Dal monito di Carli al caso Guidi: una rivoluzione fra gossip e scroscianti applausi
di Lorenzo D’Onofrio (ARS Pescara)
Caso Guidi: la storia si ripete. Grazie ad una “banalissima” intercettazione telefonica milioni di italiani scoprono improvvisamente che nell’epoca del “trionfo” delle libertà individuali e della sovranità del consumatore, le decisioni che contano vengono prese al di fuori del contesto democratico parlamentare e sono “sollecitate” da personaggi espressione del grande potere economico privato: la lotta di classe diventata gossip!
Eppure la rivoluzione subita dal nostro Paese, cominciata a cavallo fra gli anni ’70 ed ’80 e che oggi sta conducendo all’annientamento della classe media, del nostro tessuto produttivo, ed all’inarrestabile livellamento verso il basso delle condizioni di vita del Popolo italiano, è ampiamente documentata, così come gli interessi perseguiti dai suoi artefici, quelli che Tommaso Padoa Schioppa definiva candidamente come rivoluzionari, avendo cura di specificare che non si trattava di “cospiratori pallidi e magri, ma impiegati, funzionari, banchieri e professori”.
Ed è incredibile come le parole con cui, nel corso degli anni, sono state giustificate e celebrate le scelte di politica economica e monetaria che stavano spingendo l’Italia a rinunciare al modello costituzionale per abbracciare il liberismo più sfacciato, nonostante i moniti rimasti inascoltati di un gigante come il Prof. Federico Caffè (“Abbiamo una lunga tradizione nel liberalizzare, smantellare, e oggi si vorrebbe, per forza imitativa deregolarizzare. Dobbiamo invece apprendere a organizzare e a coordinare con chiari e ben definiti obiettivi per il bene comune delle persone, delle famiglie e della società nel suo complesso. Questa è la programmazione di cui abbiamo bisogno, la programmazione per le persone comuni”; da “Lavoro dove trovarlo”, su Corriere della Sera, 5 dicembre 1983), risuonino oggi come la confessione o il resoconto di uno spietato tradimento degli interessi nazionali.
Tradimento per effetto del quale oggi assistiamo quotidianamente ad una violentissima dinamica di concentrazione del settore produttivo e commerciale, con i fondi di investimento stranieri che stanno comprando una ad una le attività considerate medio piccole (regionali o macro-regionali), mentre gli operatori tagliati fuori dalle acquisizioni sono destinati a chiudere nel breve-medio periodo sommersi da debiti verso istituti di credito ed erario.
Coloro che hanno distrutto il sistema di protezione produttivo e commerciale, introducendo privatizzazioni e liberalizzazioni al motto di “libertà & concorrenza”, in realtà ambivano alla instaurazione di monopoli privati: la legge del Mercato è questa!
Il tradimento, del resto, è testimoniato in maniera eclatante dalla parabola del sistema bancario italiano, che abbiamo ampiamente documentato in 3 precedenti articoli, sistema nato pubblico ed al servizio dell’economia nazionale, per essere poi progressivamente trasformato in strumento speculativo del grande capitale, il cui rapporto con l’interesse pubblico emerge perlopiù al momento di scaricare sulla collettività gli effetti nefasti della propria voracità.
Tale processo è stato supinamente accettato come un fenomeno modernizzatore, inevitabile e salutare, al punto da far apparire come conservatrici queste parole dell’ex Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli (nelle Considerazioni finali della Banca d’Italia del 1973, p. 563):
Ci siamo posti e ci poniamo l’interrogativo se la Banca d’Italia avrebbe potuto o potrebbe rifiutare il finanziamento del disavanzo del settore pubblico astenendosi dall’esercitare la facoltà attribuita dalla legge di acquistare titoli di Stato. Il rifiuto porrebbe lo Stato nella impossibilità di pagare stipendi ai pubblici dipendenti dell’ordine militare, dell’ordine giudiziario, dell’ordine civile e pensioni alla generalità dei cittadini. Avrebbe l’apparenza di un atto di politica monetaria; nella sostanza sarebbe un atto sedizioso, al quale seguirebbe la paralisi delle istituzioni. Occorre assicurare la continuità dello Stato, anche se l’economia debba cadere in ristagno; d’altronde le conseguenze del caos amministrativo sarebbero più gravi. Non possiamo impedire la caduta con i soli strumenti della politica monetaria; possiamo adoperarci affinché sia meno profonda.
Il fenomeno è mirabilmente descritto in un articolo del 1994 a firma di Carlo Clericetti, che dalle pagine di Repubblica scimmiottando le parole di Carli titolava: “QUEI TECNICI SEDIZIOSI DI VIA NAZIONALE”.
Eppure Guido Carli non aveva affermato nulla di eccezionale, limitandosi a descrivere il normale funzionamento di uno Stato che disponga della propria Sovranità e la eserciti nell’interesse dei propri cittadini, come Costituzione vuole.
Carli lanciava tuttavia un monito, paventando il pericolo, che allora si affacciava come una minaccia, di stravolgimento del sistema: la minaccia si concretizzò pochi anni dopo, ed effettivamente avvenne attraverso un atto sedizioso, che inaugurò il metodo Andreatta, oggi divenuto la regola, ovvero “l’arte di imprimere un nuovo corso alle cose senza ricorrere allo strumento legislativo”.
Così ci racconta Clericetti il processo “rivoluzionario” che ha portato lo Stato italiano a rinunciare alla leva monetaria e ad accogliere nell’ordinamento il folle, ma “moderno”, principio dell’indipendenza della Banca Centrale, descrivendo un percorso caratterizzato dalla tendenza a una sempre maggiore autonomia della politica monetaria da quella economica ed alla riduzione della discrezionalità politica nelle decisioni che possano influenzare la stabilità monetaria e creditizia (pilota automatico?):
Sicuramente in alcuni periodi la Banca [d’Italia; ndr] ha svolto un’opera di fiancheggiamento dei governi, comportandosi con una accondiscendenza che, se avesse seguito il solo criterio di attenersi ai suoi compiti istituzionali – primo fra tutti quello di assicurare la stabiltà della moneta – non avrebbe certo concesso.
Segue il riferimento alla politica monetaria di Guido Carli e la citazione della frase sopra riportata, per proseguire così:
Dai primi anni ’80, però, la Banca d’Italia comincia a diventare “sediziosa”. Negli anni precedenti una politica economica dissennata, non contrastata dalla severità monetaria, aveva posto le premesse per l’esplosione del debito pubblico, l’inflazione era a due cifre. L’abolizione della norma che imponeva alla banca centrale di sottoscrivere le emissioni di titoli del Tesoro non assorbiti dal mercato (il cosiddetto “divorzio”), voluta da Carlo Azeglio Ciampi e dall’allora ministro del Tesoro Nino Andreatta, non andava certo nella direzione di facilitare il compito dei governi. Lo scopo era di costringere l’esecutivo a un maggiore rigore economico, cioè a controllare il deficit di bilancio, il cui finanziamento, da allora in poi, avrebbe dovuto essere assicurato collocando interamente sul mercato i titoli di Stato. Farli assorbire avrebbe comportato un rialzo dei tassi – che infatti ci fu – e questo avrebbe ulteriormente aggravato il problema del debito, se la politica non fosse diventata più “virtuosa”.
In realtà è ampiamente documentato come il debito pubblico degli anni ’80, prima del famoso “divorzio” (giunto nel 1981, pochi anni dopo l’adesione dell’Italia allo SME), fosse addirittura ben sotto la fantomatica soglia (peraltro priva di fondamento scientifico ed inventata solo nel 1992 a Maastricht) del 60% del PIL, mentre la successiva e vorticosa crescita di tale rapporto (raddoppiato in soli 10 anni) fu determinata non da sprechi e clientelismi, bensì esclusivamente dall’aumento della spesa per interessi sui titoli di Stato.
Continua Clericetti, con la nota e stantia retorica che vuole la politica clientelare come causa della crisi del ’92 e l’Europa come panacea di tutti i mali, senza la quale avremmo fatto la fine di… (fate un po’ voi):
Si sa com’è andata in seguito, ma non per questo la banca ha fatto marcia indietro. Anzi, ha gestito l’adesione allo Sme, il Sistema monetario europeo, come elemento di ulteriore rigidità per le politiche interne. Tutto questo ha portato al crack finanziario del ’92 e all’attuale situazione di collasso dei conti pubblici. Colpa della Banca d’Italia che ha “remato contro”? Ovviamente no: colpa dei governi che hanno preferito la politica clientelare alla buona amministrazione, senza preoccuparsi del fatto che sarebbe arrivato il momento di pagare il conto. Ma se la la Banca d’Italia avesse “fiancheggiato” questa politica, ora non saremmo in serie B, ma ancora bene o male legati all’Europa: saremmo nel Terzo mondo.
Ancora una volta la realtà e i dati raccontano una storia molto differente.
Clericetti passa poi all’analisi del sistema creditizio, analisi che, alla luce degli ultimi avvenimenti, suona alquanto beffarda e rivelatrice, per cui non necessita di commenti:
Anche da un altro punto di vista, nel frattempo, il sistema del credito stava mutando la sua collocazione rispetto a quello politico. Concepito fino ad allora come “servizio pubblico”, come cinghia di trasmissione della politica economica in un sistema chiuso sia verso l’estero che alla concorrenza interna, veniva gradatamente guidato verso una logica di mercato, con l’abolizione dei vincoli amministrativi e territoriali e l’apertura – decisa peraltro in sede EUROPEA – alla concorrenza estera, ai movimenti di capitali, alle partecipazioni nelle imprese industriali. Questo processo (tuttora in corso), in larga parte obbligato dalla nostra partecipazione all’Europa e comunque necessario in un’economia moderna, espone naturalmente le banche a RISCHI MOLTO MAGGIORI CHE NEL PASSATO.
Il controllo sulla loro stabilità, divenuto più complesso sia perché è ora basato in buona parte su strumenti indiretti, sia per il più vasto spettro di attività degli istituti, assume dunque un’importanza ancora più cruciale. Il fallimento di una banca [privata; ndr] non provoca solo alti costi: se si tratta di un istituto importante il rischio è quello di compromettere la stabilità dell’intero sistema.
Non poteva mancare la chiosa esterofila:
D’altra parte, nel percorso tracciato verso l’Unione europea uno dei capisaldi è stato individuato nel raggiungimento della completa indipendenza delle banche centrali dai governi. Se questo orientamento ha finito con il prevalere – almeno come obbiettivo da raggiungere – praticamente in tutti i paesi economicamente avanzati, qualche ragione ci sarà pure. Fra le tante emergenze nazionali, davvero non si sente il bisogno di mettersi a ridiscutere poprio di questo.
Orbene, articoli come quello di Clericetti (spulciando in rete le testimonianze sono infinite, basta cercare), dimostrano chiaramente come la rivoluzione avvenuta in questo Paese fosse prevedibile, prevista ed in buona parte voluta.
Politici, economisti e giornalisti economici sapevano cosa stava accadendo, analizzavano, discutevano, si confrontavano, o dichiaratamente sottovalutando il tema, i problemi e i valori sottesi, magari prediligendo la difesa di interessi personali, o esprimendo cieca fede in una convenzione.
C’è da chiedersi dove fosse il Popolo italiano. Come abbiamo potuto accettare, o addirittura desiderare, un modello economico sociale contrastante con i nostri interessi? Come abbiamo potuto riporre fiducia in una classe politica che continuiamo ancora oggi a graziare, attribuendole la sola responsabilità del malaffare ed assolvendola dalla colpa più grave, ovvero il progressivo annichilimento della Costituzione repubblicana e la distruzione delle conquiste sociali in essa consacrate?
La risposta è nel declino della politica.
Dalla questione morale posta da Berlinguer nella famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari, passando per i colpi di mano di Andreatta, per le indagini di “Mani Pulite” e arrivando ai nostri giorni alla pubblicazione del libro la “Casta” di Rizzo e Stella, fino al successo elettorale del M5S alle politiche del 2013 con lo slogan “mandiamoli tutti a casa”, abbiamo assistito a un trentennale stillicidio perpetrato ai danni della politica da parte di chi detiene i mezzi per indirizzare l’opinione pubblica (qui uno spunto per approfondire).
La Costituzione del 1948 è stata (momentaneamente) abbattuta trasformando i cittadini in consumatori, individualisti, disgustati o indifferenti alla politica.
Se la causa è politica, anche la soluzione non potrà che essere politica: la strada per la riconquista della nostra Sovranità è quella indicata da Piero Calamandrei e passa necessariamente per la riscoperta della militanza e la costruzione di nuovi partiti, che facciano dei precetti costituzionali il proprio programma.
In questa prospettiva, noi sovranisti dell’ARS – Associazione Riconquistare la Sovranità il 5 giugno 2016 ci riuniremo a Roma, presso il Teatro dell’Angelo, per dar vita al Fronte Sovranista Italiano, la nostra frazione della alleanza politica sovranista che dovrà guidare il Popolo italiano nella necessaria lotta di liberazione.
CI LIBEREREMO!
Tutti gli auguri possibili al nuovo movimento! Se mi sarà possibile verrò a dare un’occhiata.