Comunista col rolex
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alfio Squillaci)
Ho abbordato questo libro perché interessato ad avere delle risposte a due domande che spesso mi pongo, e con me credo molti lettori. Ossia come sia possibile essere insediati in una vita altoborghese più che confortevole e al contempo propugnare idee di sinistra radicale, e, seconda domanda, quando e per quali cause è avvenuta la disconnessione sentimentale tra i ceti popolari e la sinistra politica, e se essa è avvenuta anche a causa di questi comportamenti audacemente divaricanti. Mi sono trovato davanti questa autobiografia intellettuale, L’Infedele. Una storia di ribelli e padroni (Feltrinelli, 2020), coraggiosa, con punte di autodenigrazione e di ‘cuore messo a nudo’, spiazzante per certi versi, ma riccamente argomentata, del famoso giornalista televisivo e della carta stampata Gad Lerner.
Nella vita avventurosa e fortunata di Gad Lerner, nato in Libano, di famiglia ebraica, a tre anni approdato in Italia, apolide fino a trenta, attivista di Lotta Continua, quindi giornalista di grido, la prima questione – che si può racchiudere nel cosiddetto tormentone del “comunista col rolex” – trova divaricazioni davvero estreme, al limite del romanzesco. A partire dalla pretesa che egli ha di voler chiamare gli imprenditori con la vecchia dicitura antagonista e ostile di “padroni” e al contempo di frequentarli, di entrare in amicizia, di tenere rapporti e frequentazioni familiari con loro, per altro verso esibendo un costume di vita caratterizzato da consumi vistosi (non proprio il Rolex che gli è stato attribuito, ma la vigna in Monferrato nella collina dirimpetto ai Feltrinelli) e di tenervi, seppur goliardicamente, l’effigie di Mao. Tratti di vita raccontati qui. Trascorrere perciò vacanze ai tropici in compagnia di ricconi e al contempo perorare la causa degli ultimi, del “popolo delle formiche”, come una volta venivano chiamati gli operai, e oggi dei migranti e dei rom, è argomento ampiamente trattato con dovizia di particolari in segmenti narrativi lievi un po’ comici (la scena delle braghe al funerale del babbo) e un po’ pensosi, da film – o libro – cui ci ha abituati la grande filmografia e narrativa ebraiche del Novecento.
La domanda centrale resta questa: “Può un borghese, può un ricco prendersi a cuore la sorte degli sfruttati? Chi l’ha detto che ciò sia possibile solo attraverso la scelta privata della beneficenza? O addirittura della totale condivisione che san Francesco praticò spogliandosi di tutti i suoi averi?”. La sollecitazione se non la divaricazione estrema cui sottoporre l’io tra i due fronti contrapposti – operai e padroni – lottando per i primi e frequentando tra svaghi e bevute i secondi, richiede una coscienza sicuramente addestrata a equilibrismi estremi, da funamboli dello spirito. Nel mio piccolo ho sempre pensato che solo in un ambito di rarefazione spirituale di tipo eminentemente ‘estetico’ fosse possibile questo difficile numero di trapezio. Ho creduto che solo una personalità ‘artistica’ potesse piegare il tratto personale a una sorta di recita teatrale – non falsa ma vera nel breve momento della rappresentazione di un bravo attore appunto – in cui assumere più parti in commedia. Penso anche a quella figura della tradizione letteraria tedesca dell’“artista della vita” (Lebenskünstler) che con mosse lievi della sensibilità e scatti della volontà, assistito da una cultura che trova risposte a tutte le contraddizioni, riesce infine a fare del surf, aereo ma in fondo disimpegnato, tra i marosi della vita associata. La mente del lettore letterato va anche a quell’Arnheim dell’Uomo senza qualità, scintillante altoborghese che Musil tratteggia come un misto “di anima e di prezzo del carbone”. Dietro Arnheim spuntava la silhouette di Walter Rathenau, altoborghese di origine ebraica.
È spiacevole farci i conti in Italia, perché si rischia di cadere nella maldicenza personale. Ma non si può fingere di ignorare che i milioni di voti popolari perduti dalla sinistra hanno a che fare anche con un’incrinatura di credibilità dei suoi dirigenti e, più precisamente, delle loro biografie
Gad Lerner
E siamo in tema, perché Lerner intende dare invece, come interpretazione autentica della difficile coerenza fra la propria attività pubblica e il proprio essere sociale, la serietà e la profondità di una scelta di vita sostenuta da ragioni e ispirazioni etico-politico-culturali di fondo con punte di religiosità. Da un lato invocando la figura del padre spirituale Engels, borghese, industriale e comunista che dopotutto si muoveva nello stesso ambito psichico e intellettuale, tra vini scelti e proletariato, dall’altro facendo appello alla tradizione tipicamente ebraica della fitta schiera di intellettuali (e qui si va dal rinnegato Marx a Babel’, Trockij, Luxemburg, Landauer, e tanti altri) che traducono in termini politici le spinte religiose di ascendenza chassidim, volgendo in sovversivismo rivoluzionario il messianesimo di questa corrente religiosa. Se Lerner sia riuscito a tenere sotto controllo lo spappolamento psichico di quella estrema divaricazione non sta a me lettore giudicare. Ciascuno ha il suo destino e risolve nel suo foro interno i casi di coscienza.
Interessa di più la seconda domanda: quanto quella divaricazione lacerante tra stili di vita e idee professate sia stata di nocumento alla lotta per il riscatto degli oppressi o abbia determinato la caduta dei consensi allorché sono stati i leader politici a esserne stati gli interpreti. E qui Lerner, nelle altrui biografie intellettuali brevemente tratteggiate – i casi analoghi di almeno due leader politici, D’Alema regatante, vigneron, con ai piedi scarpe supercostose, e Bertinotti travolto dalla vignetta da lui stesso incautamente alimentata di “comunista in cachemire” – trova toni accigliati, approdando a questa considerazione: “È spiacevole farci i conti in Italia, perché si rischia di cadere nella maldicenza personale. Ma non si può fingere di ignorare che i milioni di voti popolari perduti dalla sinistra hanno a che fare anche con un’incrinatura di credibilità dei suoi dirigenti e, più precisamente, delle loro biografie”.
A partire dagli anni Ottanta l’Italia fa ingresso a pieno titolo nella “società affluente”. I consumi vistosi e gli stili di vita sibaritici che ci hanno condotto nel mondo attuale in cui sono gli chef a dettare la linea (ricordo lo chef di grido come avanguardia del nuovo stile sdoganato dal líder máximo in tv) hanno travolto per prima gli intellettuali fiancheggiatori e i leader politici di sinistra che erano quelli che più dovevano resistere ai consumi vistosi in nome e per conto della classe “più numerosa e più povera” come Saint-Simon chiamava il proletariato, classe che poche cucchiaiate riusciva a raschiare dal calderone del grande balzo in avanti del benessere. E invece ciò non avvenne. “Il tema della coerenza degli intellettuali e dei politici di professione a sinistra resta un nervo scoperto” chiosa amaramente Lerner. Non gli si può dare torto. Anche a vigne acquisite.
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