Aldo Barba, Massimo Pivetti, “Il lavoro importato”
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Il libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti avvia una trilogia sulle tre “libertà” del progetto europeo nato con l’Atto Unico e consolidato dal Trattato di Maastricht, fondatore della Unione Europea. Si svolge in sei passi: nel primo sono richiamati i dati relativi all’immigrazione nei diversi paesi europei e la loro progressione nel tempo; quindi viene descritta la dinamica che si è generata nel settore dei lavoro lungo la stratificazione dello stesso, ovvero quella della sostituzione di poco meno di un milione di lavoratori autoctoni (cfr. p.40); al terzo passo viene descritta la teoria economica mainstream, ovvero neoclassica, ed il motivo teorico per il quale sistematicamente esclude che possa esserci in effetti disoccupazione involontaria, anche in presenza di una accresciuta competizione; quindi è presentata una teoria alternativa, imperniata sul conflitto distributivo (invece che sull’equilibrio armonico), su questa base emerge l’evidenza della forza disciplinante dell’immigrazione; dopo aver illustrato gli impatti sullo Stato sociale, probabilmente quelli più rilevanti, gli autori entrano con i piedi nel piatto e tematizzano l’atteggiamento delle sinistre verso l’immigrazione e le loro ragioni, fino ad una retrospettiva sulle posizioni del marxismo classico; infine sono proposte alcune soluzioni per la regolamentazione ‘forte’ del fenomeno.
Premessa: la discussione
Si tratta di un libro che farà discutere, verso il quale sono già sorte numerose obiezioni ed aspre polemiche nel piccolo mondo della sinistra radicale. In effetti disturba profondamente i dogmi e le tranquille abitudini di pensiero, rinsaldate dalla reazione popolare praticamente univoca al crescere del fenomeno. La spia più rilevante del segno di questa sinistra occidentale è proprio nella reazione emotiva, che spinge alla chiusura identitaria ed all’impermeabilizzazione delle frontiere di gruppo, davanti alla reazione popolare all’immigrazione. Lungi dal riconoscervi un problema e un fondamento da trattare e comprendere si replica normalmente con lo stigma morale, la denuncia di una tara, del ‘razzismo’. Compiendo questa mossa ci si pone su un piedistallo e si denuncia, in effetti, la posizione di classe dalla quale ci si pone[1]. La sinistra da tempo ha compiuto un rovesciamento, il suo insediamento sociale si è ristretto nei ceti “riflessivi”, ovvero piccolo-borghesi, urbani, semi-colti, dotati di capitale culturale e sociale, se non economico, e dall’alto di questa superiorità -invero presunta- giudica il resto del mondo. Si tratta chiaramente di un giudizio morale ed estetico, circa il linguaggio aspro e ineducato, l’ignoranza, il razzismo, la tendenza ‘proto-fascista’ e via dicendo.
Da questa posizione, anche se per lo più inconsapevole[2], facendo uso di una recente replica[3] degli autori sono state avanzate tre critiche: alcuni hanno opposto, senza entrare nel merito, l’interdetto all’intero discorso in quanto “politicamente inopportuno” perché “farebbe il gioco delle destre”; altri saltando le ragioni economiche, bollate di “economicismo”, hanno fissato l’attenzione solo sul lato umano; infine ci sono pochi che hanno sviluppato obiezioni al modello di analisi economica del libro.
Gli autori replicano alla prima obiezione riaffermando l’utilità di sollevare il tema, proprio perché divisivo e quindi in grado di rompere la chiusura sterilmente indentitaria della sinistra. Al secondo (che suonerebbe bene in un’associazione cattolica) replicano sollevando la questione della provenienza di classe della critica ricevuta; con le loro parole “la solidarietà nei confronti degli ultimi fa si onore a chi la esercita, ma decisamente molto meno se la si esercita a scapito dei penultimi dei quali si ha la fortuna di non far parte – o si sia cessato di far parte”[4]. Infine alle obiezioni che fanno uso della letteratura economica replicano ricordando in primo luogo che la gran parte della letteratura del settore non è affatto neutrale, ma rappresenta “nient’altro che delle razionalizzazioni apologetiche del punto di vista dei capitalisti e dei loro rappresentanti”. In effetti è sempre singolare quando persone che si sentono radicali accettano acriticamente affermazioni di autori con i quali sono in totale disaccordo su qualsiasi altro tema, solo perché in linea con questo. Inoltre, sottolineano la non univocità delle risposte anche sul piano teorico e riaffermano lo scopo primario del testo: “ciascuno dei tre aspetti principali della mondializzazione – la libertà di movimento dei capitali, quella delle merci e quella delle persone – ostacola ogni miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, insieme alla semplice difesa delle conquiste faticosamente conseguite in passato dal mondo del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato. Ciascuna di queste tre libertà genera concorrenza tra lavoratori di nazioni diverse, caratterizzate al loro interno da differenti rapporti di forza tra capitale e lavoro e da una diversa coscienza di classe”. Seguendo un modello presentato persino da Robert Solow nelle “Tanner Lectures” del 1998[5] gli autori, in altre parole, sostengono che la scala degli effetti sulla stratificazione dei livelli salariali e dei lavori alla fine produce una “economia con un salario complessivamente più basso”.
Inoltre l’insieme del fenomeno, grazie agli effetti di polarizzazione geografica provocati dalle dinamiche di mercato (lavoratori a basso reddito tendono a concentrarsi in quartieri periferici e degradati e per questo più economici, ed a intasare i mezzi di trasporto pubblico, in quanto lavorano nelle zone dense in cui non possono vivere), “concorrono con gli altri flussi al peggioramento della qualità della vita nei quartieri popolari – all’accumulo di disagi abitativi, nei trasporti, nei servizi, nonché al peggioramento del sistema scolastico e all’aumento dell’insicurezza in quei quartieri”.
Infine, ricordano gli autori, ci sono stati i commenti “benaltristi”. Quelli secondo i quali ci sarà anche un riposizionamento verso il basso dei salari, ma questo dipende da altro: di volta in volta dai clandestini, dall’assenza di controlli, dalla concorrenza prodotta indirettamente dalle merci e non dal lavoro (questa è una sorta di concorrenza indiretta sul lavoro[6], in quanto provoca chiusura delle fabbriche, competizione al ribasso sul lavoro per reggere la concorrenza e via dicendo). A questa obiezione si risponde che è ovviamente vero. L’intero programma di lavoro dei nostri è appunto una risposta alle altre concause; ma la cosa non va impostata in termini formali, si tratta di una questione di rapporti di forza, si tratta di risalire la china che si è scesa dagli anni ottanta (ed accelerando dagli anni di Clinton). Cosa che richiede principalmente di spostare la concorrenza dai lavoratori ai datori di lavoro. Un vecchio e potente modello proposto da Friedrich Engels nel 1844, nel famoso capitolo sulla concorrenza[7] di “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, mostrava che se la concorrenza tra i lavoratori si indebolisce, asciugandosi “l’esercito industriale di riserva”, inizia quella tra i datori di lavoro. Quindi i salari cessano di scendere e cominciano a salire, con essa la domanda, e via via i salari… Ovviamente questa è la minaccia che l’immigrazione combatte (insieme a molte innovazioni tecnologiche ed organizzative labor saving).
È possibile ancora un’altra obiezione, da un punto di vista radicale, ed è ben espresso in un commento di Michele Castaldo[8] che si trova su “Sinistrainrete”. Il nostro premette che “tutti gli argomenti del libro sono veri”, e quindi il problema esiste. Ma dichiara essere la soluzione proposta da Barba e Pivetti fondamentalmente ‘riformista’, ovvero, con le sue parole “da piccolo borghesi perbenisti, conservatori e reazionari”. La questione centrale sarebbe invece che l’Italia è un paese imperialista, che sfrutta il mondo dal quale estrae i lavoratori soprannumerari che importa per reggere la concorrenza tra imperialismi. Se questo è il movimento (e non si può che concordare, in certa misura[9]), allora la soluzione non è la regolazione che vorrebbe calibrare gli immigrati per, come scrivono gli autori, “tenere in tensione” la dinamica del lavoro quanto basta per porre su una linea ascendente i salari e lo stile di vita dei lavoratori. Ma è farla finita con il sistema tutto, ovvero mondiale, di sfruttamento ed oppressione in linea con quella che chiama “la logica analitica della fase storica”, ovvero il crollo. Seguendo in un certo senso una costruzione logica propria anche dell’ultimo Engels (cfr, prefazione del 1892 alla “Situazione della classe operaia in Inghilterra” [10]) ed a tratti di Marx, o di Lenin, per Castaldo l’accrescimento dello sfruttamento e della proletarizzazione, determinato dalla competizione imperante, provocherà infallibilmente, per proprio moto, l’insorgenza di un “popolo tumultuoso e torbido, cioè in movimento antisistema integrando in esso immigrati e autoctoni mettendo in fuga il perbenismo di destra e di sinistra e imponendo le sue leggi”. Il “movimento antisistema”, costante speranza della sinistra globalista (che vede l’orrore della globalizzazione, ma conta di uscirne al fondo della sua estensione), scaturirebbe quindi necessariamente dallo sfruttamento, e dalla disperazione. Quindi chi lavora ad attenuarle in realtà lavora per la sua conservazione. Chi vuole un “sol dell’avvenire tranquillo” è solo un “borghese piccolo piccolo”, e perderà l’appuntamento con la storia. Quanto lontana? Castaldo non lo sa, ma si sente “ai primissimi prodromi”.
In effetti si sente così dagli anni settanta.
Io direi di rimandare la questione su chi è più piccolo-borghese e leggere il libro.
Gli autori
Ma prima due parole sugli autori. Aldo Barba è un professore associato di Politica economica all’Università Federico II di Napoli, nato nel 1970, dottorato a “La Sapienza” di Roma e visiting scholar alla Columbia, poi ricercatore ed infine associato a Napoli[11]. Massimo Pivetti, dei due il più noto, è nato nel 1940, già professore ordinario di Economia politica a “La Sapienza”, ed insegnante a Pavia, Modena e Napoli, autore di numerosissime pubblicazioni ed esponente della scuola modenese sraffiana a seguito dell’arrivo di Garegnani di cui era assistente sin dalla permanenza all’Università di Sassari. Dal 1968 è dunque a Modena, Pivetti vi insegnava Economia politica II, con Brusco, Ginzburg, Salvati, Biasco, Vianello. Mentre crollava il sistema di Bretton Woods, economisti come Parboni, di cui leggeremo[12], leggevano le tensioni crescenti come sistema di interdipendenze asimmetriche e di interessi favoriti e/o sacrificati. Partecipa a quella stagione centrale nella storia della sinistra italiana, Vittorio Foa, giunto successivamente a Modena, e storici come Leonardo Paggi[13], Giovanni Mottura, Vittorio Rieser. Alcuni di questi economisti sono stati fortemente coinvolti nella battaglia teorica della metà degli anni settanta sull’inflazione ed il salario, dibattito aperto da alcune famose interviste, tra le quali quella di Agnelli del 1972[14] e poi di Luciano Lama[15]. Nel 1973 parte piuttosto una tendenza a recuperare i margini attraverso l’erosione del salario reale, via inflazione, cui il sindacato inizialmente risponde cercando di potenziare l’indicizzazione. La “scuola di Modena”[16] quindi perde slancio nel clima di riflusso degli anni ottanta. Insomma, è stato certamente uno dei protagonisti del dibattito economico italiano, almeno fino a che questo si è mosso sul terreno della critica[17].
I due autori insieme hanno scritto “La scomparsa della sinistra in Europa”[18].
La tesi
La tesi del libro è che “l’immigrazione è interpretata come un fattore importante di aggravamento degli effetti della mondializzazione sul potere contrattuale dei salariati nei paesi a capitalismo avanzato e sulle condizioni generali di vita dei ceti popolari”. Ne segue che in effetti l’ostilità dei ceti popolari nei confronti degli immigrati, se pure si manifesta a volte in toni inclinanti alla xenofobia, “ha salde fondamenta”. E’ tutt’altro che irrazionale, ciò fino al punto che a parere degli autori, la cui militanza nel campo della sinistra non può essere messa in dubbio, nessun cambiamento dei rapporti di forza politici, “in grado di tradursi in una svolta in senso progressivo degli orientamenti di politica economica, è oggi concepibile in Europa in assenza di una chiara e credibile volontà di severo contenimento dei flussi migratori”.
Naturalmente se si tiene la posizione di Michele Castaldo, rifiutando ogni e qualsiasi forma di riformismo in favore di una sorta di “iper-leninismo”, si può concedere il punto ed egualmente essere contrari. L’aggravamento degli effetti della mondializzazione, nel distruggere le condizioni di esistenza dei ceti popolari e dei ceti medi, realizzando in parte la profezia di proletarizzazione di Marx dopo centocinquanta anni, sarebbe allora da accelerare. Nessuna svolta “in senso progressivo” sarebbe desiderabile e qualsiasi miglioramento allontanerebbe il momento del crollo finale del capitalismo. La vittoria delle peggiori destre, coerentemente, dovrebbe essere salutata con soddisfazione in quanto prodromo della rivoluzione. La completa apertura dei confini la avvicinerebbe (o meglio, avvicinerebbe entrambe). Magari bisognerebbe passare per il fuoco di gravissimi disordini, della dittatura di una destra fascista spinta dal risentimento, dalla guerra causata dagli sconvolgimenti sociali indotti, ma tutto sarebbe pagato, al fine, dal sorgere dell’alba.
Se si intende, invece, sollevare le condizioni di vita dei ceti popolari, qui ed ora, per riguadagnarne il consenso e combattere efficacemente la tendenza del quadro politico di slittare a destra, accumulando la forza per recuperare i rapporti di forza che resero possibili le conquiste dei lavoratori nel trentennio (certo, memori della lezione, evitando questa volta le deviazioni burocratiche e le forme di keynesismo privatizzato[19]), non si può che affrontare anche questo tema.
I dati sull’immigrazione
Nel primo passo gli autori ricordano che negli ultimi trenta anni nei principali paesi europei (Francia, Germania, Italia e Regno Unito) i nati all’estero sono passati da 16, 9 a 37 milioni complessivi, in Italia dal 2,5% al 10,2%, con quasi cinque milioni di nuove presenze. Naturalmente i nuovi lavoratori non si distribuiscono in modo uniforme rispetto agli indigeni. In genere si concentrano nelle zone più sviluppate economicamente e ai margini dei grandi agglomerati urbani, ad esempio nelle Banlieu parigine il 25% è costituito da immigrati e nella periferia di Londra il 40%. In Italia un terzo della popolazione straniera si concentra nel Nord/Est.
Né bisogna considerare, per avere un’idea dell’impatto sociale del fenomeno, solo sui “nati all’estero”, perché almeno le seconde generazioni (e talvolta le terze) sono da considerare in realtà semi-integrate. Con questa osservazione l’incidenza dei “non totalmente integrati” aumenta fino ad avere una incidenza almeno doppia. Questa considerazione è rilevante perché, come scrivono gli autori “il punto centrale riguarda l’impatto negativo che gli stranieri esercitano sul grado di coesione sociale dei lavoratori autoctoni, sulla loro coscienza di classe, se vogliamo usare un’espressione meno ellittica e dal più chiaro significato economico”.
Ma questo flusso così rilevante è sempre stato presente? In effetti no, Pivetti e Barba ricordano che fu la crisi petrolifera del 1973-74 a rappresentare un cambiamento di fase. La crescita imponente del trentennio aveva comportato in Europa un calibrato flusso di lavoratori, in particolare dal mediterraneo (come viene spesso ricordato, ma senza tutta la storia) in base ad accordi bilaterali e permessi temporanei ed a rotazione, ciò allo scopo di attenuare le tensioni sul mercato. Ovvero, è chiaro, di non consentire che la scarsità dei lavoratori autoctoni, come previsto dal modello di Engels, facesse salire troppo i salari, uscendo da un quadro di compatibilità con i profitti.
Ma quando la crescita termina prima la Svezia, nel 1972, poi la Germania, nel 1973, e la Francia, nel 1974, limitano gli accessi. Una delle cause è la riduzione del consenso alle politiche di importazione di manodopera a buon mercato per la crescita della disoccupazione interna. Diventa prioritario stabilizzare i lavoratori interni.
La situazione resta così più o meno per un ventennio fino a quando negli anni novanta, insieme alla crescita riprendono i flussi (p.16) insieme agli allargamenti progressivi dell’area di libera circolazione. È il famoso allargamento promosso da Romano Prodi Presidente della Commissione[20]. Così tra il 1990 ed il 2000, in un decennio, arrivano in Germania tre milioni di nati all’estero, in Italia circa settecentomila, in Francia quattrocentomila, in Inghilterra un milione. Poi, tra il 2000 ed il 2010 i flussi maggiori arrivano in Italia, circa tre milioni settecentomila e in Gran Bretagna, circa tre milioni duecentomila. Di seguito, ridotta l’ondata dall’est, in Italia arrivano flussi importanti nel 2015 e nel 2018 in relazione alle turbolenze del mediterraneo.
Ovviamente, e questo è particolarmente importante, dietro a questi numeri di saldo ci sono flussi di gran lunga maggiori di ingressi ed uscite.
Poi ci sono differenze nelle etnie dei nati all’estero che entrano nei paesi: in Germania per due terzi sono europei e per un terzo asiatici, i nordafricani di colore sono pochi perché mal accettati; in Francia c’è un forte incremento di nordafricani, in particolare delle ex colonie; in Italia il numero di africani e asiatici aumenta di un milione e mezzo, ma per lo più si tratta di europei per quasi cinque milioni.
L’imponente emigrazione nei paesi ad economia più sviluppata, seguita all’allargamento, porta un netto declino demografico in paesi come la Polonia, l’Ungheria, la Romania e la Slovacchia.
Altro dato da considerare è la stratificazione demografica: ovviamente i nati all’estero immigrati sono più giovani dei nativi, per lo più si attestano tra i 25 ed i 50 anni, e sono quasi tutti (in Italia l’80%) inclusi tra la popolazione attiva.
Gli effetti sulla dinamica del lavoro
Per questo normalmente si dice che questo flusso può contrastare il calo demografico. Barba e Pivetti non sono d’accordo: gli studi più approfonditi, incluso quelli della Commissione europea e dell’Onu, a leggerli attentamente, confermano che a meno di flussi continui ed imponenti, possono portare un contributo davvero piccolo. Il famoso rapporto “Replacement Migration” dell’Onu stima che tra il 1995 ed il 2050 per conservare invariato l’indice di dipendenza degli anziani in un paese come il Regno Unito ci vorrebbero sessanta milioni di immigrati. Ciò se non si scegliesse di arrivare a soluzioni drastiche come fargli pagare i contributi e poi rubarli (ovvero espellerli al raggiungimento dell’età pensionistica senza riconoscergli la pensione). Né si può contare sulla maggiore fertilità degli immigrati da paesi a minore grado di sviluppo, perché studi convergenti mostrano come il cambiamento delle condizioni sociali e del sistema di incentivazione porti, e molto rapidamente, ad un allineamento delle abitudini riproduttive. Del resto questa è una definizione di integrazione: adattarsi ai costumi locali.
Considerando questi numeri si vede che in Italia ora il 14% dei lavoratori sono “nati all’estero”, ma con una distinzione: la partecipazione al mercato del lavoro è molto più alta per i lavoratori nati all’estero ma da un paese della Ue, mentre è di nove punti inferiore, ed in espansione, per quelli non-Ue. La ragione probabile è che sono meno adatti al mercato del lavoro che trovano in Italia. Malgrado ciò il tasso di partecipazione al mercato del lavoro degli italiani resta inferiore a quello dei nati all’estero complessivamente intesi (69% contro 73%). La stessa cosa avviene solo in pochi altri paesi, la Spagna, la Grecia ed il Portogallo.
Chiaramente i “non impiegabili” incidono sul sistema di prevenzione sociale e sull’insieme delle infrastrutture senza portare alcun beneficio (tasse, versamenti pensionistici, etc…).
Insomma, “ciò che ha avuto luogo è una sostituzione nei ranghi della manodopera disponibile, dei nati negli anni sessanta e settanta (uomini e donne) con degli immigrati. A rimanere immutato, proprio grazie a questa sostituzione, è l’elevata consistenza della massa dei lavoratori eccedentaria che il capitalismo non regolato è sempre in grado di creare e ricreare nelle forme più svariate” (p.38). In Italia, ad esempio, vengono sostituiti circa un milione di lavoratori. I nativi scendono tra il 2005 ed il 2018 di circa ottocentomila unità, che vanno a costituire l’esercito di riserva dei disoccupati, mentre i nati all’estero impiegati sale di un milione e mezzo di unità. E questo accade ovunque, la salita della immigrazione, in condizioni di bassa crescita o stagnazione, si accompagna ad espulsione o a disoccupazione[21].
Una cosa diversa accadde invece nel contesto della robusta crescita seguita alla seconda guerra mondiale. L’immigrazione fu assorbita anche se al prezzo di una crescita più lenta dei salari. Ma soprattutto in quel caso gli immigrati furono impiegati in settori più dinamici, nel contesto ascendente dell’alta crescita, oggi stazionano ai gradini più bassi.
La teoria economica mainstream
Nel capitolo tre viene descritta la teoria economica mainstream, fortemente favorevole alla libertà di movimento delle persone (come dei capitali e delle merci).
Gli aspetti principali della teoria neoclassica, che Pivetti in particolare ha passato la vita a criticare (come il suo maesto Garegnani[22] e il maestro di questo Sraffa[23]), sono:
1) Il salario ed il rendimento del capitale sono determinati simultaneamente dalla funzione di domanda ed offerta dei due “fattori produttivi”;
2) Lavoro e capitale tendono ad essere pienamente impiegati e ottengono una remunerazione che è pari al loro contributo alla produzione (dunque non ci può essere per definizione “sfruttamento”);
3) La dotazione dei fattori della produzione, cioè la loro quantità offerta nel mercato, genera sempre la quantità corrispondente degli stessi, infatti se la domanda di un fattore non fosse sufficiente il prezzo scenderebbe e si avrebbe un aggiustamento corrispondente. C’è dunque una relazione inversa tra il salario e il numero dei lavoratori impiegabili.
Chiaramente in queste condizioni, in forma pura, ovvero senza alterazioni delle leggi del mercato (come le regole che impediscono di lavorare sedici ore, o di lavorare a otto anni, per fare l’esempio di due battaglie ottocentesche), tutti coloro che lo “vogliono” lavorerebbero (o, in altri termini, tutti coloro che non vogliono morire di fame vorrebbero lavorare alle condizioni date, un poco come vorrebbe dare il suo portafoglio chi avesse una pistola alla tempia).
Dato che anche il capitale è soggetto alle stesse regole, ne deriva che il “salario di equilibrio” è quello che impiega pienamente tutti i fattori, ognuno al prezzo del suo contributo marginale. Certo, anche in questa teoria, se si guarda con attenzione, l’aumento della numerosità di un fattore determina un prezzo di equilibrio inferiore, ma qui interviene un classico trucco; la teoria recita che “se si suppone che tutti gli individui derivino il proprio reddito nella stessa proporzione dal lavoro e dal capitale, il fatto che il salario si riduca, essendo tale riduzione compensata da un incremento dei profitti, li lascerebbe del tutto indifferenti. Ogni individuo vedrebbe mutata solo la fonte dalla quale proviene il suo reddito, non l’ammontare complessivo del reddito percepito” (p.53). Naturalmente nel mondo reale invece qualcuno si impoverisce e qualcuno si arricchisce. Qui entra la seconda ipotesi ad hoc: come per la teoria del libero commercio va lo stesso bene, basta che la somma complessiva sia superiore in modo da poter estrarre via tasse al capitale quel che serve per risarcire chi perde (cosa che notoriamente avviene subito e senza alcuno sforzo).
Oppure, terzo escamotage, si può considerare il risultato ancora positivo in caso la redistribuzione verso l’alto porti maggiore crescita e quindi un risarcimento, ma differito. Si tratta di una versione della teoria del Trickle down, molto di moda a sinistra, ma particolarmente ridicola in epoca di crescita stagnante[24]. Alla fine nella teoria marginalista la produzione e il tasso di crescita non sono influenzati dalla domanda aggregata, ma solo dalle risorse disponibili. Quindi aumentando le risorse con più forza lavoro disponibile, la crescita non potrà che seguire.
Insomma, la teoria neoclassica è essenzialmente “una nozione non conflittuale del reddito in cui nessuno toglie niente a nessuno” per definizione.
Un altro meccanismo proposto è che se ci sono più mercati del lavoro (ad esempio tre, lavoro a bassa qualifica e produttività, lavoro intermedio, e lavoro ad alta qualifica e produttività) i salari dei lavoratori della seconda e terza sezione saliranno, in quanto il numero maggiore di lavoratori a bassa qualifica, e la riduzione dei loro salari, genererà più surplus che si scaricherà sul resto della piramide sociale. Una versione della Legge di Say, ferocemente combattuta da Marx, ma tanto è[25].
Insomma, se c’è danno è solo per quelli posti più in basso, è temporaneo, e va a vantaggio degli altri lavoratori.
L’Accademia Nazionale delle Scienze, in un recente report prodotto per fare il punto conclude però che “data la possibilità di effetti multipli, differenziati e talvolta simultanei, la sola teoria economica non è in grado di offrire risposte definitive circa l’impatto detto dell’immigrazione nei mercati del lavoro di riferimento a specifici periodi o episodi”. Dustman in particolare dichiara che la teoria economica è compatibile sia con il danno ai lavoratori nativi sia con la sua esclusione “almeno nel lungo periodo”, dunque la cosa va affrontata sul piano empirico. Un esempio sono i numerosi studi nei quali la crescita dei salari tra aree ad alta immigrazione sono messi a confronto con aree con meno immigrati. Ma anche se non si registrano differenze, resterebbe da vedere cosa sarebbe successo alle aree dense (che per questo attraggono più immigrati) se questi non ci fossero stati, i salari sarebbero forse cresciuti di più? E nelle zone in cui arrivano molti immigrati non è forse vero che alcuni autoctoni se ne vanno (ovvero che si attiva un “crocevia migratorio”[26])? Le analisi statistiche che prendono in esame ambiti geografici più ampi, come le intere nazioni, non a caso registrano un effetto depressivo sui salari.
In questo contesto teorico, in ultima analisi, tutto va sempre per il meglio. Anche se l’accresciuto numero di lavoratori in un dato mercato del lavoro (ad esempio quello basso), determina un più basso salario a causa delle leggi della domanda e dell’offerta, la disoccupazione involontaria resterà nulla, infatti ad un più basso prezzo, secondo la teoria, tutti potranno impiegarsi. Allora le accresciute forze lavorative impiegate genereranno più valore che sarà incorporato nel capitale e quindi aumenterà il tasso di risparmio complessivo dell’economia. I maggiori risparmi si tradurranno necessariamente in maggiori investimenti (al massimo a livello di sistema mondo) che assicureranno da una parte l’assorbimento della produzione (Legge di Say), e infine la neutralizzazione degli abbassamenti salariali per effetto dell’aumento del capitale impiegato nell’economia e quindi dell’offerta di lavoro.
Dopo un congruo periodo tutti staranno meglio (ma, naturalmente, alcuni staranno meglio subito). Chi resterà fuori, perché non ha saputo ricollocarsi (magari perché ha sessanta anni), sarà l’unico colpevole di ciò che gli accade.
La teoria eterodossa
Completamente diversa è la questione se si reintroduce al centro dell’analisi il conflitto distributivo. In quel caso viene a mancare del tutto un automatismo che possa garantire il pieno impiego dei fattori e il centro della scena viene preso dalla nozione di “esercito di riserva industriale”, oltre che dal conflitto di classe. Il meccanismo che regola il salario diventa la competizione tra lavoratori (al ribasso) e quella tra datori di lavoro (al rialzo). La prima quando si è lontani dalla piena occupazione e l’esercito di riserva cresce, la seconda quando si è vicini e l’esercito langue. La quantità e numerosità relativa dei salari è anche la base degli investimenti, perché si investe se si può vendere e se non si teme di andare incontro a crisi di “realizzo”. Nel contesto di questa ricostruzione della circolazione economica di ispirazione marxiana (ma è interpretabile anche con strumenti keynesiani, come del resto fanno gli autori) la nozione centrale diventa quindi la “sovrappopolazione relativa”. E si scopre la funzione degli immigrati (come anche dell’innovazione tecnologica): il bacino illimitato di forza lavoro richiamabile alla bisogna garantisce che si conservino quelle condizioni di “sovrappopolazione relativa” che spingono i salari verso il basso e quindi i profitti verso l’alto. Il vantaggio decisivo della soluzione che passa per l’immigrazione, al posto di quella che prevede investimenti tecnologici, è che si ottengono maggiori profitti senza alcun investimento.
Le forme di sovrappopolazione relativa hanno una componente “fluttuante”, che è costantemente attratta da l’uno o l’altro settore ed entra o esce costantemente da essi, una componente “latente” che è sotto-occupata in settori ancora esterni alla produzione capitalista (siano essi nelle campagne autoctone o in Africa) o “arretrati” (intendendo con ciò soggetti ad una produttività molto più bassa), ed infine una componente “stagnante”, che si trova nelle condizioni di massima irregolarità e povertà. La dinamica vede dunque un “esercito industriale latente” (o potenziale), che può sempre essere richiamato nella parte “attiva”, come ricadere nel pauperismo, e vede una frazione “stagnante” in immediato contatto con il primo e una componente “fluttuante”, che è solita entrare ed uscire a secondo delle congiunture.
Insomma, si tratta di un modello a tre stadi con un bacino esterno (i “latenti”).
I fattori che regolano l’entrata ed uscita dall’esercito di riserva sono:
1- La crescita della domanda aggregata,
2- Il progresso tecnico.
Questa dinamica può complessivamente “mantenere teso” il mercato del lavoro, garantendo una traiettoria di crescita dei salari che tenga costantemente in moderata competizione tra di loro i capitali ed attenui la competizione tra lavoratori quanto basta a garantire una dinamica ascendente dei salari senza impedire, in condizioni capitalistiche, la profittabilità degli investimenti (che è garantita dalla domanda aggregata e da una condizione di prezzi in moderata crescita). Con una crescita della produzione elevata e persistente, infatti, la tendenza della domanda di lavoro potrà sopravanzare la controtendenza a risparmiarlo aumentando la produttività, via investimenti. L’esercito di riserva quindi si assottiglierà, stabilendo un circuito virtuoso tra le politiche di sostegno della domanda aggregata e i livelli occupazionali con salari in crescita a causa della riduzione relativa della popolazione eccedentaria. Qui c’è una divaricazione teorica, infatti se la crescita del salario determinasse automaticamente la riduzione degli investimenti saremmo in prossimità del modello marxiano e di fronte ad un vicolo cieco. La giostra si fermerebbe e comincerebbe a girare al contrario, al massimo si potrebbe stabilizzare su un assetto stagnante. Ma gli autori ritengono che il rallentamento degli investimenti sia sempre mediato dalle politiche economiche statuali, che possono prevenirlo o ritardarlo, evidentemente tramite propri investimenti. Insomma, è la funzione pubblica incarnata dal potere dello Stato a fare la differenza, o a poterla fare (conviene lavare i panni di Marx in Gramsci per comprenderlo).
Quel che si ricava è comunque che il salario non è determinato direttamente e completamente da domanda ed offerta ma solo indirettamente. O, in altre parole, “non esiste un salario in grado di assicurare l’adeguamento della domanda di lavoro alla quantità di esso disponibile” (p.69). Come peraltro riconoscevano anche Engels nel 1844 e Solow nel 1993, il salario è piuttosto, limitato in basso da una “convenzione”. Fatta di abitudini e aspettative e da sentimenti di giustizia in parte condivisi anche nella società più ampia. Esso non tende quindi ad abbassarsi al minimo fisiologico neppure con i più alti tassi di disoccupazione. Questa “convenzione” ha quella che gli autori chiamano “una corazza istituzionale” (che non esisteva ai temi dei fondatori del marxismo) come il sindacato o le norme di protezione del lavoro, ma in primo luogo è il prodotto del grado di sviluppo sociale dei lavoratori.
Ma qui nasce una funzione chiave dell’immigrazione che non solo opera sulla consistenza della sovrappopolazione relativa, quanto sulla “convenzione”, erodendola e costringendola ad adattarsi verso il basso.
Questo effetto è necessario, dal punto di vista del capitale, in quanto se si è in presenza di una “convenzione” abbastanza alta, prodotto della memoria di un certo tenore di vita e di aspettative corrispondenti, a loro volta effetto delle lotte di classe delle generazioni passate, la presenza di elevati tassi di sotto-occupazione (anche causata dall’evoluzione tecnologica) non impedisce che una parte della forza lavoro non impiegata preferisca anche tale condizione a livelli considerati “inaccettabili” di sotto-pagamento[27]. Questo effetto indebolisce la forza disciplinante della disoccupazione, e, per questo, rende ancora più necessario il ricorso all’immigrazione. Altrimenti i datori di lavoro si dovrebbero arrendere alla concorrenza tra di loro e alzare i salari sino a raggiungere la “convenzione”. Quella che prevedeva che un lavoratore medio potesse comprare la casa con dieci anni di risparmi, avere un tenore di vita decente, allevare più figli senza la disperazione di non potergli comprare i vestiti, ed, ovviamente, conservare il suo lavoro.
Ovviamente in assenza di specifiche politiche in tal caso scatterebbe a rendere difficile la posizione la competizione tra le merci (la seconda “libertà”) importate dal resto del mondo, ed in particolare da paesi con una “convenzione” inferiore e condizioni simili di produttività e infrastrutturazione. Di qui il secondo libro della trilogia in formazione.
Come scrivono gli autori:
“Questo è il motivo per cui i capitalisti lamentano mancanza di braccia anche nei periodi in cui le schiere dei disoccupati si vanno rinfoltendo. Ed è proprio in tale preciso senso che l’immigrazione rappresenta oggi un importante bacino di reclutamento dell’esercito industriale di riserva. Si realizza attraverso l’immigrazione una vera e propria sostituzione nelle fila dell’esercito industriale stagnante”.
In altre parole, gli immigrati sono portatori di una “convenzione” “prossima al minimo della sussistenza fisiologica e la loro concorrenza tende a imporre questo più basso standard retributivo ai più avanzati lavoratori nativi”.
Del resto questo meccanismo è molto noto, Engels scrive nel 1844:
“questa concorrenza tra gli operai ha un solo limite; nessun operaio vorrà lavorare per meno di quello che è necessario per la sua esistenza; se proprio deve morire di fame, preferisce subire questa sorte rimanendo in ozio piuttosto che lavorando. Naturalmente, questo limite è relativo; c’è chi ha bisogni maggiori o è abituato a maggiori comodità di un altro; l’inglese, che conserva un certo grado di civiltà, ha maggiori esigenze dell’irlandese, che si veste di stracci, mangia patate e dorme in un porcile. Ma ciò non impedisce che l’irlandese faccia concorrenza all’inglese, abbassando gradatamente il salario, e con esso il grado di civiltà, dell’operaio inglese al proprio livello” (op cit. p.143)
Questa concorrenza normalmente si verifica con particolare forza nel settore dei servizi a basso contenuto tecnologico, ma poi si ripercuote negativamente su tutta la struttura del salario. Si tratta dell’effetto “a catena”, un tipo di trasmissione a vasi comunicanti, ben presente nella letteratura e per il quale abbiamo richiamato le “Tanner Lectures” di Robert Solow come esempio. In sostanza si tratta dello stesso tipo di effetto dell’innalzamento (o abbassamento) del “salario minimo”.
L’impatto sullo Stato Sociale
Ma l’immigrazione ha anche un altro impatto, probabilmente anche più importante, e che agisce sia sul reddito indiretto sia sulla percezione di abbandono da parte dei cittadini e la coesione sociale: è quello sullo stato sociale. Si tratta di uno degli effetti più rilevanti anche perché lo stato sociale richiede ingenti finanziamenti che necessitano di costante legittimazione. La pressione sull’erogazione delle prestazioni sociali, sovraccaricate da richieste per le quali risultano sistematicamente sottofinanziate, rischia di tradursi in una percezione di inefficienza e di disfunzione la quale indebolisce la legittimazione del suo finanziamento stesso. La retroazione di questo circuito di delegittimazione tende a rafforzarsi.
Ma l’impostazione liberale sostiene che, al contrario, l’immigrato produce sempre un impatto fiscale positivo e un effetto demografico parimenti positivo. Questa opinione è dovuta ad una somma semplice tra quel che gli immigrati coinvolti nel circuito lavorativo apportano e la situazione data in loro assenza, tutto restando uguale. Come sostengono gli autori si tratta di un calcolo fallace. Quel che andrebbe fatto è calcolare il saldo tra quanto pagano effettivamente e quanto pagherebbero i lavoratori autoctoni, per diverse ragioni più forti e quindi pagati meglio, che altrimenti il sistema produttivo dovrebbe impiegare. E, se si vuole, anche l’effetto dell’espansione maggiore della domanda aggregata (per i due motivi che le ore di lavoro sarebbero pagate meglio e che l’intera somma sarebbe spesa in Italia, invece di essere in parte trasferita all’estero) sulla ulteriore domanda di lavoro. Più precisamente dovrebbe essere calcolato il saldo tra il differenziale tra quel che si ottiene in termini di versamenti fiscali meno quel che si perde per la disoccupazione degli “spiazzati”[28] ed inoltre meno il costo dell’accesso ai servizi pubblici di tutti e al welfare dei non integrati nel sistema produttivo (ovvero degli “spiazzati” e della parte meno occupabile degli immigrati stessi). Non è difficile concluderne che il saldo è negativo.
Però questo nel breve periodo, e nel lungo? Nel lungo periodo una parte di questi immigrati, in particolare se restano a lungo e si integrano (come tutti auspicano) accederanno alle pensioni. Non è difficile vedere che anche in questo senso potranno pagare al massimo le proprie e non anche le nostre, se poi dovessero tornare in patria al raggiungimento dell’età pensionabile (come non di rado avviene, per ottime ragioni pratiche e culturali) sarebbe anche peggio, perché riceverebbero i trasferimenti dall’Inps senza spenderli in Italia, e quindi facendo perdere l’indotto. C’è un solo modo, in effetti, perché questi accantonamenti pensionistici paghino le nostre pensioni: espropriarli, in un modo o nell’altro e quindi derubarli.
Dunque avremmo bisogno degli immigrati per ragioni strettamente egoistiche? La risposta è no. Ciò che conta davvero per la sostenibilità complessiva del sistema di welfare è il livello assoluto del reddito al netto delle pensioni. E il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati ed inattivi. Questo è il rapporto che, peggiorando, mette in difficoltà il sistema di welfare. In parte per ragioni di dinamica demografica, la quale, continuano a notare gli autori può migliorare solo se si sviluppano, come in Francia, costanti politiche di sostegno e si cerca di ridurre l’incertezza della vita. Se le coppie italiane fanno pochi figli, infatti, non è per ragioni edonistiche o culturali, come talvolta si dice, ma per solide ragioni razionali: se per avere un lavoro stabile e una qualche certezza bisogna superare i quaranta anni, e per sposarsi ottenendo autonomia magari i trenta, se un figlio costa circa diecimila euro all’anno, e quando cresce anche di più, se per comprare una casa è necessario il reddito di cinquanta anni di lavoro, e via dicendo, allora quale livello di irresponsabilità ci vuole per mettere al mondo due o tre figli? Quanti possono permetterselo? Del resto, se inizio a mettere al mondo il primo figlio a quaranta anni, quando biologicamente è anche più difficile, come farò ad averne più di uno? Questa è la semplice e razionale ragione per cui siamo in calo demografico. Inoltre, se il “crocevia migratorio”, causato dalla posizione semi-centrale del nostro paese e dalla sua dipendenza, indice i giovani, appena formati, ad emigrare attratti da salari migliori e maggiori opportunità in paesi con una composizione organica del capitale relativamente migliore, il calo demografico non può che peggiorare.
Da qui bisognerebbe partire.
È stato accennato che il saldo contabile tra lavoratori immigrati e autoctoni è aggravato dalle rimesse. Ma quanto sono, e come ci si è comportati in precedenza? Gli autori la mettono in questo modo: “durante i trenta gloriosi, tra le ragioni principali del ricorso da parte dei maggiori paesi capitalistici a politiche di contenimento o di severa regolamentazione dei flussi migratori, vi era anche quello di evitare, per quanto possibile, che il flusso delle rimesse degli immigrati contribuisse a restringere i vincolo alla crescita del prodotto e dell’occupazione costituito appunto dalla bilancia dei pagamenti con il resto del mondo” (p.85). Una considerazione tanto più importante quanto più era forte la crescita. Si tratta di considerazioni da tenere presenti; se, ad esempio, un governo decidesse di avviare una politica anticongiunturale puntando su un massiccio programma di edilizia popolare, di cui ci sarebbe bisogno[29], contando anche sul fatto che si tratta per lo più di spesa interna che mobilita imprese locali e materie prime disponibili nel paese, ma usasse manodopera per lo più immigrata (come avviene nella filiera delle costruzioni), di fatto qualcosa come il 20% del budget sarebbe in effetti speso all’estero. L’effetto di stimolo ne sarebbe ridotto e in parte andrebbe a peggiorare la bilancia commerciale, aumentando la dipendenza dall’estero e quindi il relativo vincolo.
Per dare un’idea della dimensione del fenomeno bisogna considerare che complessivamente le rimesse degli immigrati sono al momento pari a qualcosa tra i venti ed i venticinque miliardi di euro all’anno.
In un libro citato da Barba e Pivetti, “Exodus” di Paul Collier[30] viene dichiarato che la maggior parte degli economisti non è neppure in grado di prendere in considerazione, in parte a causa delle premesse neoclassiche in parte per interessi di classe razionalizzati, che l’immigrazione possa anche vagamente avere un impatto negativo sulle classi popolari. È senso comune diffuso che concorrenza e flessibilità facciano sempre bene. Uno degli argomenti più usato è quello della crescita della produttività totale dei fattori[31], si tratta di un argomento utilitarista secondo il quale il saldo complessivo del valore creato (economico) è maggiore quando un lavoratore si sposta in un paese con una composizione organica del capitale migliore anziché attraverso l’incremento interno di redditi dei lavoratori nativi[32]. Questa letteratura dichiara in sostanza che il sacrificio delle classi medie inferiori occidentali è più che compensato, in una contabilità edonica implicita, dal vantaggio delle classi medie emergenti che migrerebbero a servizio delle classi alte occidentali. Minimizzando la redistribuzione, in altre parole, si avrebbe il maggiore saldo di felicità (calcolato nella metrica del denaro erogato).
Ma non sempre la sinistra ha tenuto una posizione di accettazione acritica dell’immigrazione, gli autori ricordano le posizioni di Jean-Pierre Chevénement, di Oskar Lafontaine e Sahra Wagenknecht e quelle del Partito Comunista Francese negli anni settanta. In particolare in questo ultimo caso lo spostamento su posizioni no-border avvenne a partire dalla defezione di Alain Badiou e di Etienne Balibar all’avvio degli anni ottanta, quando la sinistra europea e mondiale ebbe una sbandata liberale, che ancora dura. Espressione di forme di relativismo culturale che i nostri hanno attaccato nel loro “La scomparsa della sinistra in Europa”[33], al quale conviene rimandare.
Più di recente sono da registrate le posizioni di Janis Varoufakis, che si traveste da leninista e rivoluzionario internazionalista intransigente quando scrive:
“i muri che ostacolano la libera circolazione delle persone e nelle merci sono una risposta reazionaria al capitalismo. La risposta socialista consiste nell’abbattere i muri, nel permettere al capitalismo d’autodistruggersi nel mentre noi organizziamo la resistenza transnazionale allo sfruttamento” (cit, p.96).
Traduco in modo più chiaro: la libera circolazione delle persone e delle merci distruggono le vite dei lavoratori in occidente, impediscono l’autoriproduzione della società e la sussistenza dello stile di vita occidentale. Dunque sono la levatrice della rivoluzione, in quanto solo persone disperate, che stanno letteralmente morendo di fame, senza alcuna alternativa, per le quali lo sfruttamento è arrivato ai limiti estremi (ad esempio che lavorano tutto il giorno, senza pause, a consegnare pacchetti o in qualche altro “lavoretto”[34] per qualche spicciolo sempre calante per l’aumento della concorrenza) possono rischiare tutto per avviare la rivoluzione (naturalmente mondiale). Una posizione che, francamente, meritava rispetto nella bocca di una persona che comunque si era provata ed aveva messo tutto in gioco come Trotsky, ma che suona ridicola sulla bocca del professore universitario, consulente di diversi governi greci, ex ministro e ora politico di grande successo mediatico come Janis Varoufakis (che seguivo ben prima diventasse famoso e mi è pure simpatico).
Resta il fatto che mentre i professori internazionalisti sono più che favorevoli, i veri ceti popolari, ovunque, sono ostili.
L’internazionalismo marxista
Dunque la completa apertura all’immigrazione è saldamente radicata nella tradizione liberale e nella relativa teoria economica. Anche Joseph Stiglitz, nel suo libro sull’Euro[35] ricorda che se l’avanzamento tecnologico è certamente un fattore importante nell’arretramento delle classi medie e inferiori in occidente il libro commercio e l’immigrazione non sono estranee a tale effetto. A suo parere potevano anche essere mitigate, con le opportune scelte, ma, come ricorda la questione è di scontro distributivo. Ovvero il fatto è che le stesse forze che hanno chiesto a gran voce la caduta di ogni barriera si sono opposte a salari minimi, incremento del welfare, politiche industriali e della ricerca, formazione pubblica. Per attuarle bisognava infatti rinforzare l’azione pubblica e aumentare la tassazione sui vincitori (cioè ciò che è scritto in ogni manuale universitario di commercio internazionale), ma lo scopo era esattamente l’opposto. Per quanto attiene al libero commercio, la sua più ovvia conseguenza è di livellare i salari dei lavoratori non qualificati, infatti scambiare le merci equivale a scambiare le persone che le producono. Dunque quando i neoliberisti sostengono che tutti trarranno vantaggio dal libero commercio, semplicemente, “mentono”: sono i loro gruppi sociali di riferimento che traggono vantaggio.
L’immigrazione è simile, il tema, riconosce il premio nobel americano, è intriso di emotività e sensi di colpa, ma “da un punto di vista strettamente economico” la cosa è molto chiara e semplice: “con curve discendenti della domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta normalmente a un prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo significa che un afflusso di lavoratori dequalificati porta a una diminuzione dei salari. e quando i salari non possono scendere oltre, o non vengono diminuiti, ne consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).
Questo fenomeno è ovviamente più forte dove già c’è disoccupazione[36]. In generale, come dice, “l’onere ricade tutto sulle spalle di chi è meno equipaggiato a sostenerlo”.
Peraltro non si può neppure sostenere che ci siano dei vantaggi per i paesi dai quali gli emigranti partono, perché si ha un effetto di “svuotamento” dell’economia locale, il mercato del lavoro si indebolisce, le imprese si ricollocano su segmenti più poveri con concorrenza più alta e i salari medi scendono. Potrebbe anche aumentare anche la disoccupazione. Inoltre ci sono effetti di rafforzamento sull’indebolimento della capacità fiscale, dunque sulla spesa pubblica e quindi sul tenore dell’ambiente locale.
Dunque l’insieme di questi meccanismi, e questa è la cosa veramente importante, produce percorsi autorafforzanti “di divergenza anziché di convergenza” (p.350). Si ottiene una sempre maggiore polarizzazione e la crescita delle ineguaglianze, che colpiscono sia i paesi di provenienza sia di destinazione. E nella quale “gli unici a uscirne sicuramente vincitori sono i migranti stessi e le aziende che sfruttano il loro lavoro a un costo inferiore”, ma la loro vittoria è a spese dei cittadini che restano nei paesi di partenza e di quelli tra i più deboli di quelli di destinazione.
Questa è la posizione liberale della scienza economica, quando è onesta.
La teoria marxista è sul tema altamente divisa, ci sono elementi analitici che vanno nella stessa direzione appena indicata, ma ci sono anche numerose ed autorevoli prese di posizione contrarie a qualsiasi limitazione dei movimenti di persone. Alcune sono ricordate nel testo di Barba e Pivetti, ad esempio la posizione di Lenin in tre anni in particolare: 1907, 1913 e 1915. Tutti e tre prima della presa del potere.
Nel contesto della lotta tra le diverse correnti della socialdemocrazia internazionale, che vedeva Lenin e i bolscevichi aspramente avversi alle correnti riformiste (o “opportuniste”, con il suo linguaggio) che avevano preso spazio dopo la morte di Engels, il leader russo individua l’ipotesi politica che in ultima istanza l’intensificazione dei flussi migratori accelererebbe l’unità dei lavoratori. La prima nota è scritta all’indomani del Congresso Socialista Internazionale di Stoccolma del 1907 che aveva posto il problema dell’immigrazione dai paesi meno sviluppati verso quelli in corso di industrializzazione.
Per comprendere questa posizione, nei suoi meriti e limiti, bisogna fare attenzione al contesto ed alle poste in gioco, nel testo leniniano[37], del resto sono chiaramente enunciate:
“A Stoccarda la vera questione in gioco era questa: la neutralità dei sindacati o il loro ancor più stretto allineamento con il Partito? […] Clara Zetkin scrive: ‘In linea di principio, nessuno [a Stoccarda] ha più contestato la tendenza storica di base della lotta di classe proletaria di collegare la politica con la lotta economica, di unire le organizzazioni politiche ed economiche il più vicino possibile in un’unica forza socialista della classe operaia’”.
Dunque la questione era di subordinare il miglioramento economico dei lavoratori a breve termine, dimensione presumibilmente privilegiata dai sindacati, con il quadro politico di presa del potere. E’ in effetti la questione posta da Michele Castaldo (che in questo si mostra buon allievo, anche se un poco scolastico).
Poco dopo Lenin continua:
“Inoltre, sulla questione dell’emigrazione e dell’immigrazione, è emersa una chiara differenza di opinioni tra gli opportunisti e i rivoluzionari nella Commissione del Congresso di Stoccarda. Gli opportunisti hanno apprezzato l’idea di limitare il diritto alla migrazione di lavoratori arretrati e non sviluppati, in particolare giapponesi e cinesi. Nella mente di questi opportunisti lo spirito di stretto isolamento artigianale, di esclusività sindacale, ha superato la coscienza dei compiti socialisti: il lavoro di educazione e organizzazione di quegli strati del proletariato che non sono ancora stati attratti dal movimento operaio. Il Congresso ha respinto tutto ciò che sapeva di questo spirito. Anche in seno alla Commissione vi erano solo pochi voti solitari a favore della limitazione della libertà di migrazione e il riconoscimento della solidarietà dei lavoratori di tutti i paesi nella lotta di classe è il tema chiave della risoluzione adottata dal Congresso internazionale”.
Nel 1913 torna sul tema in un articolo pubblicato su “La Pravda” ad ottobre “Capitalismo e immigrazione dei lavoratori”[38]. Il meccanismo di base è descritto in modo preciso:
“Il capitalismo ha dato origine a una forma speciale di migrazione delle nazioni. I paesi industriali in rapido sviluppo, introducendo macchinari su larga scala e espellendo i paesi arretrati dal mercato mondiale, aumentano i salari interni al di sopra del tasso medio e quindi attraggono i lavoratori dai paesi arretrati.
Centinaia di migliaia di lavoratori vagano così per centinaia e migliaia di chilometri. Il capitalismo avanzato li trascina con forza nella sua orbita, li strappa dai boschi in cui vivono, li rende partecipanti al movimento storico mondiale e li mette faccia a faccia con la potente, unita, classe internazionale di proprietari di fabbriche.
Non vi è dubbio che la sola povertà terribile costringe le persone ad abbandonare la loro terra natale e che i capitalisti sfruttano i lavoratori immigrati nel modo più spudorato. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa moderna migrazione di nazioni. L’emancipazione dal giogo del capitale è impossibile senza l’ulteriore sviluppo del capitalismo e senza la lotta di classe che si basa su di esso. Ed è in questa lotta che il capitalismo sta attirando le masse dei lavoratori di tutto il mondo, abbattendo le abitudini ammuffite e polverose della vita locale, abbattendo barriere e pregiudizi nazionali, unendo i lavoratori di tutti i paesi in enormi fabbriche e miniere in America, Germania e così via”.
Ci sono diverse cose da dire, ma lo faremo tra poco. Intanto continuiamo a leggere:
“i paesi più arretrati del vecchio mondo, quelli che più di ogni altro conservano la sopravvivenza del feudalesimo in ogni settore della vita sociale, stanno per così dire frequentando la formazione obbligatoria nella civiltà. Il capitalismo americano sta strappando milioni di lavoratori all’Europa orientale arretrata (compresa la Russia, che nel 1891-1900 ha fornito 594.000 immigrati e nel 1900-1909, 1.410.000) dalle loro condizioni semi-feudali e li sta mettendo nei ranghi dell’avanzato, internazionale esercito del proletariato.”
E, ancora (la cosa è importante):
“Hourwich, autore di un libro estremamente illuminante, Immigration and Labour, apparso in inglese l’anno scorso, fa alcune interessanti osservazioni. Il numero di persone che emigravano in America è cresciuto in particolare dopo la Rivoluzione 4905 (1905-1000.000; 1906-1.200.000; 1907-1.400.000; 1908 e 1909-1.900.000 rispettivamente). I lavoratori che avevano partecipato a vari scioperi in Russia hanno introdotto in America lo spirito più audace e aggressivo dello sciopero di massa.
La Russia è in ritardo e sempre più indietro, sta perdendo alcuni dei suoi migliori lavoratori all’estero; L’America sta avanzando sempre più rapidamente, prendendo le sezioni più vigorose e abili della popolazione attiva di tutto il mondo”.
Infine:
“La borghesia incita i lavoratori di una nazione contro quelli di un’altra nel tentativo di mantenerli uniti. I lavoratori attenti alla classe, rendendosi conto che l’abbattimento di tutte le barriere nazionali da parte del capitalismo è inevitabile e progressivo, stanno cercando di aiutare a illuminare e organizzare i loro colleghi dai paesi arretrati.”
Il terzo testo è del 1915. Si tratta di una lettera ai socialisti americani che osteggiavano l’immigrazione, identificata correttamente come uno dei mezzi attraverso i quali la classe dei capitalisti teneva soggetta quella dei lavoratori in America (per una visione diversa si veda Werner Sombart nel suo libro sul socialismo americano[39]). Ovviamente questa lettera compare mentre la prima guerra mondiale è in corso e gli Stati Uniti non sono ancora entrati in essa (accadrà il 2 aprile 1917).
Scrive Lenin:
“Cari compagni!
Siamo estremamente lieti di ricevere il vostro volantino. Il vostro appello ai membri del Partito socialista a lottare per una nuova internazionale, per un socialismo rivoluzionario ben definito come insegnato da Marx ed Engels e contro l’opportunismo, in particolare contro coloro che sono favorevoli alla partecipazione della classe lavoratrice in una guerra di difesa, corrisponde pienamente alla posizione che il nostro partito (Partito socialdemocratico della Russia, Comitato centrale) ha assunto dall’inizio di questa guerra e ha sempre preso per più di dieci anni.
[…]
Ma non diciamo mai sulla nostra stampa che finora è stata posta troppa enfasi sulle cosiddette ‘Richieste immediate’, e che quindi il socialismo può essere diciamo diluito e dimostriamo che tutti i partiti borghesi, tutti i partiti tranne il partito rivoluzionario della classe operaia, sono bugiardi e ipocriti quando parlano di riforme. Cerchiamo di aiutare la classe operaia a ottenere il reale miglioramento (economico e politico), per quanto minimo possibile, della loro situazione e aggiungiamo sempre che nessuna riforma può essere duratura, sincera, seria se non sostenuta da metodi rivoluzionari di lotta delle masse. Predichiamo sempre che un partito socialista che non unisce questa lotta per le riforme con i metodi rivoluzionari del movimento operaio può diventare una setta, può essere reciso dalle masse, e che questa è la minaccia più perniciosa per il successo del chiaro socialismo rivoluzionario.
[…]
Siamo d’accordo con voi sul fatto che dobbiamo essere contrari al sindacalismo artigianale e a favore del sindacalismo industriale, ovvero dei grandi sindacati centralizzati e a favore della partecipazione più attiva di tutti i membri del partito in tutte le lotte economiche e in tutte le organizzazioni sindacali e cooperative della classe operaia. Ma riteniamo che persone come il signor Legien in Germania e il signor Gompers negli Stati Uniti siano borghesi e che la loro politica non sia un socialista ma una politica nazionalista della classe media. Mr. Legien, Mr. Gompers e persone simili non sono i rappresentanti della classe lavoratrice, rappresentano l’aristocrazia e la burocrazia della classe lavoratrice.
Siamo assolutamente d’accordo con voi quando in un’azione politica rivendichi l ‘azione di massa’ dei lavoratori. Lo affermano anche i socialisti rivoluzionari e internazionalisti tedeschi. Nella nostra stampa cerchiamo di definire con maggiori dettagli cosa debba essere compreso dall’azione di massa politica, come scioperi politici (molto usuali in Russia), manifestazioni di piazza e guerra civile preparate dall’attuale guerra imperialista tra le nazioni.
[…]
Nella nostra lotta per il vero internazionalismo e contro il ‘social-jingo’ [socialisti favorevoli alla guerra ‘difensiva’] citiamo sempre sulla nostra stampa l’esempio dei leader opportunisti della SP in America, che sono a favore delle restrizioni all’immigrazione dei lavoratori cinesi e giapponesi (specialmente dopo il Congresso di Stoccarda, 1907, e contro le decisioni di Stoccarda). Pensiamo che non si possa essere internazionalisti e allo stesso tempo essere a favore di tali restrizioni. E affermiamo che i socialisti in America, in particolare i socialisti inglesi, appartenenti alla nazione dominante e oppressiva, che non sono contrari ad alcuna restrizione dell’immigrazione, contro il possesso di colonie (Hawaii) e per l’intera libertà delle colonie, che tali socialisti sono in realtà jingoes.
Per concludere, ripeto ancora una volta i migliori saluti e auguri per la vostra Lega. Dovremmo essere molto contenti di avere ulteriori informazioni da voi e di unire la nostra lotta contro l’opportunismo e per il vero internazionalismo.
Vostro N. Lenin”
Si tratta di un chiaro e profondo dilemma. Da una parte nel Congresso di Stoccarda lo scontro tra le linee di chi intendeva sostenere il reddito dei lavoratori, direttamente e concretamente (ovvero con un’azione di tipo sindacale) e chi puntava sull’unione politica dei lavoratori ai fini della rivoluzione aveva portato a riconoscere che “l’immigrazione e l’emigrazione dei lavoratori sono aspetti inseparabili dall’essenza del capitalismo, come la disoccupazione, la sovrapproduzione e il sottoconsumo dei salariati”, dall’altra a maggioranza si era “rifiutato” di prendere in considerazione per scongiurare questa minaccia la soluzione immediata della restrizione della libera circolazione. Ma, al contempo il Congresso aveva concesso la lotta contro l’importazione ed esportazione dei “crumiri” (sarrazins), riconoscendo quindi “le difficoltà che in molti casi incontra il proletariato a causa dell’immigrazione in massa di lavoratori non organizzati e abituati a condizioni di vita inferiori da paesi prevalentemente rurali o basati sull’economia familiare, così come i pericoli che emergono da particolari forme di immigrazione”.
Sulla base di questa posizione contraddittoria, effetto dello scontro strategico in corso tra una prospettiva riformista ed una rivoluzionaria, allora non del tutto a torto considerata concreta ed imminente (anche se si paleserà dove non era attesa). Restava solo di lavorare per l’integrazione, la sindacalizzazione, e per “impedire che l’emigrazione venga organizzata nell’interesse delle imprese capitalistiche”.
Queste posizioni sono avanzate ancora oggi, costantemente in una situazione tecnologica, storico-sociale completamente diversa. Potenza della lettura scolastica dei fenomeni.
Ma come allora, molto più di allora, queste posizioni hanno un difetto essenziale: di fatto l’immigrazione è guidata dal capitalismo, funziona per esso, rompe la forza dei lavoratori e quindi è sempre crumiraggio. Se non lo è soggettivamente lo è oggettivamente. Con le parole degli autori: “il fatto è che l’emigrazione di forze di lavoro da A verso B indebolisce sempre il proletariato nella lotta di classe in B (e qualche volta in A, come suggerisce lo stesso Lenin quando fa riferimento, come si è visto, alla perdita da parte della Russia con l’emigrazione dei suoi lavoratori più coraggiosi e combattivi)”. O come sottolinea Sombart, nell’ultimo capitolo del suo libro del 1906, quando sottolinea la potenza disciplinante dell’emigrazione all’Ovest.
In altre parole, la connessione posta tra solidarietà internazionalista e lotta al colonialismo nei documenti citati è astratta e inefficace, perché di fatto estraendo i singoli lavoratori, individualmente, dai loro paesi e inserendoli in posizioni subordinata nei paesi imperialisti non si elevano questi, ma si potenzia la concorrenza tra i lavoratori, e si favorisce l’estensione dello sfruttamento. Come vedeva anche il primo Engels si abbassano anche i lavoratori autoctoni, costretti dalla durezza della concorrenza ad accettare “convenzioni” inferiori.
Ad una tesi simile, a leggere con completezza ed attenzione l’intera corrispondenza, era giunto lo stesso Marx, insieme ad Engels, nel 1870, quasi al punto culminante del poderoso sviluppo delle forze produttive tra il 1850 e 70 e prima della grande crisi di fine secolo (dal 1876). Il 5 marzo Marx scrive a Laura e Paul Lafargue e poi il 9 aprile a Sigfried Meyer e August Vogt, l’anno prima aveva scritto a Ludwig Kungelmann. In queste lettere chiarisce che bisogna “fare causa comune con gli Irlandesi” e ne va della possibilità stessa del proletariato inglese di emanciparsi dalle strategie di divisione e sfruttamento del capitale. Ma questa “causa comune” è proiettata sul piano internazionale, si tratta in effetti di sciogliere l’Unione del 1801 e dare l’indipendenza all’Irlanda. E’ quindi una causa nazionalista.
Dopo una profonda riflessione, richiamata nelle lettere tra i due teorici, la conclusione cui giunge è che il modo in cui è legata la lotta di classe e la lotta antimperialista non è di favorire la strategia di libera circolazione accelerata e dipendente dalla congiuntura economica, ovvero rivolta ad aumentare il tasso di profitto e quindi lo sfruttamento, ma di rendere superfluo emigrare perché l’indipendenza crea ovunque, ed in Irlanda nella specie, le condizioni di adeguata vita in loco. Il suggerimento è di spostare la lotta, e la battaglia ideologica, sul piano antimperialista, chiarendo in che modo è lo sfruttamento da parte del capitale dei paesi più sviluppati che determina le condizioni che ci troviamo di fronte.
Tra i meccanismi da contrastare, nella lettera a Vogt, troviamo dunque l’estensione del modo di produzione intensivo e monoculturale, che espelle i lavoratori impegnati in attività di sussistenza precapitalistiche, messo in contatto con la vicina Inghilterra nella quale ormai pochi costituiscono la riserva agricola, e che serve a comprimere i salari, funge da rinforzo a quell’”esercito di riserva” costituito in primo luogo dai disoccupati e sottoccupati e poi dagli agricoltori:
“Ma la borghesia inglese ha interessi ancora più notevoli nell’attuale economia irlandese. Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto l’Irlanda fornisce il suo sovrappiú al mercato del lavoro inglese e in tal modo comprime i salari nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese”.
Ciò non impedisce a Marx di affermare contemporaneamente che questa competizione, che c’è e che ha appena descritto, viene funzionalizzata dal capitale due volte. Una volta per aumentare i profitti abbassando i salari rispetto alla produttività, una seconda disciplinando i lavoratori stessi e deviando la loro giusta rabbia.
“E ora la cosa piú importante! In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda”.
Uno scontro che non è infondato rispetto alle circostanze di fatto (le ha appena ricordate sopra), ma che è sfruttato dall’esterno.
“Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo”.
Di qui torna su considerazioni geopolitiche connesse con la rivoluzione mondiale:
“Il malanno non finisce qui. Esso si riproduce al di là dell’oceano. L’antagonismo tra inglesi e irlandesi è il fondamento nascosto del conflitto tra Stati Uniti e Inghilterra. Esso rende impossibile ogni seria e sincera collaborazione tra le classi operaie dei due paesi. Esso permette ai governi dei due paesi, ogni volta che lo ritengano opportuno, di togliere mordente al conflitto sociale sia aizzandoli l’uno contro l’altro, sia, in caso di necessità, mediante la guerra tra i due paesi”.
E conclude.
“L’Inghilterra, in quanto metropoli del capitale, in quanto potenza fino ad oggi dominante il mercato mondiale, è per il momento il paese più importante per la rivoluzione operaia, oltre a ciò essa è l’unico paese, nel quale le condizioni materiali di tale rivoluzione si siano sviluppate fino ad un certo grado di maturità. Perciò l’obiettivo più importante dell’Internazionale è di accelerare la rivoluzione sociale in Inghilterra. L’unico mezzo per accelerarla è rendere indipendente l’Irlanda. Di qui ne deriva per l'”Internazionale” il compito di mettere sempre in primo piano il conflitto tra Inghilterra e Irlanda, di prendere sempre posizione aperta a favore dell’Irlanda. Il compito specifico del Consiglio centrale a Londra, è di risvegliare nella classe operaia inglese la consapevolezza che l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è per essa una questione di astratta giustizia o di sentimenti umanitari bensì la prima condizione per la loro stessa emancipazione sociale”.
Insomma, Marx individua un conflitto di fatto, un meccanismo di sfruttamento nella colonia che si rovescia in un meccanismo di contenimento dei salari e insieme in un meccanismo di deviazione della relativa rabbia nel centro imperiale. Li denuncia anche in relazione ai loro effetti sulla scala mondiale. Ma definisce come orizzonte strategico, dopo aver a lungo meditato, la lotta antimperialista per garantire l’autonomia e l’indipendenza effettiva alla colonia, in modo che non sia più spogliata ed utilizzata per la compressione e il disciplinamento della classe operaia inglese.
Una lezione di pensiero complesso, e contemporaneamente di pensiero materialista, non moralista[40].
Ma torniamo a Lenin, perché invece questi assume una posizione così diversa e così astratta?
Per interpretarne il senso, ed in un certo senso la giustezza locale, bisogna considerare la profonda immersione, in particolare negli scritti del periodo in esame, dell’autore nella lotta ideologica e tra le diverse correnti del socialismo di inizio secolo. Lenin è uno scrittore politico, e le sue posizioni sono sempre determinate dalla lotta.
La sua è sempre un’analisi concreta della situazione concreta, ma per “concreta” bisogna considerare anche quella particolare dimensione della realtà che è la dinamica della lotta egemonica tra i gruppi e gli autori eminenti. Del resto se si legge con attenzione questi sono sempre nominati: sono “i sindacati” (non rivoluzionari, ma riformisti), gli “opportunisti”, “i nazionalisti” (come Gompers), la “aristocrazia della classe lavoratrice”, i “social-jingo”. La questione in campo, quella vera, è di unificare l’intero movimento operaio, andando nella stessa direzione essenziale della tecnica e della pratica capitalista del suo tempo, la crescita di grandi agglomerati industriali e di monopoli sempre più potenti[41], e farlo senza cedere alla tendenza all’imborghesimento della classe lavoratrice (ovvero a quella aristocrazia operaia alla quale l’ultimo Engels attribuiva il fallimento delle speranze rivoluzionarie in Inghilterra). Dal punto di vista di Lenin si colgono, per così dire, due frutti lungo questo sentiero: i sindacati si impegnano a socializzare alla rivoluzione sempre più lavoratori, anziché a coltivare gli incrementi salariali di pochi e protetti ‘clienti’; lo sfruttamento non diminuisce ma aumenta la massa disposta a lottare.
Questo è il senso nel quale viene posta l’alternativa tra “opportunisti e rivoluzionari”.
Ed è questo il senso nel quale i primi hanno lo spirito di “stretto isolamento artigianale e di esclusività sindacale” (contro un sindacato unitario e rivoluzionario, come scrive nell’ultima lettera).
La base di realtà di questa concezione è che all’inizio del secolo scorso il lavoro per il quale queste masse erano attratte si svolgeva in sempre più grandi opifici, dove i lavoratori entravano in contatto in masse crescenti e queste potevano essere educate alla lotta di classe, riconoscendo la loro comune condizione ed interesse.
Ovviamente questa condizione, nell’epoca della quarta rivoluzione industriale, non è assolutamente più presente. Oggi i lavoratori sono soli davanti al potere anonimo ed astratto del comando capitalista, e molto difficilmente possono acquisire coscienza sul luogo di lavoro, così come non sono più presenti i sindacati rivoluzionari e i partiti rivoluzionari ai quali Lenin pensava come levatori.
La stessa analisi concreta della situazione concreta, sulla base dell’identica valutazione di meccanismo, porterebbe oggi quindi a conclusioni diverse. Dato che i lavoratori immigrati, tecnicamente “crumiri” (come erano anche all’epoca) non sono più “messi faccia a faccia con la potente, unita, classe internazionale di proprietari di fabbriche”, ma casomai con l’infinita varietà di microaziende industriali e semi-artigianali, famiglie borghesi, aziende di servizio a basso livello tecnologico, agricoltori senza scrupoli, nelle quali per la gran parte sono impiegati in sostituzione della parte meno organizzata e più debole del proletariato autoctono, quelle condizioni non ci sono più (se mai ci sono state). Resta solo ancora vero che “i capitalisti sfruttano i lavoratori immigrati nel modo più spudorato”.
E’ questo, e non altro, il senso specifico in cui Lenin scriveva, nel 1913 che la migrazione tra nazioni aveva un significato progressivo. È progressivo perché nelle condizioni concrete nelle quali si svolge il lavoro, entro la piattaforma tecnologica della seconda rivoluzione industriale, si crea insieme il massimo e più selvaggio sfruttamento e le masse che possono esercitare il contropotere che lo rivoluzionerà. Che lo rivoluzioneranno proprio perché sono selvaggiamente sfruttate e perché sono insieme e si possono reciprocamente riconoscere come eguali.
Oggi la prima parte resta, la seconda no. Oggi i lavoratori non sono “uniti in enormi fabbriche e miniere in America, Germania e così via”. Sono divisi e sparpagliati, in segmenti diversi ed incomunicanti, reciprocamente incomprensibili. Inoltre, come ricordano opportunamente Barba e Pivetti, ora non sono lavoratori audaci ed aggressivi, sindacalizzati e politicizzati, quindi “più avanzati”, che si muovono e immigrano in paesi come gli Stati Uniti per contagiarli con lo spirito rivoluzionario. Oggi accade l’esatto contrario.
Dunque tutti i giudizi posti, in quanto appropriati ad un’ipotesi (peraltro rivelatasi infondata) situata e concreta, vadano oggi rivisti alla luce della teoria e della meccanica di funzionamento e non quella a partire da questi. Ancora con una ipotesi situata e concreta.
Il potenziamento delle condizioni di lotta dei lavoratori, anche e soprattutto in relazione alle concrete possibilità, non visibili all’epoca, di miglioramento democratico e di emancipazione passano oggi per una coesione possibile solo se la costante rottura e competizione posta dai lavoratori fatti immigrare dal capitalismo per i suoi esclusivi scopi è frenata. Ovvero se la collettività riprende nelle sue mani la possibilità di determinare il proprio destino.
La vera questione, quella più radicale, non è l’immigrazione ed i suoi effetti diretti, ma l’emancipazione della classe produttiva tutta e la riduzione dell’inclusione sociale ad inclusione affidata al mercato. Solo riprendere sotto la responsabilità collettiva e pubblica il fondamentale risultato dell’inclusione sociale degli individui per via di corretta socializzazione e adeguata capacitazione si può ottenere una società ben ordinata nella quale è possibile una vita buona e perciò giusta. Ma questo significa che non si può affidare ai meccanismi del mercato ed alla concorrenza senza freni il compito di sedurre, sradicare ed importare, come fossero merci, persone da tutto il mondo e socializzarle solo e nella misura in cui servono allo scopo di farne utensili in macchine produttive, respingendo il resto dell’umano che portano come scarto.
Le soluzioni proposte
Sulla base di questa impostazione gli autori propongono un pacchetto organico di politiche di contrasto, che si articolano su una dimensione internazionale (un serio piano Marshall, la modifica della normativa dei “lavoratori distaccati” in Europa, la rottura del progetto europeo come oggi è), ed una dimensione nazionale.
Concentriamoci su quest’ultima, si tratta di quattro linee di azione:
1- Regolamentare i nuovi ingressi,
2- Eliminare l’immigrazione irregolare già presente,
3- Contrastare i nuovi ingressi illegali,
4- Sviluppare una coerente politica estera.
In primo luogo bisogna tornare ad un assetto pre-allargamento, regolamentando i visti per lavoro anche entro la Ue e limitando molto la pratica dei contratti brevi. Subordinare in particolare la concessione del visto a soglie in relazione al rapporto con la popolazione a base regionale. Anche se può sembrare duro, bisogna anche limitare i ricongiungimenti, perché, come mostra bene il libro di Collier, questi favoriscono le diaspore, e queste sono il principale meccanismo che attrae nuova immigrazione e ne impedisce l’integrazione.
Resta il problema di quelli che ci sono e sono irregolari (in Italia tra cinquecentomila e un milione), per loro bisogna scegliere tra regolarizzazione ed espulsione. La prima avrebbe il vantaggio di renderli meno ricattabili e fiscalmente attivi. Lo svantaggio è, però, che ciò incentiverebbe l’entrata di ulteriori irregolari, come peraltro è sempre accaduto. Le regolarizzazioni creano aspettative di ulteriori regolarizzazioni.
Analizzando i diversi meccanismi disponibili (‘respingimento’, ‘respingimento differito’, ‘espulsione’) ed il livello di inottemperanza molto elevato anche per la difficoltà di accertare l’identità e di assicurarsi della accettazione presso paesi terzi, viene suggerito da Barba e Pivetti di imitare il meccanismo in essere in Gran Bretagna (prima espulsione, poi appello[42]) e di sopportare il maggiore costo delle espulsioni sistematiche di tutti i clandestini per qualche anno, con la certezza che questa politica disincentiverà efficacemente le partenze. Un potente effetto di dissuasione (p. 156).
Per contrastare l’ingresso, infine, ci sarebbero tre linee di intervento:
1- Una serrata controinformazione capillare sui rischi del viaggio,
2- Un aumento del costo e della difficoltà dello stesso,
3- Un aumento del rischio che alla fine si riveli inutile (in quanto si viene espulsi),
La facilità è, infatti, un fattore potente di spinta. Bisogna impedirla con una lotta senza quartiere e coordinata ai trafficanti, aumentando il potere di interdizione navale, e comunque operando nei porti il controllo e le azioni conseguenti su coloro che arrivano (in completa e totale sicurezza).
Conclusione.
Insomma, per Barba e Pivetti “la libertà di movimento dei capitali, delle merci e delle persone, ovvero i tre aspetti principali della mondializzazione, costituiscono anche i tre maggiori ostacoli che si frappongono a ogni miglioramento duraturo delle condizioni di vita dei ceti popolari di qualsiasi nazione”.
Questa frase, che racchiude il programma della trilogia, e per ora di questo primo libro, definisce l’orizzonte “riformista” dello stesso. Non si tratta di definire la migliore via per la rivoluzione mondiale (che potrebbe ben essere la generale disperazione e la guerra che ne conseguirebbe), ma il miglioramento strutturale, ovvero permanente, delle condizioni concrete della vita dei lavoratori concreti. Un’analisi concreta della situazione concreta[43], l’esatto opposto del generico umanesimo della sinistra francese nel suo “Manifesto per l’accoglienza degli immigrati”[44].
Nel 1918 Lenin, combattendo le posizioni massimaliste che emergevano nella confusa fase di avvio della rivoluzione, ebbe a scrivere che “la frase rivoluzionaria sulla guerra rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione”[45]. La “frase rivoluzionaria” è “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente di altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’, continuo a leggere, “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva”. E, ancora, poco dopo, “se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”, ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via”[46] che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”[47]; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”.
Le difficoltà che la storia ha fatto sorgere si superano solo quando si pone alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva”[48].
Quel che gli autori tentano è una cosa del genere, analisi precisa di una situazione obiettiva. Ricerca di soluzioni pratiche, che non prevedano, per arrivare ad una condizione di maggiore mobilitazione e potere popolare, disinnescando la meccanica dell’incapsulamento delle energie del lavoro attuata a partire dalla crisi degli anni ottanta dal capitalismo internazionale (e dall’imperialismo americano). E di arrivarvi senza ridurre alla disperazione e alla pazza strage interna il popolo (Gramsci, 1919).
La questione posta al centro, il vero e proprio snodo ineludibile, senza il quale si spendono solo “parole inebrianti”, restando entro il perimetro, anche se inconsapevole, del pensiero liberale (o di quella sublimazione che è l’anarchismo), è che “ciascuna di queste tre libertà [di movimento di merci, persone e capitali] ostacola il perseguimento di politiche di pieno impiego e redistributive” (p.173). E lo fa “in quanto genera concorrenza tra lavoratori di paesi diversi caratterizzati al loro interno da differenti rapporti di forza tra capitale e lavoro e da una diversa coscienza di classe”. Secondo il vecchio modellino di Engels, ma non sostanzialmente contraddetto neppure da Marx nella sua opera maggiore, aumentano la concorrenza tra lavoratori per evitare che la sua riduzione induca alla concorrenza tra le imprese per accaparrarseli.
Partire dal problema delle migrazioni ha in definitiva questo senso: che delle tre meccaniche chiave del neoliberismo che si è imposto in occidente, tramite la mondializzazione, i flussi migratori sono il canale più diretto. E sono quello percepito più chiaramente, fisicamente, dai ceti popolari.
La soluzione non può essere che il potenziamento, radicale e drastico, dell’offerta dei servizi sociali e del welfare. La vera soluzione è questa, non sono i muri, ma bisogna capirsi bene: nessuno può essere accolto se viene subito affidato alla socializzazione di mercato, perché questa scaricherà sempre su di noi tutto ciò che per esso non ha valore. Lo scaricherà nelle nostre periferie e nelle aree di abbandono. Il problema dell’immigrazione, è quindi, in realtà, il problema di una socializzazione distorta guidata dal mercato.
Porre la cosa in questi termini significa, per essere concreti, dover affrontare importanti conseguenze. Occorre recuperare la capacità della società, nella sua espressione politica, di riprendere in mano il suo destino. E bisogna farlo prima di accogliere e per poterlo fare integralmente. Dunque puntare ad una società inclusiva, che è quel che tutti vogliamo, autori inclusi, significa necessariamente ottenere la piena occupazione ed un società nella quale ognuno si sente protetto e riconosciuto per il contributo che può dare. Una società che, può essere generosa.
E’ necessario muoversi verso questo obiettivo con una chiara e consapevole strategia di transizione, che rimette il lavoro al suo posto come veicolo primario di socializzazione e che passa per un sistematico potenziamento delle capacità dei nostri territori di sostenere una vita dignitosa, della pubblica amministrazione di far fronte ai bisogni dei cittadini e del lavoro di non sottrarsi a chi lo desidera. Bisogna inserire questa strategia entro un ripensamento delle strutture più estrattive della mondializzazione, superando “free trade” e piena mobilità dei capitali e libertà di spostare gli investimenti, ma anche tagliare le lunghe catene del debito che intrappolano il mondo e costringono in posizione coloniale più di metà dello stesso.
Un grande programma necessario, per il quale questo libro è un utile tassello.
[1] – La sempiterna denuncia di “razzismo” a qualsiasi idea considerata deviante tradisce con la forza di un riconoscimento fisiognomico la provenienza di classe dell’attuale sinistra, il suo essere ormai ridotta ai fortini delle zone “Ztl”.
[2] – Si tratta di una sorta di pensiero di gruppo, tanto più forte quanto più il gruppo si restringe e si sente assediato, una dinamica etologica anche naturale, e quindi può riguardare anche persone che individualmente avrebbero ragioni di sentire ben altra egemonia.
[3] – Si veda, “Il lavoro importato: brevi note ai commenti” su Sinistrainrete.
[4] – Viene raccontato un piccolo episodio, lo riporto: “Nel suo Ritorno a Reims, edito in Italia da Bompiani, il sociologo e filosofo francese Didier Eribon analizza il suo sconcerto di fronte all’ ‘irrigidimento razzista’ degli ambienti popolari di sinistra, sviluppatosi in Francia nel corso degli anni Settanta e Ottanta. I suoi genitori, egli racconta, entrambi operai comunisti, avevano ottenuto a metà degli anni Sessanta un appartamento in una cité di case popolari, di quelle situate ai confini delle città e fino ad allora abitate quasi esclusivamente da francesi o da immigrati provenienti da paesi europei:
‘Non sopportando più la nuova situazione nel quartiere, i miei genitori decisero di lasciare l’appartamento per fuggire da ciò che consideravano un’intrusione molto pericolosa, in un mondo che prima apparteneva a loro di cui si sentivano sempre più spodestati. Mia madre si lamentava soprattutto della ‘sfilza’ dei figli di questi ultimi arrivati, che urinavano e defecavano sulle scale e che, una volta adolescenti, fecero sprofondare il quartiere nel regno della microcriminalità, in un clima di paura e insicurezza. Era fuori di sé per il degrado del palazzo, evidente sui muri lungo le scale, sulle porte delle cantine individuali, nei sottoscale e sulle cassette delle lettere all’entrata – che non appena riparate venivano subito distrutte – da cui la posta e i giornali sparivano troppo spesso. Per non parlare dei danni alle macchine per strada: specchietti rotti, carrozzerie graffiate … Non sopportava più il rumore continuo e gli odori di una cucina diversa, né le urla del montone che, per la festa dell’ ‘id al-kabir, veniva sgozzato nel bagno dell’appartamento al piano di sopra. Le sue descrizioni provenivano dalla realtà o dalla fantasia? Senza dubbio da entrambe. Ma non sono la persona adatta per dirlo, visto che non abitavo più con loro e che non andavo mai a trovarli. Quando al telefono le dicevo – non riusciva a parlare d’altro – che esagerava, mi rispondeva: ‘Si vede che non è casa tua. Nei quartieri dove abiti tu, queste cose mica le vedi’. Che avrei potuto risponderle?’”.[5] – Si veda Robert M.Solow, “Lavoro e welfare”, 1998. L’argomento del premio nobel 1987, esponente tra i più importanti della “sintesi neoclassica”, e specialista della crescita, da cui il suo famosissimo modello, e della “teoria dei salari di efficienza”, è che le “politiche attive del lavoro”, promosse nel 1996 da Clinton e rapidissimamente imitate da tutta la sinistra mondiale, con i suoi “work requirement” e “time limits” (i sussidi sono subordinati alla disponibilità, dell’assistito, di accettare le offerte di lavoro alle condizioni offerte dal mercato –ad esempio un ingegnere che si vedesse offrire un posto da cameriere a basso salario dovrebbe accettare o perdere i sussidi- e alla condizione ulteriore che nella vita non se ne possono usufruire per più di cinque anni complessivi) sono altamente controproducenti. La cosa non può essere guardata solo dal lato dell’offerta, come se bastasse “che i cani randagi si comportino come cani da riporto perché la selvaggina cominci ad abbondare”. In verità la cosa è molto più complicata e intanto molti “cani” non hanno effettivamente le attitudini richieste per prendere la selvaggina, poi è questa ad essere il problema. Per assumere qualcuno ci vuole in sostanza la necessità, cioè la domanda.
Andiamo alla sostanza del suo argomento: l’immediato ingresso “forzoso” nel mondo del lavoro degli ex assistiti del welfare (provocato intenzionalmente dal modello di Clinton) provoca effetti a cascata. Infatti la posizione che qualifica “estrema”, secondo la quale il lavoro è infinitamente elastico e basta solo raggiungerlo per averlo (cioè quella che vede l’unico problema nelle pretese di remunerazione troppo alte dei “fannulloni”) non “descrive bene il nostro mondo”. D’altra parte il lavoro non è neppure totalmente rigido (e dipendente solo dalla domanda di servizi o di beni espressa dalla società), perché conserva una qualche “capacità di adattamento”. Ciò che succederebbe in un mondo realistico (che è in qualche punto in mezzo, più vicino al secondo modello) è che la forza lavoro dequalificata, costretta a mettersi in gioco a qualsiasi prezzo, spingerebbe verso il basso i salari dei lavoratori appena più qualificati. Un datore di lavoro potrebbe scegliere di sostituire due lavoratori attivi con tre lavoratori ex –welfare più economici (ma da formare). Ma questi due, ex lavoratori a questo punto si rimetterebbero in cerca di lavoro sospingendo giù i salari dei lavoratori “di secondo livello” (cioè ancora più qualificati di un piccolo gradino), e li sostituirebbero. Così via fino a qualche livello intermedio nel quale l’onda si smorzerebbe. Tutto questo “rimescolamento” avrebbe anche implicazioni macroeconomiche, agendo sulla domanda aggregata e sugli altri fattori strutturali dell’economia (inclusa la produttività e l’attitudine all’innovazione, entrambe danneggiate), ed avremmo alla fine “un’economia con un salario complessivamente più basso”. Cosa che è probabilmente lo scopo originario di alcuni nella manovra (sospetta Solow).Che fare? La ricetta dell’economista è semplice, “bisognerà deliberatamente creare un adeguato numero di posti di lavoro per gli ex assistiti, o attraverso una qualsiasi forma di impiego nel settore pubblico, o attraverso l’estensione di speciali e sostanziosi incentivi al settore privato (profit e no profit)” (p. 43). E farlo “in quantità, localizzazione e forma adatti alle persone che dovranno occuparli”. Sapendo che, nelle condizioni delle nostre società orientate ai servizi e fortemente trasformate dall’impatto delle tecnologie labor-saving bisognerà “nuotare contro corrente” (p. 44). Nessuno lo ha ascoltato, e la sinistra meno di tutti.[6] – Il che è vero, infatti gli autori hanno in programma di attaccare anche la libertà di scambio delle merci senza limiti e del capitale. Si veda, ad esempio, “E’ tempo di pensare in proprio al libero scambio”.
[7] – Si veda, Friedrich Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1844. Nel libro il giovane industriale si scaglia contro le “poor laws” del 1834 (antesignane, secondo la lettura di Robert Solow, della riforma clintoniana) inquadrando il meccanismo produttivo e la costruzione di spazio e tempo dominati dalla fredda logica della concorrenza. Quando scriverà la prefazione, pochi anni prima di morire, emergerà una tesi che ritorna costantemente, insieme ad una prospettiva del crollo inevitabile: le condizioni materiali creano il degrado, che rende inumano l’uomo, ma insieme esse generano la necessità soggettiva e collettiva del riscatto, che infallibilmente arriverà. Il dolore del mondo sarà riscattato, in questo mondo stesso, dalle stesse forze che esso ha messo in moto. Nel capitolo che tratta del meccanismo della concorrenza scrive: “questa concorrenza tra gli operai ha un solo limite; nessun operaio vorrà lavorare per meno di quello che è necessario per la sua esistenza; se proprio deve morire di fame, preferisce subire questa sorte rimanendo in ozio piuttosto che lavorando. Naturalmente, questo limite è relativo; c’è chi ha bisogni maggiori o è abituato a maggiori comodità di un altro; l’inglese, che conserva un certo grado di civiltà, ha maggiori esigenze dell’irlandese, che si veste di stracci, mangia patate e dorme in un porcile. Ma ciò non impedisce che l’irlandese faccia concorrenza all’inglese, abbassando gradatamente il salario, e con esso il grado di civiltà, dell’operaio inglese al proprio livello” (p.143). Ma la dinamica della concorrenza crea anche un ciclo che nel 1845 Engels descrive come fasi di boom seguite da crolli causate dalla intrinseca anarchia del capitalismo. La concorrenza tra operai determina una costante tendenza a generarsi di una “popolazione superflua”, quando è poca i salari salgono, quindi “gli operai stanno meglio, i matrimoni si moltiplicano, aumenta il numero delle nascite, crescono più bambini, finché si producono operai a sufficienza; se ce ne sono troppi, i prezzi cadono, subentrano la disoccupazione, la miseria, la fame e di conseguenza di ciò le epidemie, che falciano la ‘popolazione superflua’”. Qui si segue Smith e Malthus. Ma la concorrenza porta anche a migliorare sempre il rendimento del lavoro e quindi a generare costantemente disoccupati. Ma i “superflui” escono dal mercato, non possono più comprare nulla e cessa quindi la domanda delle merci che acquistavano. Cessando la domanda “non è più necessario fabbricarle” e quindi non servono altri operai. Il meccanismo si alimenta ed accelera. Ciò è causato alla fine dall’anarchia regnante in una produzione che “non è intrapresa per il soddisfacimento immediato dei bisogni, ma per il guadagno”, dove inoltre “tutto avviene al buio, in modo irrazionale, più o meno alla mercé del caso” (p.148). Di seguito Engels descrive un meccanismo irrazionale di boom seguito da un crollo, gli spiriti animali che si lanciano, ognuno per suo conto, a seguire ogni ipotesi di arricchimento e che si influenzano a vicenda. E, in genere ogni cinque anni, determinano improvvise crisi di fiducia. La soluzione è di associarsi e lottare per far cessare la competizione tra gli operai in modo che siano, al contrario, i datori di lavoro ad entrare in concorrenza tra di loro per doversi assumere. Dato che la borghesia può restare tale solo accrescendo la propria ricchezza e questa attraverso il lavoro degli “operai”, nel modello a due attori di Engels se questi sono tutti occupati “la concorrenza tra gli operai cade e ha inizio la concorrenza reciproca tra i borghesi. Il capitalista in cerca di operai sa bene che, con i prezzi che salgono in conseguenza dell’aumento della domanda [perché si è in condizioni di piena occupazione], egli otterrà un guadagno maggiore, e quindi preferirà pagare un salario un po’ superiore anziché lasciarsi sfuggire tutto il guadagno” (p.144).[8] – Michele Castaldo è una mia vecchia conoscenza, anche se credo non sia reciproco il ricordo: parecchi anni fa a Napoli, in via San Biagio dei Librai, a Palazzo Marigliano, era attivo un baretto e centro di controinformazione gestito da un gruppo di compagni di area autonomia operaia (almeno io così ricordo) e Michele ne era il leader. Si tratta quindi di una figura storica della sinistra radicale napoletana, anche se ora mi pare sia a Roma, e ne esprime bene le posizioni prevalenti.
[9] – In realtà l’Italia è un paese semi-imperiale, o semi-centrale, lo si nota facilmente anche osservando i flussi migratori. Siamo lo snodo, infatti, di un “crocevia migratorio”, con importanti flussi di lavoratori deboli che entrano, collocandosi in posizione che Ricolfi identifica bruscamente come “servile” (cfr. Luca Ricolfi, “La società signorile di massa”, 2019) sia l’esportazione di lavoratori semi-forti verso paesi collocati in posizione più alta nella catena del valore e per questo in grado di attrarli. E’ necessario allora individuare i fenomeni che si verificano nelle aree di diradamento, in quelle di densificazione e in quelle di sostituzione, sia il sottostante meccanismo economico-sociale. La divisione internazionale del lavoro, determina un fenomeno di “causazione circolare cumulativa”, per il quale, come si trovò a dire Kaldor già nel 1971, “la dispersione dei tassi di aumento dei salari tra le diverse aree tende sempre ad essere considerevolmente più piccola di quella relativa alle variazioni della produttività”, o ancora, “le aree che crescono di più tendono ad acquisite un vantaggio competitivo cumulativo rispetto a quelle che crescono a tassi inferiori”. Si può dire in altre parole che i tassi di aumento dei salari si distribuiscono secondo una dispersione molto meno forte di quella della produttività. Quindi che in conseguenza la variazione dei salari monetari non riesce a compensare automaticamente la differenza che si crea nei tassi di incremento della produttività. Per questo motivo “il tasso di sviluppo economico delle diverse aree del mondo non tende ad uno stato di equilibrio uniforme ma, al contrario, tende a cristallizzarsi in un numero limitato di aree ad elevata crescita il cui successo ha l’effetto di inibire lo sviluppo di altre aree”. Sul piano tecnico i “salari efficienti” (ovvero il rapporto tra i salari e la produttività) resteranno allora sempre indietro nelle aree meno dense, e progressivamente. Con ciò aumenta il vantaggio competitivo delle aree forti, con buona pace per ogni teoria dell’equilibrio generale. Non stupisce, in queste condizioni, che l’atteso incremento di produttività individuale, che in grande misura dipende dall’ambiente di inserimento, e il relativo aumento delle opportunità salariali spingano individualmente, in assenza di forze intenzionalmente controdirette, le risorse umane che si considerano eccedenti nei paesi deboli a trasferirsi in quelli forti.
Questa dinamica, però, va nella stessa identica direzione del rafforzamento progressivo delle aree ‘centrali’ a danno di quelle immediatamente più periferiche in una sorta di ‘scala della dipendenza’. La concentrazione dei capitali, in cerca di remunerazioni più elevate ed efficienti, si traduce in tassi più favorevoli e migliore facilità agli investimenti, ‘effetti rete’, e processi di ‘causazione circolare cumulativa’; quindi si rende necessaria e si genera un’attrazione crescente della forza-lavoro mediamente più qualificata delle aree ‘semi-periferiche’ per raffreddare la tendenza dei salari a seguire l’aumento della produttività lasciando costante, se non declinante, il tasso di sfruttamento. Con un tasso di sfruttamento costante, in presenza di una tendenziale crescita della composizione organica del capitale , si ha infine, e necessariamente, un calo del saggio di profitto, che, se prolungato può mettere a rischio la riproduzione del sistema, inducendo ad un arresto degli investimenti. E’ per questo che l’attrazione della forza lavoro da inserire al livello più basso della scala del valore, spingendo fuori o disciplinando quelli che vi erano in precedenza (una parte verso l’alto, una parte verso l’emigrazione a loro volta), determina la conservazione della condizione dell’accumulazione.Nel contesto di politiche mercantiliste, “impoverisci il vicino”, che sono tipiche di questa fase ad egemonia nordica in Europa, questo processo tende a scalare con andamento dal “centro” alle “periferie”, progressivamente specializzandosi in senso inverso. In altre parole, man mano che ci si allontana dal centro ad alta capitalizzazione, interconnessione e specializzazione funzionale (nel contesto di una divisione del lavoro internazionale), sono attratte risorse umane meno specializzate ed espulse quelle via via più specializzate. Si veda “Appunti sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semicentrali”. [10] – Lo abbiamo già visto, Engels “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1844.
[11] – Si può trovare il suo curriculum qui.
[12] – E’ l’autore di uno dei saggi più rilevanti di “Dinamiche della crisi mondiale”, Editori Riuniti, 1988, insieme ad Arrighi, Hosbawm, Lipietz, Mandel, Wallerstein. Riccardo Parboni muore prematuramente a soli 43 anni, poco dopo la pubblicazione del saggio. In suo nome viene pubblicato il numero 55 di “Studi e Ricerche”, dell’Università di Modena con interventi di Biasco, Graziani, Gunder Frank e Wallerstein.
[13] – Di cui abbiamo letto il famoso libro, con Massimo d’Angelillo, “I comunisti italiani e il riformismo”, 1986, ma anche il più recente contributo in “Rottamare Maastricht”, e il suo intervento alla commemorazione di Ingrao.
[14] – Scrive, “è che in Italia oggi l’area delle rendite improduttive, parassitarie, si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa le spese è il profitto d’impresa… le rendite prelevate da un sistema distributivo arcaico e precapitalistico hanno decurtato il salario reale e hanno costretto i sindacati a scaricare sulle imprese le loro necessità. La stessa osservazione potrei ripetere per la rendita edilizia: l’alto costo delle case e degli affitti remunera la speculazione edilizia: i suoi effetti si scaricano sulle imprese attraverso le richieste dei sindacati [Scalfari 1972].”
[15] – Si veda: “24 gennaio 1978, intervista di Eugenio Scalfari a Luciano lama: la politica dei sacrifici”.
[16] – Per una retrospettiva si veda Fernando Vianello, “La facoltà di Economia e Commercio di Modena nella prima fase della sua vita”, 2003.
[17] – Alcuni interventi di quegli anni, che, come si vede, sono attinenti all’oggetto di questo saggio:
1971 Le esportazioni di capitali e l’efficacia delle misure coercitive, Università degli Studi di Modena, Studi e ricerche del Dipartimento di Economia politica, n. 1, Modena; ripubblicato con il titolo Esportazioni di capitali, composizione della domanda e distribuzione del reddito in Pivetti [1979], pp. 12-34.1973 Esportazioni di capitali e salari reali, in Rinascita, n. 33, 24 agosto; ripubblicato in AA. VV. [1974a], pp. 27-35.1975a Disoccupazione e bassi salari, in Rinascita, n. 5, 31 gennaio.1975b Il problema del controllo dai prezzi ai capitali, in Rinascita, n. 6, 7 febbraio.1979 Bilancia dei pagamenti e occupazione in Italia, Torino, Rosenberg & Sellier[18] – Aldo Barba, Massimo Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”.
[19] – Per un coraggioso tentativo di riordino delle idee si veda Onofrio Romano, “La libertà verticale”, 2019, o Carlo Formenti, “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!”.[20] – Si veda “Romano Prodi, ‘interventi sull’euro e l’Europa’”
[21] – Per il concetto di “crocevia migratorio”, che dovrebbe essere applicato al caso si veda “Appunti sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-periferici”.
[22] – Si veda qui.
[23] – Si veda qui.
[24] – E’ ad esempio il punto centrale della “confutazione”, inconsapevolmente mainstream che il trotskista Mauro Vanetti, condendola con le rituali accuse di razzismo, compie nel suo “La sinistra di destra”, Alegre, 2019.
[25] – La questione è del tutto analoga all’effetto indotto dalle macchine. La “legge di Say” è ripresa da Adam Smith, ma contestata da Ricardo e trova sempre nuove forme. È chiaro, almeno dal famoso capitolo di Ricardo sulle “macchine” (in “Principi di economia politica e dell’imposta” del 1817), che il punto dirimente è la velocità con la quale il progresso introdotto dalle tecnologie si produce (o la velocità con la quale la forza lavoro viene sopravanzata e sostituita, rispetto all’assorbimento di questa). Se questo è “improvviso” le conseguenze per il mondo del lavoro possono essere molto forti. Lo stesso concetto si trova enunciato nel 1930, quando Keynes scrive “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, e poi negli anni sessanta, ad esempio proposto da Meade (“Efficiency, Equality and the Ownership of Property”, 1965) o da Minsky (“Combattere la povertà”). Oggi si ripresenta ancora quello che, appunto Meade, chiamava il dilemma distributivo causato dalla possibilità che dopo un certo punto i benefici della crescita vadano in modo squilibrato a vantaggio dei profitti, a causa della crescita dell’automazione rispetto al lavoro (o dell’immigrazione rispetto alla offerta di lavoro presente).
[26] – vedi nota 21.
[27] – E’ il fenomeno messo in evidenza, se pur letto in una chiave del tutto diversa, da Ricolfi, in “La società signorile di massa”, 2019.
[28] – Nel 2017 in una famosa audizione il Presidente pro tempore dell’Inps, Tito Boeri, alla Commissione Migranti della Camera dei Deputati, sostenne facendo uso di una linea argomentativa perfettamente neoclassica che i lavoratori immigrati non producono alcuno “spiazzamento”. Per la fallacia di tale argomentazione si veda, “Tito Boeri e l’immigrazione: l’assenza di spiazzamento”.
[29] – Si veda, ad esempio “Questioni urbane: la politica della casa”.
[30] – Paul Collier, “Exodus”. Nel testo di questi è evidenziato che i fenomeni più rilevanti sono quelli sociali, e non quelli economici, rilevanti soprattutto localmente. In ogni caso esistono, come nel caso del commercio internazionale, dei vincitori e dei vinti, i primi sono i datori di lavoro (che, attenzione, non sono solo gli industriali, ma anche i borghesi che utilizzano il lavoro delle colf o dei fac totum) e in qualche misura gli stessi immigrati (nella misura in cui la mera quantità di denaro sia un valore in sé) i secondi certamente i ceti deboli con i quali entrano in oggettiva competizione sia per i salari, sia per le case, sia per il welfare.Ma emigrare costa e richiede organizzazioni, sia durante il viaggio sia, e soprattutto, una volta giunti a destinazione. Rivestono quindi importanza cruciale e strategica le “diaspore”. In sostanza la presenza di una comunità locale strettamente coesa di concittadini, culturalmente compatibili, determina un enorme abbattimento dei costi di emigrazione sopportati, ma rischia anche di ostacolare l’integrazione. Le diaspore, quindi, sono decisive nel far accelerare il fenomeno e nell’allontanare il possibile punto di equilibrio e stabilizzazione. Con le parole di Collier: “il tasso migratorio è determinato dall’ampiezza del divario di reddito, dal livello di reddito nei paesi di origine e dalle dimensioni della diaspora” (p.32).Il flusso dell’immigrazione dipende dal divario di reddito e dallo stock di migranti precedente che non si è integrato. In particolare la dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’) dipende dalla trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi. Chiaramente il perimetro delle diaspore è fluido e continuamente attraversato da persone che arrivano e da persone che, integrandosi, ne escono.Ci sono tre semplici conclusioni:1- La migrazione dipende dalle dimensioni della diaspora (che, in sostanza, la attrae),2- La migrazione alimenta la diaspora, mentre l’integrazione la diminuisce,3- L’indice di integrazione (percentuale di chi esce dalla diaspora ogni anno) dipende dalla dimensione, quanto più grande è la diaspora quanto più piccolo è l’indice.Come sostiene anche Robert Putnam (che non è un autore conservatore), inoltre, l’immigrazione riduce il capitale sociale della popolazione autoctona, la mutua considerazione e la propensione a tenere conto dell’equità. Dunque in effetti, per una serie di ragioni tecniche e di psicologia sociale, più sale la diversità, più peggiora l’erogazione dei beni pubblici (tesi di fondo del famoso libro di Alesina e Glaeser, citato a pag. 79). E ciò tanto più quanto più è grande la distanza culturale.Contrariamente alla normale intuizione dunque: “dato un certo divario di reddito tra i paesi di origine e il paese ospitante, più il paese d’origine è culturalmente distante dal paese ospitante, più alto sarà il tasso migratorio nel tempo” (p.85), quindi anche più alti i costi sociali connessi alla perdita di fiducia.[31] – Utilizzato ampiamente anche da Branko Milanovic, nel suo “Ingiustizia globale”, del 2016. Un testo nel quale denuncia la stagnazione del ceto medio dei paesi ricchi, ma finisce per giudicarlo comunque effetto di un “sentiero di progresso”, in quanto figlio dell’apertura.
[32] – Nella versione di Milanovic, particolarmente interessante, riprendendo un autore centrale dell’insorgenza neoliberale come Pritchett, è espressamente posta in competizione l’alternativa tra l’aumento dei “salari degli individui in patria” con lo spostamento dei lavoratori esterni. La questione del conflitto distributivo tra le classi è quindi posta.[33] – Aldo Barba, Massimo Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”.
[34] – Si veda Riccardo Staglianò, “Lavoretti”, o “Platform capitalism”
[35] – In particolare nella Postfazione, Joseph Stiglitz, “L’Euro”, .
[36] – Le eccezioni sono quando un flusso di lavoratori molto qualificati induce, concentrandosi magari in qualche “hub dell’innovazione” un incremento della produttività e questa trascina verso l’alto i salari. potrebbe essere il caso di alcuni casi di studio molto famosi, come l’emigrazione da Cuba (paese ad altissima scolarizzazione) concentrata in un’area relativamente ristretta nella quale preesistevano reti di accoglienza e socializzazione potenti. Oppure un flusso di rifugiati ricchi, con i beni al seguito, che può indurre un incremento della domanda di beni, e quindi effetti a cascata sulla produzione ed i salari. Certo, in questo caso, potrebbero esseri pesanti effetti collaterali sul mercato immobiliare, e in generale sull’inflazione dei beni bersaglio della spesa, rendendoli inaccessibili ai lavoratori locali.[37] – Si veda “Il congresso socialista internazionale di Stoccarda”, 1908.
[38] – Si veda “La Pravda”, 22, 29 ottobre 1913, “Capitalismo e immigrazione dei lavoratori”.
[39] – Werner Sombart, “Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?”, 1906.
[40] – Si veda, “Frammenti, circa piccole polemiche sulle lettere di Marx (1870)”[41] – Si veda, “Vladimir Lenin, ‘L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, 1915
[42] – L’espulsione avviene comunque e l’appello contro questa può essere presentato solo presso l’ambasciata nel paese di destinazione.
[43] – Cioè l’esatto opposto della posizione che si basa “sulla mera fraselogia ampollosa, sulla frenesia operaia, sull’entusiasmo romantico [che] è solo un demagogo, non è un rivoluzionario”, come scrisse Gramsci nel giugno 1919 circa gli anarchici (si veda “Antonio Gramsci, ‘Lo stato e il socialismo’, 1919”), mentre, invece, “Sono necessari, per la rivoluzione, uomini dalla mente sobria, uomini che non facciano mancare il pane nelle panetterie, che facciano viaggiare i treni, che provvedano le officine di materie prime e trovino da scambiare i prodotti industriali coi prodotti agricoli, che assicurino l’integrità e la libertà personale dalle aggressioni dei malviventi, che facciano funzionare il complesso dei servizi sociali e non riducano alla disperazione e alla pazza strage interna il popolo. L’entusiasmo verbale e la sfrenatezza fraseologica fanno ridere (o piangere) quando uno solo di questi problemi deve essere risolto anche solo in un villaggio di cento abitanti”.
[44] – Si veda, “Il ‘Manifesto per l’accoglienza degli immigrati’ e la sinistra francese”.
[45] – Vladimir I. Lenin, “Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra”, ed. Riuniti, 1974, p.3. Il libretto è in realtà una raccolta di interventi diversi nell’aspro dibattito che nel 1918 si tenne sulla pace separata con la Germania (pace di Brest-Litovsk), che Lenin difende dalle critiche rivolte in nome della necessaria “guerra rivoluzionaria” e dell’imminente aiuto da parte del proletariato tedesco. Quando a gennaio 1918 la Germania avanza un ultimatum, chiedendo condizioni molto dure in termini di perdite territoriali e versamenti in natura, si apre un dibattito nel quale gli allora alleati dei bolscevichi, i ‘socialisti-rivoluzionari di sinistra’, propongono, insieme a Nikolai Bucharin, la prosecuzione della guerra. Contro tutte queste opposizioni Lenin scrive a febbraio l’articolo “Sulla frase rivoluzionaria”, mentre l’esercito di oltre sei milioni di uomini russo era stato smobilitato, per sostituirlo con un esercito volontario più efficace (la “Armata Rossa”), da Lev Trotsky e la Germania aveva ripreso l’avanzata. Il 3 marzo Lenin, che aveva proposto le sue dimissioni, impone la firma del Trattato, perdendo circa 56 milioni di abitanti, ovvero il 32% della popolazione, un terzo delle ferrovie, tre quarti dei minerari ferrosi e il 90% della produzione di carbone. Fortunatamente la successiva sconfitta della Germania, che aveva occupato i territori nominalmente indipendenti, porta al ritiro delle truppe e quindi alla loro contesa nella guerra civile russa che infurierà fino al 1923.[46] – In “Rapporto sulla guerra e la pace”, 7 marzo 1918, op. cit. p.69[47] – Continua: “comprendo benissimo che ai bambini piacciono le belle favole, ma mi domando: è dato ad un rivoluzionario serio credere alle favole?”[48] – In “Rapporto sulla ratifica del Trattato di pace”, 14 marzo 1918, op. cit., p.99.
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2019/12/aldo-barba-massimo-pivetti-il-lavoro.html
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