Coronavirus tra Usa e Cina, la Bomba di Macron: il mondo questa settimana
di Limes – Rivista Italiana di Geopolitica (federico Petroni)
Carta di Laura Canali.
CORONAVIRUS
Il nuovo coronavirus non ha (ancora) peggiorato lo stato di salute dei rapporti Usa-Cina. Washington ha scelto di non cavalcare direttamente l’epidemia per mettere in imbarazzo il rivale asiatico. Non ne aveva bisogno. La diffusione della malattia conferma gli americani nelle loro intime convinzioni sulla Repubblica Popolare. Li rassicura di avere il tempo dalla loro parte. Ne rafforza l’impressione di una Cina traballante sotto il peso delle proprie incongruenze, ancora immatura per sfidare il Numero Uno. Perché costretta a difendersi anzitutto da se stessa. A Hong Kong, in Xinjiang, lungo lo strategico Fiume Azzurro, focolaio del virus e tessuto connettivo dell’Impero del Centro.
Per questo gli Usa possono limitarsi ad assistere alla scena. Mentre il rallentamento delle produzione cinese fa calare la domanda di petrolio, in particolare di quello di uno dei loro principali avversari, l’Iran. A esporre le difficoltà di Pechino bastano la stampa anglofona e la stessa opinione pubblica cinese. La prima amplifica gli allarmismi, le falle nella gestione dell’emergenza, persino gli esecrabili episodi di razzismo nei confronti della diaspora. Mostrando quanto poco ancora i figli del Celeste Impero siano accettati nel globo. La seconda si è scagliata con inusitata rabbia contro le autorità dopo la morte di uno dei primi medici che aveva lanciato l’allarme ma era stato messo a tacere dalla polizia. Eretto a simbolo dell’oppressione della censura e della rivendicazione della libertà di espressione.
Così il presidente Donald Trump può permettersi il bel gesto di offrire una mano al proprio omologo Xi Jinping. Lodando addirittura la grande disciplina mostrata in questa occasione dalla Cina. La Repubblica Popolare della Sars a inizio millennio era certo più impreparata di quella odierna. Ma twittate in questo contesto, le parole dell’inquilino della Casa Bianca suonano vagamente beffarde.
STATO E 5G
Non è tutto rosa e fiori per gli americani nel braccio di ferro con la Cina. Un fronte sul quale Washington non sente il tempo dalla propria e si percepisce anzi indietro rispetto a Pechino è il 5G. Lo dimostrano alcune notizie emerse in settimana. Fra cui il fatto che la Casa Bianca che sta spingendo aziende come Microsoft, Dell e At&t a sviluppare una rete di quinta generazione interamente a stelle e strisce. Con cui fa il paio il ministro della Giustizia degli Usa William Barr, che suggerisce di entrare nella proprietà delle europee Eriksson e Nokia (le uniche vere alternative al 5G di Huawei, ma troppo care) tramite un consorzio di imprese americane o acquisendone il controllo diretto.
Fil rouge: la competizione fra grandi potenze in campo tecnologico ha assunto una tale urgenza da spingere anche una cultura statuale ritrosa all’interventismo come quella americana a impartire una direzione al mercato. Che, da solo, non remerebbe nella direzione dell’interesse strategico di negare alla Cina la diffusione, assieme alla tecnologia, pure della propria influenza. Washington non s’accontenta della decisione di Londra o della britannica Vodafone di escludere Huawei dalle componenti sensibili delle reti informatiche. Meglio una mossa come quella della francese Orange, che ha rinunciato completamente a Huawei per affidarsi proprio a Nokia ed Eriksson.
LA BOMBA DI MACRON
La Francia è pronta a mettere a disposizione il proprio arsenale nucleare per la difesa dell’Europa. Il presidente Emmanuel Macron, in un discorso all’École de guerre, ha elargito questa offerta a tutti i paesi del continente disposti ad associarsi alle esercitazioni della forza di dissuasione transalpina. Il vocabolario dell’inquilino dell’Eliseo non lascia spazio a dubbi: Parigi non intende cederne il controllo.
Si tratta comunque di uno sviluppo molto significativo, dal momento che finora l’arma atomica tricolore è stata esclusa dal meccanismo di deterrenza della Nato, al quale contribuivano le testate di Usa e Regno Unito. All’iniziativa probabilmente aderirà la Germania, interessata a sdoppiare l’ombrello protettivo americano. Non è l’inizio di una Bomba europea: semmai è la Francia che la usa per estendere la propria influenza sul Vecchio continente. Ma è un passo significativo, ancorché simbolico e preliminare. D’altronde lo stesso Macron ha chiarito che non intende sottrarre l’Europa alla sfera statunitense. Né dotarla di un esercito comune. Ma incoraggiarla a rioccuparsi della propria sicurezza. Nella doppia consapevolezza che è terminato il periodo (post)storico dei dividendi della pace in cui ci si poteva permettere di disinvestire dalla spesa per la difesa e che l’Esagono non può isolarsi da quanto accade nel continente. Impossibile pure per chi è sorretto da una mentalità universalista e si pensa dotato di irradiamento globale.
MADRID-BARCELLONA [di Steven Forti]
L’incontro tra il premier socialista spagnolo Pedro Sánchez e il presidente catalano Quim Torra, riunitisi giovedì nel Palau della Generalitat, può segnare l’inizio di una nuova tappa di dialogo costruttivo tra Madrid e Barcellona. Sánchez ha consegnato a Torra un documento di 44 punti – principalmente su temi come il finanziamento e le infrastrutture della Catalogna – in cui si difende un diverso approccio politico per la risoluzione del conflitto catalano. Il presidente della Generalitat ha richiesto unicamente la fine della “repressione” e il diritto all’autodeterminazione. La distanza è ancora enorme, ma almeno i due presidenti si sono riuniti dopo mesi senza alcun tipo di comunicazione.
L’unica vera e propria decisione è stata quella di continuare sulla via della distensione. Entro la fine di febbraio si terrà la prima riunione del tavolo di dialogo tra i due governi. Un punto chiave nell’accordo che ha permesso lo scorso 7 gennaio l’elezione di Sánchez a presidente del governo spagnolo con l’astensione del partito indipendentista Sinistra repubblicana (Erc, nell’acronimo in catalano).
Il dialogo può avvenire anche perché ciascun attore ha bisogno dell’altro. In primis, per poter approvare la manovra di bilancio a Madrid Sánchez ha bisogno dei voti di Erc, che pretende l’avvio del dialogo istituzionale sulla crisi catalana. In secondo luogo, la stessa Erc ha bisogno di includere nell’equazione Torra – esponente di Junts per Catalunya, il partito dell’ex presidente Carles Puigdemont, ancora rifugiato in Belgio – per evitare di rimanere isolata in Catalogna e bollata come “traditrice” della causa indipendentista. Infatti, la legislatura catalana è praticamente terminata: Torra è stato inabilitato dai tribunali spagnoli (manca solo la conferma della cassazione) e ha già annunciato elezioni anticipate nei prossimi mesi. La campagna elettorale segnerà una nuova battaglia tra le posizioni più intransigenti (Junts per Catalunya) e quelle più pragmatiche e favorevoli al dialogo (Erc). La speranza di Sinistra repubblicana e del governo di coalizione tra socialisti e Unidas Podemos è che la vittoria di Erc possa portare alla formazione di un governo di sinistra in Catalogna favorevole al dialogo con Madrid. Sarebbe la quadratura del cerchio un po’ per tutti.
IDLIB [di Daniele Santoro]
Il 2 febbraio 2020 è stato un giorno di svolta nella battaglia di Idlib tra la Turchia e la coalizione Russia-Iran, principali sponsor del regime siriano. Dopo aver conquistato Maarrat an-Numan, avamposto sull’autostrada M5 Damasco-Aleppo, Assad minacciava di avanzare verso il villaggio di Saraqib, snodo strategico alla giunzione tra l’M5 e l’asse viario che connette la costa al confine iracheno.
La convinzione generale era che Ankara si sarebbe arresa sull’onda della pressione nemica: un milione di profughi al confine, almeno quattro delle dodici basi stabilite a Idlib nel 2018 assediate dall’Esercito lealista, il potenziale collasso del meccanismo di cooperazione bilaterale con la Russia.
Inaspettatamente, la Turchia ha invece rilanciato. […] L’attacco di Assad contro i soldati turchi è una “pietra miliare” del conflitto: “Nulla sarà più come prima”, ha detto Recep Tayyip Erdoğan.
L’azzardo del presidente turco va letto alla luce della strategia espansionistica verso i confini del Patto Nazionale kemalista del 1920 – la linea Aleppo-Mosul – perseguita da Ankara a partire dal 2016
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