Lavoro di massa senza valore
di SINISTRA IN RETE (Norbert Trenkle e Ernst Lohoff)
A prima vista, potrebbe sembrare che l’industrializzazione su larga scale dei paesi emergenti nel mercato mondiale – innanzitutto la Cina, l’India ed il Brasile, ma anche quella di altre regioni dell’Asia e dell’America Latina – fornisca le prove concrete che a livello mondiale non si può più parlare di una contrazione della sostanza del lavoro e del valore [*1]. Ma guardando la cosa più da vicino, tutto questo si rivela una mera finzione. Da un lato, se vista alla luce delle numerose perdite di posti di lavoro industriali nei paesi capitalisti del centro, ed ancor più nei paesi del defunto «socialismo reale», la crescita del lavoro di massa può essere relativizzata. Perfino in Cina, il paese del boom, a partire dagli anni ’90 si registra un saldo negativo di quelli che sono i posti di lavoro industriali, fra l’altro perché il settore pubblico sottoproduttivo ha perduto più posti di lavoro di quanti ne siano stati creati nel settore privato [*2]. Questo fenomeno viene deliberatamente nascosto, dal momento che le imprese industriali pubbliche appaiono, viste attraverso gli occhiali ideologici del neoliberismo e quelli della sinistra tradizionale, come se facessero parte di un sistema differente, sebbene non rappresentino altro che è un’altra forma di valorizzazione nazionale capitalista. In realtà, in primo luogo, si tratta solamente dell’estromissione di queste imprese da parte di un capitale maggiormente produttivo.
Dall’altro lato – ed è questo il punto essenziale – il lavoro di massa nelle fabbriche del mercato mondiale, nelle imprese di subappalto, nelle fabbriche al nero dei paesi emergenti e nei luoghi di produzione a basso salario non rappresenta affatto in alcun modo una quantità di valore e di plusvalore così tanto elevata come si potrebbe credere a prima vista.
Perché – anche se in questo lavoro va vista una parte di quella che è la relazione globale di valorizzazione – esso viene generalmente implementato ad un livello di produttività tecnico-organizzativa assai al di sotto di quello che si riscontra nei settori centrali della produzione destinata al mercato mondiale. A livello di impresa, questo sfruttamento della forza lavoro è redditizio solo in quanto la differenza di produttività viene compensata per mezzo dei salari e degli altri costi di produttività estremamente bassi. Ma evidentemente ciò non significa che il tempo di lavoro relativamente lungo richiesto per la produzione di ciascun pezzo rappresenti una corrispondente elevata percentuale di valore. Ciò perché le merci prodotte in questo modo vengono convocate, insieme ad ogni altra merce, davanti allo spietato tribunale della misurazione del valore sociale che è in vigore; e che oggigiorno è globale ed è dettato dai settori che progrediscono al livello più avanzato di produttività.
Un promemoria: un prodotto, una merce che viene lanciata sul mercato mondiale, rappresenta esattamente la medesima quantità di valore di ogni altra merce dello stesso tipo e della stessa qualità. Se, per la sua produzione, è stato usato più di quello che è il tempo socialmente necessario, un tale eccesso di tempo viene socialmente annullato, e per questo non si trova ad essere remunerato. Se in una fabbrica al nero in Cina o in Bangladesh vengono impiegati, ad esempio, cento operai, quando, contemporaneamente, in una fabbrica ad alta tecnologia in Germania o in Giappone, ne vengono impiegati solo dieci, il lavoro dei primi cento operai impiegati rappresenta solo il valore di questi ultimi dieci operai. La delocalizzazione della produzione può essere redditizia a livello di un particolare capitale, a partire da dei salari estremamente bassi, ma in questo caso ciò non contribuisce affatto ad aumentare la massa del valore al libello della totalità della società. E questo perché anche qui possiamo dire che non è il tempo utilizzato individualmente, ai fini della produzione della merce, che determina il suo valore, bensì lo standard temporale di quella che è l’ora di lavoro sociale. Se questo standard aumenta, in seguito ad un aumento della produttività, ecco che allora il valore di tutte le merci di quel tipo si abbassa, indipendentemente dalle condizioni in cui esse sono state prodotte. Si tratta di quel meccanismo che normalmente obbliga le imprese ad uniformarsi al livello di produttività in vigore e ad introdurre quelli che sono i nuovi metodi di produzione. In linea di principio, tutto questo vale anche per la concorrenza sul mercato globale, solo che qui, contrariamente a quello che è lo spazio nazionale, possono coesistere anche quelli che sono dei livelli di produttività molto più disparati, dal momento che le condizioni di valorizzazione e di lavoro variano enormemente a seconda dei paesi, e che la differenza di produttività può perciò essere compensata a livello dei prezzi e dei costi per mezzo di uno sfruttamento feroce della manodopera, attraverso una spietata distruzione dell’ambiente, ed una svalutazione delle valute.
Un rapporto pubblicato sul settimanale “Die Zeit” mostra in maniera assai esplicita, attraverso la produzione di una maglietta dell’azienda tessile H&M, l’enorme divario esistente tra i livelli di produttività dei diversi paesi del mercato mondiale (Uchatius, 2010). L’autore segue per tutto il pianeta quelle che sono le diverse tappe della produzione di questo capo di abbigliamento, che viene venduto da H&M a soli €4,95. e cerca di sapere come viene ottenuto un simile prezzo così prodigiosamente basso. Tra le diverse cose sorprendenti, veniamo a sapere che il cotone non proviene affatto, come si potrebbe credere, dall’Africa o dall’India, ma dagli Stati Uniti. E viene raccolto per mezzo di una macchina che fornisce quello che è l’equivalente del cotone raccolto ogni giorno, a mano, da 300 lavoratori. Ovviamente, occorre tener conto del tempo di lavoro per la produzione, la manutenzione, le riparazioni, e così via, della macchina, non ché del gasolio e degli altri costi di funzionamento; ma, persino se stimiamo che tutto questo può equivalere alla metà di quella che è la produzione giornaliera, la quantità del tempo astratto corrispondente ad un kg. di cotone raccolto continua a rappresentare sempre un centocinquantesimo del tempo che viene impiegato da un raccoglitore in India. In altri termini, secondo quello che è lo standard, il lavoro giornaliero di 150 raccoglitori di cotone, sul mercato mondiale, rappresenta il valore di una sola giornata di lavoro. Benché crollino sotto il peso di quel lavoro ed operino in condizioni che non verrebbero invidiate da degli schiavi, il loro lavoro non «vale» praticamente niente, dal momento che esso dev’essere misurato secondo quello che è lo standard definito dalla macchina per raccogliere il cotone. Ed è proprio questo meccanismo strutturale che li obbliga a vendere la loro forza lavoro in cambio di una salario che basta loro appena a sopravvivere.
Nella produzione industriale, la differenza di produttività è meno importante di quanto lo sia in agricoltura, dal momento che è sufficiente rispettare solo alcuni standard tecnici. Però esiste un divario assai ampio tra le fabbriche di automobili nei centri occidentali e le stesse fabbriche in Cina, nella quale al posto delle macchine e dei robot viene impiegata manodopera a buon mercato. Il seguente esempio, che riguarda la fabbrica che si trova a Wangfeng nei pressi di Shangai, può servire ad illustrare tutto questo: «In una fabbrica occidentale, coreana o giapponese, un nastro trasportatore automatico trasporta i motori o gli elementi della carrozzeria delle automobili da un punto della lavorazione ad un altro. Mentre qui queste operazioni vengono eseguite manualmente. […] L’azienda non spende milioni per l’acquisto delle macchine. Ma impiega del lavoratori altamente qualificati il cui salario annuale […] è inferiore al salario mensile di quelle che sono le nuove assunzioni nelle fabbriche di Detroit» (Fischman, citato da Arrighi, 2009, p. 450). Qui è evidente, ancora una volta, che le automobili cinesi non rappresentano affatto più valore per il semplice motivo che sono state fabbricate facendo uso di più manodopera rispetto a quelle fabbricate in Corea o in Giappone [*3]. Poiché, se consideriamo la quantità globale di valore, i tempi di produzione più elevati non sono significativi, e questa fabbrica, solo per i suoi bassi salari, non è concorrenziale a livello internazionale [*4].
Vista sotto questa angolatura, l’estensione del lavoro di massa nei paesi ritardatari del mercato mondiale non rappresenta affatto un’espansione equivalente di quella che è la massa di valore, e quindi non costituisce la base di una nuova ondata autosufficiente di accumulazione capitalista. Si tratta piuttosto di una forma specifica della comparsa e dell’evoluzione della terza rivoluzione industriale. Da una parte, essa ha reso «superflue» delle masse di persone in tutto il pianeta, dal momento che la loro forza lavoro, in rapporto al livello di produttività dominante, non è più necessaria [*5]. Dall’altra, la ristrutturazione globale dei processi produttivi – che avrebbe potuto essere implementata prima per mezzo delle nuove tecnologie informatiche, della comunicazione e dei trasporti – ha aperto alle imprese la possibilità di sfruttare questa manodopera «superflua», in quanto sottoproduttiva, ma estremamente a buon mercato, nella misura in cui è redditizia a livello di impresa, in parte in concorrenza con i settori high-tech e in parte come complemento in quelle aree di produzione dove l’automazione presenta ancora dei problemi (per esempio, per il cucito nell’industria dell’abbigliamento). La differenza con il boom fordista è fondamentale. Allora, l’estensione del lavoro di massa si verificò nella produzione sulla base di una produttività ampiamente omogene. Essa si basava sullo sfruttamento di nuovi settori produttivi, situati al livello di quella che era la produttività sociale allora in vigore. Per cui l’estensione del lavoro di massa allora andò di pari passo con l’ampliamento della base del valore. Ad ogni ora supplementare di lavoro che veniva spesa, corrispondeva un’eccedenza di valore e di plusvalore. Nell’epoca della globalizzazione post-fordista, il nuovo lavoro di massa che viene generato si basa paradossalmente sul fatto che causa dello standard di produttività straordinariamente elevato ci sono milioni di persone costrette, per poter sopravvivere in qualsiasi modo, a spendere la loro forza lavoro al di sotto di questo standard. Le condizioni di vita e di lavoro di queste persone possono di certo essere materialmente paragonabili a quelle del proletariato dell’Europa pre-capitalista; ma, dal punto di vista economico, ci rimandano a qualcosa di assai differente: nelle condizioni pre-capitaliste, essendo l’impoverimento direttamente collegato al livello di produttività relativamente basso dell’epoca, lo sfruttamento del lavoro di massa attraverso la «produzione di plusvalore assoluto» rappresentava l’unico metodo di valorizzazione del capital. Ciò perché ogni aumento della produttività offriva nuovi spazi di manovra alla lotta per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Con il passaggio alla «produzione di plusvalore relativo», l’aumento dei salari, come abbiamo già spiegato, arrivò ad essere compatibile perfino con un aumento della parte del plusvalore che veniva assorbito dal capitale, pur rimanendo del tutto funzionale dal punto di vista di un’accumulazione di capitale in espansione, dal momento che era stato creato il potere di acquisto necessario alla vendita di massa dei prodotti.
Ma nelle condizioni della terza rivoluzione industriale, questo meccanismo smette di funzionare. Poiché, così come i «dannati della terra» di oggi che, tenuto conto del livello di produttività raggiunto dalla valorizzazione del capitale, in sostanza non servono più a niente, e che in seno alle imprese non giocano più nient’altro se non il ruolo di tappabuchi, i quali in qualsiasi momento possono essere rimpiazzati per mezzo della tecnologia, ecco che allora gli aumenti di produttività svolgono proprio l’effetto contrario di quello prevalso nel 19° secolo. Da un lato, fanno aumentare l’obbligo di vendersi a delle condizioni sempre più degradate, al solo scopo di continuare ad esistere in un modo o nell’altro nel contesto di questa feroce concorrenza e dei centri di produzioni altamente tecnologizzati (si veda, tra gli altri, Trenkle, 1999 et 2004 a) [*6]. Ma da un altro lato, i successi ottenuti nelle controversie lavorative, come avviene attualmente in Cina, nei siti produttivi in questione, portano inevitabilmente all’introduzione accelerata di metodi moderni di produzione. Facendo sì che oltretutto sembri che in fondo le masse di forza lavoro utilizzate precedentemente fossero superflue per la valorizzazione, e possono essere sostituite da meno forza lavoro, e facendo quindi sparire i vantaggi comparativi legati a quelli che sono i salari molto bassi. In entrambi i casi, quella che si produce è una contrazione nella massa del valore che viene prodotto dall’insieme della società. Nel primo, in quanto il lavoro di massa impiegato crolla persino al di sotto del livello di produttività in vigore, e che quindi rappresenta meno valore rispetto a prima. Nel secondo caso, perché la quantità di forza lavoro diminuisce senza che sopraggiunga alcun nuovo settore di sfruttamento del lavoro [*7].
Ma laddove non c’è alcun allargamento della base del valore, non può più svilupparsi una dinamica di accumulazione capitalista autosufficiente. L’indicatore più esplicito a tal proposito, è la profonda dipendenza della Cina, e degli altri paesi emergenti sul mercato mondiale, dalle loro esportazioni: ciò dimostra che i salari e gli stipendi che provengono dalla produzione di valore non sono per niente sufficienti a creare il potere d’acquisto necessario a creare un flusso di vendite di beni di massa. Il boom cinese è del tutto dipendente dal potere di acquisto negli Stati Uniti ed in Europa, un potere di acquisto che di certo non è essenzialmente coperto da una produzione di valore, ma che viene creato per mezzo del credito e della speculazione sui mercati finanziari. È per questo che la macchina economica cinese si inceppa immediatamente subito dopo il crack del 2008, e può essere rimessa in moto solo grazie ad un gigantesco programma congiunturale di aiuti, basato su un appello di massa al credito, da parte del governo cinese. In tal modo – e attraverso il programma congiunturale americano, anch’esso finanziato a credito – è stato sicuramente raggiunto di nuovo, rapidamente, un elevato tasso di crescita, ma il prezzo da pagare è stato un balzo in avanti dell’indebitamento interno, che è aumentato in maniera inquietante, e la creazione di un’enorme eccedenza (Roubini, 2011), che diventa ancora più problematica, dal momento che la domanda da parte degli Stati Uniti e dell’Europa diminuirà considerevolmente, a seguito dei massicci programmi pubblici di austerità messi in atto, se non rappresenteranno il preludio ad una nuova crisi dell’economia mondiale. In questo senso, l’idea secondo cui la Cina potrebbe diventare il nuovo centro dominante dell’economia mondiale è del tutto infondata. Il boom di questa regione non è mai stato fondato sulle proprie basi, ed è sempre stato dipendente dall’espansione globale del capitale fittizio. Per cui, di conseguenza, non esiste nessuna base per un’ondata di accumulazione che possa essere autosufficiente, come quella del boom fordista del dopoguerra.
Norbert Trenkle e Ernst Lohoff – Estratto da “La Grande dévalorisation. Pourquoi la spéculation et la dette de l’Etat ne sont pas les causes de la crise”, Post-éditions, 2014, pp. 110-117 –
NOTE:
[*1] – È questo che, ad esempio, sostiene Michael Heinrich, nel suo articolo dal titolo rivelatore, “Il profitto senza fine”: «Lo sviluppo capitalista della Cina e dell’India non è che agli inizi; in futuro, potrebbe avere benissimo una notevole influenza sull’economia e sulla politica mondiale. Se nei decenni a venire si dovesse formare, in queste regioni, una classe media con un alto potere di acquisto – è sufficiente perfino che si trattasse solo del 20 o del 30% della popolazione, mentre la popolazione rimanente vivrebbe nella povertà – questa parte della popolazione rappresenterebbe da sé sola un mercato che andrebbe da 600 a 700 milioni di persone, significativamente più grande di quello dell’Unione Europea allargata. Allo stesso tempo, l’inesauribile esercito dei poveri garantirà per decenni l’afflusso di manodopera a buon mercato. Per il capitale, nel corso del 21° secolo scarseggeranno molte cose, ma ciò non accadrà per la manodopera a basso costo. Il tasso di plusvalore crescerà a livello globale – con lo sviluppo tecnologico aumenterà il plusvalore “relativo”, mentre con l’allungamento del tempo di lavoro e/o l’abbassamento dei salari reali aumenterà il plusvalore “assoluto”» (Heinrich, 2007). Dopo il crollo dei mercati finanziari del 2008, Heinrich mantiene la sua tesi. In un feroce attacco contro l’idea che il capitalismo possa collassare, scrive: «Gli Stati Uniti continuano ad essere sempre di gran lunga la più forte potenza economica del mondo, ma con i paesi di recente industrializzazione in Asia, ed in parte anche in America Latina, si sono venuti a creare dei nuovi centri di accumulazione capitalistica, che non possono più essere considerati semplicemente come dei paesi “periferici” di un’economia mondiale dominata dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. Essi sostituiscono, in ogni caso parzialmente, l’insufficienza della domanda americana. Questo sviluppo si vede chiaramente quando ci sono delle imprese indiane che realizzano delle acquisizioni spettacolari (la Jaguar è stata acquisita da Tata Motors, e Arcelor, la più grande impresa metallurgica europea, da Mittal Steel), oppure quando la Banca centrale cinese accumula delle enormi quantità di valuta straniera, il cui ammontare si situa ben al di sopra di mille miliardi di dollari. Il capitalismo globale competitivo sta diventando sempre più multipolare, e la cosa va di pari passo con la perdita relativa di importanza economica degli Stati Uniti» (Heinrich, 2008.) Anche Arrighi (2008), come molti altri, accetta come se fosse un fatto in sé che la crescita cinese possegga un carattere di accumulazione capitalistica autosufficiente.
[*2] – Si veda ILO, 2006, p. 359, e Rifkin, 2006, p. XXXII-XXXIII.
[*3] – Arrighi, il quale cita l’esempio della fabbrica di automobili, non si pone nemmeno la questione del valore, dal momento che rimane, in quelle che sono le sue osservazioni, a livello di prezzi e di costi.
[*4] – Nel caso della Cina, si deve aggiungere che la politica di Stato rafforza la competitività del paese svalutandone la moneta. Qui, astrarremo da tale aspetto.
[*5] – Zygmunt Bauman parla di «rifiuto della globalizzazione» come prodotto della modernità capitalistica (Bauman, 2006).
[*6] – Negli ultimi anni, il cucito ha fatto degli enormi progressi per quel che riguarda l’automazione dei processi. Se questa tendenza si dovesse rafforzare, l’industria dell’abbigliamento potrebbe rilocalizzare nei centri capitalisti l’insieme dei segmenti della produzione, cosa che avrebbe come conseguenza il fatto che dei posti di lavoro sottoproduttivi in Cina e altrove, potrebbeo sparire in massa (si veda Textilwirtschaft, 19 mazo 2009, e www.suedwesttextil.de/news/nachricht?n=486 )
[*7] – «La ditta subappaltatrice Foxconn, che opera per l’industria high-tech mondiale, è uno dei più importanti “datori di lavoro” della Cina, con circa un milione di operai che lavorano in delle fabbriche simili a caserme. L’azienda taiwanese impiega a livello mondiale un esercito di circa 1,2 milioni di operai, sono costretti ad assemblare a mano, fra le altre cose, dei gadget della Apple, della Sony, della Nintendo o della HP. Pertanto, gli ultimi giocattoli tecnologici del 21° secolo, che sono stati elevati da tempo al rango di marchi di lusso iconici per numerosi bambini della classe media dei paesi industrializzati, vengono prodotti sull’arcaica catena di montaggio risalente agli inizi del 20° secolo. Secondo Terry Gou, capo della Foxconn, tutto questo dovrebbe cambiare presto. A fine luglio, ha spiegato che in futuro un milione di robot verranno utilizzati nelle fabbriche Foxconn per svolgere i compiti “semplici e di routine”, come la verniciatura e l’assemblaggio delle componenti. Attualmente, ci sono solo 10 mila robot industriali nelle imprese della Foxconn, ma dal prossimo anno il loro numero salirà a 300 mila. A partire dal 2014, verrà raggiunta la cifra totale di un milione di macchine-utensili» (Konicz, 2011 a).
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