I fuoriclasse
di SAVERIO SQUILLACI (FSI Reggio Calabria)
Chissà quanti stasera (26/04/2020) hanno per l’ennesima volta seppellito nel profondo della loro coscienza la rabbia e la paura, mantenendo un rigoroso riserbo affinché uno sguardo o un gesto inconsueto non rivelassero alle persone care o perfino a sé stessi, quel senso di impotenza, di fallimento e di disperazione. Specialmente coloro i quali hanno sempre cercato di lottare, annaspando per non annegare nell’abisso del sentirsi inutili e falliti.
Coloro che hanno cercato sempre di lavorare, studiare o creare senza svendersi, senza offrire in cambio la loro dignità ma che per questo non valgono nulla né tantomeno possono trovare sostegno nei loro simili. E di certo non perché siano rari o non li si conosca ma per la banale mancanza di un nome che li definisca e li determini. Sono figli di un sistema che li ha istruiti ed emancipati, che li ha fatti nascere in un ospedale anziché in casa e che spesso li ha resi più colti e preparati dei genitori ma anche più poveri e non solo economicamente.
Tanti, troppi, sono andati via e anche dopo molti anni continuano a chiedersi il perché, rispondendosi che non vi erano altre soluzioni. Altri non sanno più se definirsi disoccupati, precari, lavoratori in nero o partite IVA: hanno fatto decine di lavori, spesso senza versare un soldo di contributi o comunque non a sufficienza. Non potendosi collocare in nessun luogo sociale o economico, non hanno neanche la possibilità di ritrovarsi in una causa comune. Non li si può chiamare proletari né tantomeno borghesi, eppure sono entrambe le cose: possiedono l’intraprendenza e la cultura della ormai morente classe media e al contempo l’indigenza e la rabbia delle vecchie classi operaie. Si vergognano di pensarsi miserabili e questo gli impedisce di mostrarsi per quello che sono e riconoscersi come una parte della società. Sì, perché questa classe nuova, fluida e sfuggente è il frutto della disintegrazione sociale, delle comunità frammentate in individui che abbassano gli sguardi per non correre il rischio di intuire in quello degli altri la loro condizione di disperati e di diseredati.
Persone confuse che continuano a far finta che il loro disagio sia solo temporaneo e che presto arriverà il treno giusto! Persone che aspettano, superano i trenta, poi i quaranta. A cinquanta sono ancora adolescenti e continuano a ripetersi di avere ancora tutta la vita davanti mentre invece la vita è passata ed il treno non è arrivato. Rimangono in stazione senza potersi guardare indietro per non annegare nel rimpianto né guardare avanti per non scivolare anzitempo nel baratro. Noi non lo abbiamo capito ma forse possiamo impararlo e provare a spiegarlo a chi quel treno ha iniziato ad attenderlo poco tempo fa. Il nostro valore si può misurare soltanto nel rapporto con gli altri.
Senza una società, un patto, una direzione comune, non esiste neanche il percorso individuale, né esiste tantomeno la possibilità di trasgredire la norma o la consuetudine. Il mondo senza regole e senza etica è il mondo in cui la libertà o la disobbedienza non possono essere esercitate. Il mondo senza confini è il mondo in cui non possono più esistere né il viaggio né la fuga. Stiamo vivendo come se la storia fosse finita ma ammettiamo al contempo l’idea che il progresso sia infinito. Ci siamo ammalati e ci siamo persi. Dobbiamo ritrovarci nelle madri, nei fratelli, nei padri, nei vicini di casa, nei colleghi e nei concittadini. Il senso delle nostre vite si costruisce insieme a loro, il successo è più dolce se condiviso con gli altri. Nella solitudine è mero narcisismo che ci lascia sempre più vuoti e tristi.
Purtroppo 40 anni di televisione commerciale e di propaganda liberista hanno cancellato dalla testa delle persone qualsiasi orizzonte collettivo e ci hanno trasformato in una società di zombie individualisti. Nei colloqui telefonici con conoscenti, infatti, non riesco mai a sfondare il muro di gomma della quotidianità individuale e ad affrontare argomenti che vadano oltre la polemica sui congiunti o sulle limitazioni della cosidetta fase 2. C’è quello arrabbiato perchè non può andare sulla ciclabile, quello preoccupato perchè non può giocare a tennis e quello triste perchè non può andare al pub a tracannare birre. Nessuno di loro sembra avere capito cosa ci sta per accadere (a tutti quanti) o cosa stiamo rischiando (tutti quanti). Sono in attesa del vaccino salvatore (che non ci salverà) convinti che tutto riprenderà come prima. Pendono dalle labbra dei virologi/epidemiologi che dilagano a reti unificate 24 ore su 24 e che ormai sono elevati al ruolo di moderni aruspici. Da parecchie settimane ho cominciato a temere più le persone del virus.
Distinti saluti e grazie per il post.