunto, constata il rapporto Ralston – Naumann che esorta gli “alleati europei” ad aumentare le spese militari, ottimizzandole attraverso una più spinta cooperazione interstatale nella ricerca e produzione di nuovi sistemi d’arma, puntando anche alla specializzazione dei ruoli. Il tutto nell’ottica di integrare le capacità delle forze USA.
Il 16 dicembre 2002, con la Dichiarazione NATO-UE sulla PESD, si definivano i termini della cooperazione ed interazione tra Difesa europea e Alleanza Atlantica. Si prevedevano operazioni militari a conduzione europea nel campo della “gestione delle crisi”, accedendo a risorse NATO di cui si ribadiva la centralità definendola «il fondamento della difesa collettiva dei suoi membri». Durante il vertice UE-NATO di Madrid (3-4 giugno 2003), fu istituito il NATO-UE Capability Group, uno strumento per coordinare lo sviluppo integrato delle rispettive Forze di reazione. Si evitavano così, dal punto di vista di Washington, inutili duplicazioni di strutture, forse funzionali a strategie autonome –ma non confliggenti con gli USA– di paesi come la Francia, e destinate a sottrarre risorse allo sviluppo dell’Identità Europea di Sicurezza e Difesa come pilastro europeo della NATO secondo il principio delle “Forze separate ma non separabili”.
La Difesa europea serve in sostanza a Washington per acquisire fondi e disporre di truppe da impiegare in teatri di guerra sui quali non vuole impegnarsi direttamente, migliorando il rapporto transatlantico sul piano della inter-operabilità militare: i dispiegamenti militari UE nei Balcani (Bosnia, Kosovo, Macedonia) stanno costituendo in tal senso un banco di prova ed un’applicazione di accordi di cooperazione NATO-UE in materia di “gestione delle crisi”.
Non deve allora soprendere che Ralston e Naumann, nel loro rapporto, lamentino non il processo d’integrazione, ma la sua lentezza. A loro dire, «l’Europa è ancora alle prese con i fantasmi della sovranità nazionale», definitivamente da «trasferire» ad un’entità sovranazionale altrimenti verrebbero fortemente penalizzate la «vitalità della NATO come alleanza e la capacità dei paesi europei di essere partner degli Stati Uniti in ogni significativo aspetto». Emerge chiaramente il legame tra smantellamento della sovranità nazionale, integrazione europea e sottomissione agli USA, visibile anche sulla vicenda del mantenimento dell’embargo europeo sull’esportazione di armamenti alla Cina, in vigore dai fatti di piazza Tien An Men del 1989. Significative le parole del co-presidente di EADS (gigante franco-tedesco-spagnolo degli armamenti), Rainer Hertrich. Al quotidiano francese Le Figaro (13 aprile 2005) annunciava che non avrebbe venduto più armi di ultima generazione a Pechino per effetto del diktat USA. Hertrich, la cui azienda vanta diversi contratti di fornitura verso Washington, proseguiva dicendo: «siamo dipendenti e vulnerabili» nei confronti degli Stati Uniti, che hanno minacciato di «cessare ogni trasferimento ed esportazione di tecnologia verso l’Europa» nel caso l’UE avesse tolto l’embargo. L’azienda di punta del presunto complesso militar/industriale europeo in gestazione ammetteva dunque di essere estremamente dipendente dalla superpotenza statunitense.
La prospettiva dell’Unione euro-americana
Che l’Unione euro-americana sia la prospettiva di medio-lungo termine del processo d’integrazione, sembra evidente dal contenuto della risoluzione del 13 gennaio 2005 del Parlamento europeo sulle “relazioni transatlantiche”, in cui si impone tra l’altro di stabilire una «Comunità d’azione transatlantica». Ciò, si badi bene, non soltanto in riferimento al Medio-Oriente, dove si appoggia la promozione della “democrazia” in Palestina, Iraq e Iran, nell’ambito del progetto USA di Grande Medioriente allargato (dal Marocco all’Afghanistan) presentato al G8 di Sea Island del giugno 2004.
Il testo della risoluzione si pone innanzitutto in continuità con la dichiarazione transatlantica del 1990 sulle relazioni tra l’UE e gli USA; l’“agenda transatlantica” del 1995; la risoluzione del 22 aprile 2004 sullo stato del partenariato transatlantico alla vigilia del summit USA-UE di Dublino (25-26 giugno 2004) ed i risultati del summit stesso. La risoluzione si impegna esplicitamente a «realizzare pienamente l’integrazione economica transatlantica», ad esempio «accelerando il dialogo sulla regolamentazione dei mercati finanziari per promuovere un mercato dei capitali transatlantico dinamico ed aperto». Inoltre, ci si impegna ad aggiornare l’“agenda transatlantica” del 1995 «sostituendola con un “accordo di partenariato transatlantico” da mettere in atto a partire dal 2007» e a trasformare gradualmente gli scambi interparlamentari esistenti tra UE ed USA «in un’“assemblea transatlantica” di fatto».
Così come auspicato da organizzazioni come il Transatlantic Policy Network, il Trans-Atlantic Business Dialogue ed il German Marshall Fund statunitense, un’“area transatlantica” di libero scambio, incastonato su un sistema comune di Difesa, è lo sbocco prossimo di un’UE sempre più feudo degli USA. Concetti ribaditi nel febbraio 2005 a Parigi da Condoleezza Rice, segretario di Stato USA. Nel corso del suo tour di preparazione ad una quattro giorni europea di George Bush II –che registrò la storica visita (22 febbraio 2005) del presidente USA alla sede della Commissione Europea– la Rice espresse, con accenti del tutto espliciti, l’elogio e l’incoraggiamento dell’amministrazione USA al processo d’integrazione economica, politica e militare europea, ricordando pure che «nei Balcani si sta assistendo a un progressivo passaggio di consegne dalla NATO ai recentissimi peace-keeper europei. Potrebbe essere un’anticipazione di altri scenari futuri».
Conclusioni
In base a quanto rilevato, dovrebbe apparire chiaro che l’Unione Europea serve perfettamente agli interessi di Washington. Innanzitutto come spazio economico privo di barriere commerciali e legislative, supervisionato dalla finanza USA ed ulteriormente aperto alla penetrazione capitalistica di Washington (dalle multinazionali del biotech financo alle società di professionisti). Quindi come strumento delle strategie militari USA, bisognoso di maggiori uomini e mezzi per fronteggiare le sfide del XXI° secolo. Infine come strumento di controllo a tutto campo delle sempre scomode sovranità statali e nazionali, da smantellare e riposizionare, in scala gerarchica, in una “macro-aggregazione geopolitica” interconnessa economicamente, in cui ogni Paese si specializza in determinate produzioni e nel fornire un certo tipo di assistenza militare.
Quando il primo ministro britannico Tony Blair (Bruxelles, 24 marzo 2006) rileva che a Londra «l’elettricità è fornita da un gruppo francese, l’acqua da una impresa tedesca», mentre «per il gas c’è invece la scelta tra quattro compagnie, tre delle quali non sono britanniche», lascia presagire un sistema europeo interdipendente che mira a rompere ogni ambito di autonomia degli Stati, in una struttura regionalizzante: in ambito energia, c’è ad esempio chi paventa integrazioni euro-atlantiche di ENI ed ENEL e addirittura l’ingresso nel mercato nazionale di colossi multinazionali petroliferi esteri, rilevando al contempo il crescente ruolo nella produzione e/o commercializzazione di elettricità e gas di centinaia di ex-municipalizzate, oggi in gran parte in mano agli enti locali ma domani gestite prevalentemente da un azionariato di investitori esteri ed imprenditori privati, da legare così economicamente (a carico dei cittadini con salatissime bollette) alla comunità transatlantica. Una ragione in più per rivendicare l’indipendenza nazionale dall’UE, dunque dai progetti di dominio globale di Washington. Se si imboccasse questa strada, allora sì che per le classi dominanti USA potrebbe iniziare veramente il declino.
Agostino Santisi
("Indipendenza", n. 19-20, febbraio/maggio 2006)
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