L’arrivo dell’islam radicale in America Latina – Il caso del Suriname
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Emanuel Pietrobon)
Un’operazione antiterrorismo mirante a sgominare una cellula di Hezbollah porta all’arresto clamoroso del figlio del capo di Stato. Nel corso di un’altra indagine, invece, viene appurato che un pericoloso ricercato internazionale appartenente ad Al Qaeda si sarebbe nascosto nel Paese. Sullo sfondo di questi eventi compaiono lo Stato Islamico e imam estremisti sul libro paga delle petromonarchie, le cui attività radicalizzano i fedeli e ne spingono alcuni ad abbracciare il jihad armato e partire per il Siraq. Potrebbe sembrare una storia accaduta in qualche angolo del Medio Oriente, del Nord Africa o dell’Africa subsahariana, se non fosse che è accaduta in un paese cristiano e, apparentemente, privo di qualsivoglia legame con l’islam radicale e l’internazionale jihadista: il Suriname. Quella che stiamo per raccontarvi è una storia vera, ed è il terzo appuntamento della rubrica sull’arrivo del terrorismo islamista in America Latina, dopo i casi del Chiapas e di Trinidad e Tobago.
La situazione religiosa
Il Suriname, similmente a Trinidad e Tobago, è un caso sui generis all’interno del contesto latinoamericano alla luce della tradizione di pluralismo religioso ivi presente. Secondo i numeri provenienti dal censimento della popolazione del 2012, dei 541mila abitanti all’epoca accertati, almeno 75mila avrebbero professato la religione islamica, ossia il 13,9%. Quelle cifre rendono il Suriname il Paese dell’emisfero occidentale con la più alta percentuale di musulmani sul totale della popolazione. Ma il Suriname vanta anche un altro record: insieme alla Guyana è l’unico Paese delle Americhe ad essere membro dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica.
Come nel caso di Trinidad e Tobago, l’arrivo dei musulmani risale ai tempi della tratta degli schiavi. La comunità musulmana delle origini era quindi composta da schiavi provenienti dall’Africa subsahariana occidentale. A partire dagli anni ’60 e ’70, però, il piccolo Paese sudamericano ha assistito all’arrivo di migranti economici provenienti da India, Pakistan, Afghanistan, Malesia e Indonesia; fenomeno che ha comportato una diversificazione di etnie e culture all’interno della piccola umma surinamese. Le ondate migratorie hanno avuto degli ovvi riflessi demografici, provocando un aumento repentino dei musulmani sul totale della popolazione, e culturali, sancendo anche l’attecchimento di forme diverse di praticare l’islam meno propense al dialogo interreligioso e più impermeabili alla secolarizzazione e ai tentativi di assimilazione nel contesto locale. Quella combinazione di resistenza culturale e ultra-conservatorismo ha facilitato l’attecchimento di sentimenti radicali, ai quali ha fatto seguito l’arrivo dell’internazionale jihadista.
Jamaat al-Fuqra (JaF) sta al Suriname come Jamaat al-Muslimeen (JaM) sta a Trinidad e Tobago. Si tratta di un’organizzazione a metà tra una dimensione legale e una illegale, fondata negli anni ’80 dallo sceicco pakistano Mubarak Ali Shah Gilani e che, oggi, vanta ramificazioni in tutta l’area Caraibi-America Latina ed è specializzata in attività di proselitismo dirette verso gli abitanti di origine africana. Alla stessa maniera di JaM, i membri di JaF alternano la somministrazione di aiuti e servizi sociali alla conduzione di attività criminali e terroristiche e, in entrambi i casi, una delle principali fonti di finanziamento è il ricorso a strumenti illeciti: tratta di stupefacenti, traffici di armi e di esseri umani, riciclaggio di denaro sporco.
Di nuovo, un’altra similitudine con JaM è che questa organizzazione è cresciuta e si è sviluppata sullo sfondo della guerra fredda, foraggiata dal capitale delle potenze del mondo islamico, e gli Stati Uniti si sono accorti di essa soltanto quando è uscita dall’ombra in modo plateale. Se a Trinidad e Tobago fu un golpe fallito, nel caso di JaF fu un tentativo di attentato a Toronto nel 1991. L’antiterrorismo canadese arrestò cinque membri di JaF, di nazionalità dominicana e trinidadiana, prima che consumassero un attacco sanguinoso contro la comunità induista della metropoli.
Tablighi Jamaat
Un’altra organizzazione islamista dalla natura controversa che è presente in maniera capillare in Suriname è Tablighi Jamaat. Si tratta di un gruppo di ispirazione sunnita con base in Pakistan e le cui attività sono vietate in diversi Paesi, essendo categorizzato come entità terroristica. Tablighi Jamaat, la cui centrale operativa in Occidente si trova in Dewsbury (Inghilterra), è stato accusato dai servizi segreti di numerosi Paesi occidentali, come Francia e Stati Uniti, di essere un’anticamera del terrorismo. Dalle moschee gestite da quest’organizzazione erano passati, ad esempio, Zacarias Moussaoui, cittadino francese condannato al processo per gli attentati dell’11/9, e i responsabili degli attentati di Londra del 7 luglio 2005 e del 29 giugno 2007. In Suriname i membri di Tablighi Jamaat sono specializzati in due attività: convertire gli autoctoni e gestire alcune delle moschee ivi presenti sul territorio.
Lo spettro di Al Qaeda
Il Suriname non è entrato nel mirino degli investigatori statunitensi per via della presenza di JaF o Tablighi Jamaat; il motivo è stato qualcosa di molto più grave. Il 6 dicembre 2014, dopo undici anni di latitanza, le forze speciali pakistane mettevano la parola fine alla corsa di Adnad Gulshair el Shukrijumah, un cittadino saudita ricercato in tutto il mondo dal 2003. Nato in Arabia Saudita ma cresciuto negli Stati Uniti, El Shukrijumah si era radicalizzato (o era stato?) a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 ed è noto che il padre, un imam, avesse ricevuto soldi da Riad nello stesso periodo per curare una moschea in Florida. Nel maggio 2001 avviene la svolta: El Shukrijumah fugge dagli Stati Uniti per dirigersi a Trinidad e Tobago, evitando di pochi giorni un incontro con degli investigatori interessati a sapere di più sui suoi contatti con personaggi legati ad Al Qaeda, come Jose Padilla e Mohammed Atef. Forse una soffiata, o forse semplice fortuna, ma da allora di El Shukrijumah si sarebbero perse le tracce e, poco dopo, sarebbe entrato nella celebre FBI Top Ten Most Wanted Terrorists, venendo elencato come uno dei possibili papabili alla successione di Osama bin Laden.
Ricostruire la latitanza decennale di El Shukrijumah non sarà mai possibile ma è noto che, ad un certo punto, la CIA spostò l’attenzione dai Caraibi e dal Medio Oriente a Paramaribo, la capitale del Suriname. Avvistamenti, soffiate, fotografie sfocate e il ritrovamento di un passaporto surinamese intestato al fuggitivo: tutto indicava che uno dei terroristi più pericolosi e ricercati del mondo si nascondesse, o si fosse nascosto, in uno dei simboli del turismo internazionale. Quando e perché l’uomo si sarebbe recato in Suriname resta un mistero, ma il semplice fatto che vi abbia soggiornato – passando emblematicamente da Trinidad e Tobago, la principale base operativa dell’internazionale jihadista nei Caraibi – dovrebbe suscitare riflessioni.
La presenza di organizzazioni come Tablighi Jamaat che alimentano la spirale ideologica del radicalismo e l’esistenza di reti di copertura appartenenti al terrorismo, come palesato dal caso El Shukrijumah e dalle connessioni con il panorama islamista trinidadiano, non ha potuto che favorire lo sbarco a Paramaribo dell’ultima creatura partorita dal ventre fertile del jihadismo: lo Stato Islamico. Ed è per questo motivo che John Kelly, brevemente capo di gabinetto della Casa Bianca durante la presidenza Trump ed ex comandante del Comando Meridionale degli Stati Uniti durante la seconda amministrazione Obama, ha inserito il Suriname in cima all’elenco dei Paesi latinoamericani più toccati dal fenomeno del terrorismo islamista, posizionandolo terzo, dietro a Trinidad e Tobago e Giamaica. Non esiste una stima dei cittadini surinamesi che hanno abbandonato il Paese tra il 2013 e il 2017 per arruolarsi nelle file dello Stato Islamico, ma Kelly, che ha monitorato il fenomeno da vicino, ne è fermamente convinto: delle centinaia di combattenti stranieri di origine latinoamericana la cui presenza è stata certificata nel Siraq, la maggior parte sarebbe partita da Trinidad e Tobago, Giamaica e Suriname.
Quanto accaduto nel luglio 2017, del resto, sembra dare ragione al quadro a tinte fosche dipinto dal generale oggi in pensione. Quel mese un’operazione antiterrorismo portò all’arresto di cinque persone, tre surinamesi e due olandesi, accusate di aver giurato fedeltà allo Stato Islamico e di essere in procinto di assassinare Edwin Nolan, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Paramaribo. Sulla piccola cellula, inoltre, grava l’accusa di aver reclutato combattenti da inviare in Siria e in Iraq. L’elemento della vicenda che ha colpito maggiormente l’opinione pubblica surinamese è la provenienza dei terroristi: figli di buone famiglie e, nel caso di uno di essi, famiglie anche piuttosto potenti. Tra i cinque arrestati, infatti, anche il genero del parlamentare Ronnie Brunswijk. L’anno seguente, nel mese di maggio, l’intero Paese viene serrato in via preventiva per alcuni giorni: eventi annullati, scuole chiuse, rafforzamento delle forze dell’ordine in strada per attività di controllo e pattugliamento. La drastica decisione, frutto di una riunione d’emergenza guidata dall’allora presidente Dési Bouterse, era stata presa in seguito ad un ultimatum lanciato dal Daesh su Facebook: il rilascio immediato dei due olandesi, o l’avvio di attentati a catena.
Paramaribo-Hezbollah Connection
Dési Bouterse, presidente del Suriname dal 2010 al 2020, è un personaggio dal passato torbido che avrebbe costruito la sua fortuna illegalmente, ossia facendo traffici con i cartelli della droga sudamericana e con le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (FARC). Dal 1999 è ricercato dall’Europol, essendo stato condannato in absentia da un tribunale olandese a undici anni di reclusione per traffico di cocaina. La condanna, ormai datata e, probabilmente, destinata all’inapplicabilità, non ha mai condizionato negativamente le prestazioni elettorali di Bouterse che, infatti, è stato alla guida del Paese sino al 16 luglio di quest’anno. Bouterse è stato a lungo considerato uno dei più grandi signori della droga del Cono Sud ed è noto il suo legame affaristico con Roger Khan, il più celebre narco-trafficante della Guyana. Khan, che si trova attualmente recluso negli Stati Uniti, è a sua volta legato a JaM. Il figlio prediletto del narco-presidente, Dino, classe 1972, sta scontando una pena a sedici anni di detenzione negli Stati Uniti. Nominato dal padre a capo dell’antiterrorismo surinamese, curiosamente, Dino è stato arrestato da agenti sotto copertura della DEA (Drug Enforcement Administration) in un’operazione contro Hezbollah il 29 agosto 2013.
Dino aveva promesso ai soldati di Hezbollah, in realtà agenti della DEA, che avrebbero potuto utilizzare Paramaribo come base operativa e che si sarebbe occupato personalmente di rifornirli di armi con cui compiere attentati contro obiettivi statunitensi in America Latina. Il caso della famiglia Bouterse è la dimostrazione di come il Suriname non abbia un semplice problema di radicalizzazione e penetrazione jihadista; è la stessa dirigenza politica ad essere coinvolta in traffici illeciti con entità appartenenti al crimine organizzato transnazionale e al terrorismo. Paramaribo come Port of Spain e San Cristobal de las Casas, piccole città che sarebbero difficili da localizzare sul mappamondo anche per un geografo esperto e che, forse, proprio per questo motivo, sono state scelte dagli attori dell’internazionale jihadista per costruirvi delle basi operative.
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