Contro la “misodemia” e la misantropia dilaganti
di GUIDO CARLOMAGNO (FSI Roma)
Gli invasati deliri che si stanno manifestando attorno alla questione dei corridori e dei passeggiatori solitari, assurti a nuovo nemico pubblico numero uno da orde di hater in piena psicosi, offrono l’occasione per tornare su un tema non molto dibattuto e proporre un’interpretazione integrativa e complementare all’“unica attuale dicotomia” enunciata in un ottimo articolo di Lorenzo D’Onofrio, pubblicato su “Appello al Popolo” qualche mese fa.
Il tiro al piccione verso l’uomo della strada, verso l’“italiano medio” inteso nell’accezione più nobile del termine, sta raggiungendo negli ultimi anni, almeno in questo Paese, livelli di guardia. Ogni occasione è buona per criminalizzare e colpevolizzare indiscriminatamente una serie di posture e comportamenti propri della soggettività popolare, per argomentare a favore della dimostrazione di una inadeguatezza diffusa e per interpretare qualsiasi fenomeno politico e sociale in chiave denigratoria e pedagogica nei confronti del popolo stesso. Di rado si incontrano orizzonti critici di maggior respiro, che rifuggano da spiegazioni banali e indirizzino lo sguardo verso chi avrebbe la responsabilità di guidare i popoli e di promuovere lo sviluppo di virtù e intelligenza critica al loro interno. È questo un refrain che da molto tempo contraddistingue la generazione di intellettuali più stupida (per dirla à la Costanzo Preve) della storia, e fin qui tutto normale. Ma il fatto che sempre più persone comuni stiano cadendo vittime di questo mistificante approccio, sotto i colpi di una capillare e martellante propagazione dello stesso, è un elemento di novità e al tempo stesso un segnale di grave disagio sociale.
Le manifestazioni patologiche di un simile approccio sono molteplici, con differenti tenori di severità e diffusione: dalla spregevole (e al contempo comica) crociata condotta da ristrette cerchie di squilibrati ‘social’ contro il suffragio universale fino alle innumerevoli sfumature di auto-razzismo declinate principalmente sulle supposte deficienze dell’homo italicus. Dalla caccia alle streghe condotta nei confronti di razzismo, intolleranza, disonestà, corruzione e quant’altro (stigmi fantasiosamente attribuiti a larghe fasce della pluralità popolare) al dibattito surreale molto in voga in alcuni ambienti snob sull’opportunità di operare precise distinzioni (fondate proprio sulle categorie fantasiosamente plasmate e allocate di cui sopra) all’interno del blocco popolare stesso e in base a quelle individuare la parte di popolo meritevole di tutela e rappresentanza.
Solo qualche mese fa (un episodio fra i mille che si potrebbero citare sul tema) in uno dei salotti televisivi preferiti dai suddetti ambienti snob, la conduttrice Lilli Gruber, a margine della presentazione di un servizio curato dal suo fido scudiero Paolo Pagliaro su nuovi dati relativi all’evasione fiscale in Italia diffusi dalla Guardia di Finanza, si pronunciava testualmente come segue: “Emerge una cosiddetta società civile italiana assai vergognosa”. La dose veniva rincarata dallo stesso Pagliaro che chiudeva così il servizio: “Se su dieci richieste di non pagare il ticket [sanitario], nove si fondano su una piccola o grande menzogna, forse abbiamo un problema. E ce l’ha anche chi si appella tutti i giorni al popolo e alle sue virtù” (qui, dal minuto 31:45).
Ora, senza voler entrare nel merito dei dati esposti nel servizio, che meriterebbero analisi meno semplicistiche e faziose di quella offerta da Pagliaro, è evidente come alberghi in questi soggetti una mal celata “misodemia”, un insopprimibile astio verso il popolo reale (non quello idealizzato). Un popolo sempre e comunque condannato sommariamente, senza la concessione della minima attenuante, quasi come se la spiegazione delle manifestazioni più deteriori ad esso correlate fosse una sorta di barbarie congenita ai popoli stessi. Da un lato, mai nessun accenno al pur lampante e conclamato portato di saggezza, virtù, operosità popolare, su cui la vita stessa delle democrazie si fonda; dall’altro, mai una riflessione sulle cause profonde di quelle manifestazioni deteriori (vere o presunte che siano) da loro così tanto aberrate: mai sfiorati dal dubbio che la condizione di intrinseco svantaggio e subalternità alla quale sono strutturalmente relegate ampie fasce di quel popolo che schifano possa incidere sulle dinamiche di superficie che loro registrano come patologiche; mai uno sforzo di contestualizzazione delle peculiari e complesse specificità dei singoli casi, che potrebbero magari suggerire una minore sommarietà nei giudizi.
Si badi bene, sottoporre a critica serrata la dilagante fobia anti-popolare non significa affatto assecondare e commendare le manifestazioni popolari filosoficamente più degradanti e indecorose solo in quanto popolari, strizzando così l’occhio al populismo nella sua accezione più scadente (ossia quella che non ha genuinamente cuore i destini del popolo ma lo utilizza ai soli fini elettorali, offrendogli in pasto interpretazioni e ricette triviali e non efficaci ma appagandone la brama di narrazioni comode). Significa piuttosto abbracciare pianamente la causa ed il soggetto popolare, senza scadere in biechi rigetti dei relativi difetti, lacune ed eccessi e attuando un approccio costruttivo e responsabile, che miri a uno sviluppo popolare unitario e sinergico.
Va detto che molti dei “misodemi” fin qui descritti si spingono addirittura oltre, ostentando una sempre trendy misantropia tout court (non limitata cioè al solo “popolino”) che presenta svariate degenerazioni, fra cui quella oggi maggiormente in voga è forse l’estremismo ambientalista che ha individuato nell’uomo l’agente patogeno per eccellenza di un pianeta Terra idealizzato e dipinto come un’entità assoluta ed astratta, meritevole di tutela in quanto tale e non come luogo ospitante la vita. Un’altra indicativa manifestazione di misantropia latente emerge chiaramente dai dibattiti su intelligenza artificiale e tecnicismo, a margine dei quali fioriscono istanze di superamento ad ogni livello dell’umano, indentificato più o meno esplicitamente come l’anello debole, marcio, vieppiù inadeguato, inibitore e non vettore di civiltà e progresso.
Ma cosa mai può ispirare slanci anti-umani così accentuati? Quale è il tarlo che corrode la mente di questi sociopatici che stanno diventando una cifra del nostro tempo? La risposta più plausibile è molto probabilmente la presenza di un complesso di superiorità che genera dipendenza esattamente come le droghe pesanti: la percezione di appartenere a una ristretta cerchia di illuminati, ai percentili più nobili della pluralità umana, è un qualcosa di enormemente appagante, specialmente per degli ‘ego’ insicuri e bisognosi di gratificazione.
Tale percezione auto-indotta va ovviamente corroborata da un’assunzione perentoria: la rettitudine, la virtù, il raziocinio sono connotati di una piccola minoranza di soggetti, che vivono come i combattenti di una resistenza (immaginaria), assediati all’interno del loro castello da masse barbariche di subumani che infestano il resto del creato. Loro non si sentono quindi affatto anti-umani, anzi si convincono di essere l’ultimo baluardo di umanità rimasto in un mondo allo sbando, coltivando una bontà di apparenza per legittimare la loro appartenenza alla ristretta cerchia illuminata di cui sopra: si commuovono a comando quando il Gramellini di turno gli narra in tono cantilenante ed edulcorato episodi di riscatto o moralità, peraltro opportunamente selezionati per veicolare determinati messaggi. Riconoscono virtù e sofferenze popolari solo in quelle rare occasioni in cui le incontrano per il tramite di format televisivi o social confezionati ad hoc.
Proprio come l’Ivan di dostoevskijana memoria, non sono tuttavia in grado di partecipare emotivamente a vicende riguardanti il proprio prossimo e l’unica empatia umana che riescono a provare riguarda persone, mondi, storie distanti. Al di fuori dell’ambientazione fiabesca e strappalacrime veicolata mediaticamente, non sono capaci di individuare le medesime virtù e le medesime sofferenze nel proprio prossimo: nel vicino di casa che incontrano in ascensore, quel bastardo che parcheggia sempre al posto loro riservato; o nel barista sotto casa, quel laido evasore fiscale che non fa mai lo scontrino; o nel collega di lavoro, quel viscido che ha ottenuto la promozione e l’aumento prima di loro; o, ultimissima moda, nel corridore solitario che vedono passare sotto casa, quell’infame untore.
Una testimonianza alquanto spassosa del cortocircuito intellettuale vissuto da certi soggetti è fornita da un articolo apparso sul ‘The Guardian’ nello scorso mese di luglio, all’interno del quale si commentano le risultanze di un interessante esperimento sociale compiuto in vari Paesi del mondo, che consisteva nel lasciare incustoditi portafogli contenenti somme di denaro di vario ammontare e registrare i differenti comportamenti messi in atto dagli ignari passanti che per primi li rinvenivano. Ebbene, il dato che spicca dall’indagine è che al crescere del valore delle somme di denaro contenute nei portafogli, cresceva anche la percentuale di restituzione ai legittimi proprietari degli stessi. Una rilevazione empirica molto sorprendente e controintuitiva per i poveri esegeti della storiella del popolo corrotto e contaminato eticamente, all’interno del quale oneste e brave persone sono una ristretta minoranza.
Eppure l’autore dell’articolo, dopo essersi simpaticamente autodefinito un burbero misantropo, spiazzato nelle sue più intime certezze dai risultati dell’esperimento, si affretta a citare una cervellotica interpretazione alternativa dell’esperimento stesso per cercare in ogni modo di attorcigliare la realtà attorno al proprio preconcetto: la gentilezza e l’altruismo, si ipotizza, non sarebbero le motivazioni principali che hanno spinto la larga maggioranza dei passanti a restituire il portafogli, ma la ragione principale di tale scelta sarebbe al contrario l’avversione a considerarsi ladri e il costo psicologico della modificazione della immagine che si ha di sé. In altre parole, restituire un portafogli trovato in strada sarebbe in ultima analisi un atto di egoismo: come arrivare al sommo livello dell’elucubrazione mentale pur di non ammettere che, tutto sommato, proprio così schifo questi esseri umani non fanno.
Ma è inutile divagare oltre.
Tornando all’oggetto inziale dell’articolo, ecco dunque individuata un’altra dicotomia particolarmente significativa che caratterizza lo scenario corrente: ormai ci sono quelli che hanno a cuore le sorti dei popoli senza anteporre bislacche e arbitrarie distinzioni all’interno dei popoli stessi, e quelli che no. Quelli che presentano un patetico complesso di superiorità nei confronti dei popoli, e quelli che no. Quelli che sono in grado di provare empatia verso il proprio prossimo, e quelli che no. Quelli che credono che l’uomo sia la soluzione e non il problema, e quelli che no.
È ora di tracciare una linea di demarcazione netta con tale gruppo di individui, qualunque sia la loro collocazione sociale, politica ed economica. Anche un ricco, inteso come non appartenente al popolo in termini di censo, che dimostri di essere “popolare”, può essere utile alla causa. Ma degli odiatori seriali dei propri vicini e dei propri simili (odiatori che quasi sempre coincidono con gli adoratori e i legittimatori degli oppressori di tutti) non si sa veramente cosa farsene. Non è dato conoscere la reale incidenza statistica di questa categoria di soggetti. Pochi o tanti che siano, vanno messi di fronte a questa dicotomia in un disperato tentativo di recuperare coloro che inconsapevolmente sono stati fuorviati da una retorica sempre più assillante e avvolgente. Ma poi, una volta identificati quelli manifestamente irrecuperabili, vanno abbandonati senza sensi di colpa al loro destino e vanno anzi trattati per quello che sono, ossia uno degli ostacoli principali (se non addirittura il principale) all’emancipazione collettiva.
È vero, la storia dimostra come le spinte all’attrito e alla divisione orizzontale fra gli uomini siano sempre esistite, sull’onda di una tendenza (quella sì, probabilmente insita nella natura umana) a scontrarsi piuttosto che a unirsi fra portatori di medesimi interessi. In un certo senso, quindi, non è un tratto caratteristico di questa singola epoca ma un elemento con cui si è sempre dovuto convivere. Tuttavia, ciò non deve impedire di notare come alcune dinamiche peculiari della società contemporanea, in primis l’affermazione del paradigma individualistico e ultra-competitivo e la disgregazione sociale che ne sta conseguendo, stiano offrendo le condizioni per una pericolosa accentuazione di simili rigurgiti sociologici.
Qualunque forza politica aspiri ad essere parte di un’avanguardia popolare nel panorama sfacciatamente antipopolare e antiumanistico contemporaneo è chiamata all’obbligo improcrastinabile di reinserire con virulenza nel dibattito questi concetti e combattere con durezza il dilagare di ogni forma di “misodemia” e misantropia.
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