Per una pedagogia sovranista
di LUCIANO DEL VECCHIO (ARS Emilia-Romagna)
Giuseppe Mazzini concepiva il principio fondante della Repubblica una, libera e indipendente come distintamente separato da qualsiasi calcolo utilitario, “razionale” dei vantaggi e degli svantaggi che un’Italia unita avrebbe portato ai singoli. Coerente con questa idea, rigettò ne I doveri dell’uomo l’individualismo illuministico della Rivoluzione francese e, implicitamente, quello possessivo della logica capitalistica: “L’ educazione […] è la gran parola che racchiude tutta quanta la nostra dottrina». “Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del ben essere, dato come oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell’ordine nuovo, e lo corromperanno pochi mesi dopo”.
Convinto che non fosse possibile educare il popolo senza un principio morale, aggiunge: “Si tratta dunque di trovare un principio superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza del sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE”.
Un altro grande italiano, poco considerato come teorico dell’educazione, disseminò nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio elementi di una “teoria dell’educazione” per aiutare chi governa a trarre insegnamento dagli episodi e dai personaggi dello storia. Già nella dedica de Il Principe, Niccolò Machiavelli dichiara di voler donare «la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata con una lunga esperienza delle cose moderne ed una continua lezione delle antique». Colloquiando appunto con gli «antiqui huomini», lo scienziato della politica elabora una pedagogia elettivamente rivolta alla classe dirigente, basata sulla storia come fonte di modelli comportamentali da imitare da chi vuole ben governare la cosa pubblica.
Nei Discorsi la tensione pedagogica e l’acutezza analitica sviluppano una teoria educativa dell’esempio, per il cui materiale documentario il patriota e il sovranista ante litteram attinge a piene mani in un periodo storico ben definito, da lui prediletto e da cui trasse ispirazione, quello della Repubblica dell’antica Roma.
In questi ultimi decenni, il nostro sistema scolastico e le nostre istituzioni culturali in genere, influenzati pesantemente da storiografie straniere o egemonizzate da ideologie antinazionali, hanno diffuso il vezzo autolesionista di diffidare dell’antica Roma repubblicana. È invalso l’andazzo di definire quella vicenda vecchia, ininfluente e insignificante, come periodo di storia non più magistra, come materia sospetta perché presunta ispiratrice di derive nostalgiche, il timore delle quali ha spinto molti a ignorare i migliori patrimoni ideali, culturali e politici. Eppure, in questi momenti di confusione politica, di scompigli ideologici, di disgregazione sociale, di incrinature istituzionali, di rarefazione dei principi e valori costituzionali, di perdita dello spirito civile, di apatia e torpore politico, sarebbe bene tornare a studiare quella irripetibile grandezza, la quale, a conoscerla a fondo, potrebbe impartirci parecchie lezioncine su cosa e come nasce un popolo, su cosa e come matura un gruppo dirigente, su quali valori puntare e a cui aggrapparci.
Lo studio di quegli ordinamenti e di quelle epocali scelte politiche potrebbe rivelarci le doti e le qualità che trasformarono quei coriacei discendenti di contadini in eccellenti statisti. Dopo aver cacciato i re, respingendo non l’etnia ma un ristretto ceto di parassiti stranieri (è il caso di rileggersi la lezione), e ripreso il controllo della Città, i Quiriti si ispirarono a un complesso di valori, ereditati dagli antenati (mos majorum), per praticare un insieme di costumi che oggi definiremmo anticonsumista. Si educarono alla frugalità e alla modestia delle esigenze. La moderazione dei consumi contrassegnò la società romana fino alla tarda repubblica, almeno fino a quando le città magnogreche non fecero intravedere un tenore di vita meno severo e sobrio di quello a cui s’erano educati.
Non un re ma due consoli, non a vita ma per un solo anno, fu la carica che garantì la condivisione del potere, mirata non solo a controllarsi a vicenda, ma soprattutto a non fare del governo un appagamento di ambizioni e di interessi personali, ma un servizio da rendere allo Stato. I magistrati in pace, i generali in guerra, i patrizi e i plebei, tutti erano chiamati ad anteporre sempre il benessere e la salvezza dello Stato (salus Rei Publicae) agli interessi delle parti. La collaborazione di tutti gli ordini sociali (concordia ordinum) non fu sempre armoniosa e stabile, ma tutti la riconoscevano come presupposto per l’esistenza dello Stato, equilibratore e garante della Libertas, la possibilità di accedere alle cariche pubbliche.
E così gli antichi Romani crearono la Repubblica e fecero di Roma il primo Stato della storia degno di definirsi tale: una creazione politica collettiva nata dall’opera concorde di uomini e strutturatasi nel corso di molte generazioni in una lunga gestazione (res publica constituenda), che forgiò la loro capacità di governo e la loro maturità politica. L’atto fondativo dello Stato fu un mitico e leggendario solco tracciato dall’aratro di un contadino italico, che rimase a simboleggiare l’immenso valore storico e giuridico del Limes, la frontiera, al di qua della quale vige la Lex, cioè la norma, la regola, la misura, l’equilibrio giuridico e sociale.
Oltre il limite, domina l’arbitrio e la pirateria, l’in-civile e l’a-politikon, la rapina e l’usura. Il senso del limite e della realtà, così concreto da sembrare a volte spietato e crudele, nasceva dall’attaccamento alla terra e dalla convinzione che soltanto la terra può assicurare la ricchezza e la sicurezza dello Stato. La terra non produce solo beni, ma uomini che, disciplinati e temprati dalla fatica durissima che l’agricoltura impone, sviluppano le qualità fisiche e morali per diventare buoni soldati, pronti sempre a difendere la Repubblica dai nemici. Nella Roma repubblicana le qualità contadine furono trapiantate e innestate – un unicum nel mondo antico – anche nell’arte di governare, dove i senatori per istinto primeggiarono su qualsiasi altro sovrano del tempo.
Questo straordinario risultato deve essere attribuito alle indiscutibili qualità politiche e morali a cui gli antichi romani erano educati fin dall’adolescenza: la fermezza dei propositi (constantia), il rigoroso senso del dovere (officium), la lealtà assoluta verso lo Stato (fides). Il romano antico sentiva la dedizione allo Stato così drammaticamente da ritenersi, nella sua mentalità arcaica e contadina, legittimato in qualche misura a esercitare il potere di governo e il diritto di decidere sulle questioni dello Stato per conto di tutti quelli che facevano parte della Comunità, senza riconoscere titoli a chi, troppo dedito e condizionato a cercare l’utile quotidiano, sarebbe stato incapace di concepire l’interesse generale, il bene comune.
Nel periodo repubblicano, più che in altri, i Romani, pur scannandosi in guerre civili e sociali quasi ininterrotte, posero le basi della civiltà più grande e più duratura della storia occidentale. Come ci riuscirono ? Quale fu il “segreto”? Si è soliti rispondere che i Romani avrebbero edificato la loro potenza sulla forza militare. Eppure non poche furono le sconfitte catastrofiche e le occupazioni, anche molto umilianti, che subirono dai nemici storici (Forche caudine, Brenno, Canne, Teutoburgo e un elenco non breve di battaglie perse).
Anche nei momenti più drammatici, quando tutto sembrava congiurare per una totale distruzione, il cittadino di Roma non disperava mai del destino dell’Urbe (constantia). Dunque la legione non spiega tutto. Il segreto è da rinvenire piuttosto nella straordinaria saldezza delle istituzioni repubblicane, frutto della Virtus, l’eccezionale forza d’animo al servizio dello Stato, di cui non solo il ceto dirigente senatoriale doveva dare massima prova nei momenti di estremo pericolo, ma anche ogni singolo cittadino, che alla virtus era stato educato e dalla virtus faceva dipendere l’onore personale e la dignità sociale.
La stabilità e la fermezza della Repubblica Romana metteva soggezione e incuteva timoroso rispetto nei re e nei capi degli eserciti nemici, i quali avvertivano di dover fronteggiare un Popolo e uno Stato, non soltanto legioni. Cicerone, nel descrivere questa realtà storica, economica e sociale, identificò la Res Publica con la Res Populi: quando entrambi si immedesimano l’una nell’altra, si realizza la forma ideale di Stato (optimus status civitatis). La sua secolare resistenza era dovuta all’organizzazione della struttura istituzionale, all’addestramento rigoroso che, prima ancora che il miles, selezionava il civis chiamato a dirigere; era dovuta in particolare alla disciplina ferrea, la dote morale richiesta non soltanto al soldato in guerra, ma al cittadino nella sua formazione civile, da praticare poi con rigidezza militare in tutti i campi della vita.
Eppure, in questa società, che oggi a torto definiremmo ‘militarista’, la distinzione tra il momento politico e quello militare era fondamentale al punto da condizionare l’esistenza della stessa Repubblica. Quando infatti qualcuno (Mario, Silla) cominciò a volersi imporre politicamente sfruttando la forza delle armi, l’ordinamento repubblicano precipitò in una crisi gravissima e finì per soccombere a quello imperiale. Non diversamente succede oggi che, sotto i nostri occhi, altre forze dissolvono la politica, e la finanza e i mercati distruggono le costituzioni democratiche.
La società della Repubblica romana si reggeva su un sistema di profondi valori morali, primari, semplici, univoci, chiari, assoluti e indiscussi, che i Romani sentivano più come requisiti civili che come indicazioni educative. Il centro di trasmissione di questi valori era la famiglia, principium urbis et quasi seminarium rei publicae (Cicerone), uno Stato embrionale, un elemento dell’organizzazione politico-militare, nella quale ogni pater sentiva il dovere di introdurre i figli.
Cardine di questo sistema era l’assoluta preminenza dello Stato, della collettività sul singolo cittadino, principio alla luce del quale la Repubblica rapportava e giudicava qualunque qualità e comportamento personale: non il coraggio in sé, ad esempio, era da apprezzare, ma il coraggio dimostrato nell’interesse e per la salvezza dello Stato; non le libertà personali (oggi finte e pseudo) ma la Libertas era il valore irrinunciabile, inteso come opportunità e diritto di ricoprire le cariche pubbliche e da magistrato mettersi al servizio dello Stato. Perfino la pietas, che per tradizione era il culto dovuto agli dei, fu declinata come rispetto dovuto allo Stato e in tale forma definita addirittura come pietas maxima (Cicerone nel De Re Publica). Anche la maiestas, che indicava la dignità dello Stato come rappresentante del popolo, si evolse in un sentimento, la fierezza di appartenere a un grande popolo, che oggi parecchi sdegnerebbero con sufficienza e ironia, ma che non guasterebbe coltivare come salutare antidoto contro l’avvilimento e l’autorazzismo dilaganti e indotti dagli apparati politici e massamediatici.
In definitiva, era l’antico mos majorum a mantenere compatto il ceto dirigente, unito il popolo e salda la Repubblica di fronte alle avversità. I mores che all’inizio identificavano i costumi e le usanze, più tardi diventarono strumenti portatori di valori, un’ideologia, un insieme di doti a cui addestrarsi per contribuire al bene comune. Essere fedeli a questi valori significava riconoscersi in un popolo, avvertire i vincoli di continuità con i padri e con i figli, incanalare le energie e lo slancio a fondare ed edificare entro l’alveo della tradizione e in funzione della salus publica. Un tempo su questa Penisola ricercare il bene comune per farsi onore e rendersi degno della comunità patria perché la si desidera grande per civiltà, non era compito disdicevole.
Tutto giusto. Basta non pensare di conciliare semplicità contadina, senso dello stato, fides, officium ecc. con cultura, consumismo e diritti di tutti i generi, dall’infanzia all’individuo alle minoranze.
Catone, l’anima parlante dell’antica Roma, volle l’annichilimento proditorio di Cartagine e lo sterminio della sua popolazione; raccomandava di proscrivere i filosofi, di frustare le donne e di privare del cibo gli schiavi malati.