Il profitto: spremuta di vite umane
di GERARDA MONACO (FSI-Riconquistare l’Italia Cuneo)
Un mio amico indiano si spacca la schiena come bracciante in Italia anche quattordici ore al giorno. Fortunatamente non è di quelli estremamente sfruttati, siccome lo pagano adeguatamente e lui ne gioisce, perché non solo vive dignitosamente, ma riesce a mantenere i genitori rimasti in patria. Il padre, infatti, il quale precedentemente era l’unico ad avere un impiego, a 45 anni già non lavora più, poiché il figlio emigrato non vuole che lui si affatichi, potendogli inviare denaro ogni mese.
Insomma, i migranti pagano le pensioni. Sì, ma dei loro parenti nella terra natia. E come biasimarli? Ogni figlio perbene vorrebbe esonerare mamma e papà da fatica e sudore, soprattutto raggiunta una certa età.
Il problema, dunque, non risiede nei migranti come esseri umani con aspirazioni e sentimenti, ma in questo sistema marcio che pone in competizione i lavoratori e guadagna dalla loro ricollocazione, creando un mercato unico dell’essere umano in cui lo squilibrio è fonte di profitto.
Mha!! io non sono del tutto daccordo e francamente comincio a chiedermi se sia giusto giustificare masse di persone che invece di lottare per migliorare la propria vita nella propria terra come hanno fatto i nostri nonni ed i nostri padri preferiscono andare dove questi problemi erano risolti riportandeceli e mi chiedo se e quanto noi Italiani di oggi dobbiamo lasciare che in nome di una “giustizia sociale”si cancellino diritti e doveri come quello di non sfruttare ma anche quello di non essere sfruttati per maggior chiarezza è vero che non si può sfruttare il genere umano per il profitto ma neanche il genere umano può decidere di farsi sfruttare e se una persona sceglie di fare lo schiavo come nei campi di cotone dell’Alabana dell’ottocento, qualunque sia la ragione di questa scelta, semplicemente non può farlo e gli deve essere impedito, anche con una pena.