di SIMONE GARILLI (Fsi Mantova)
Quella anticipata dalla pandemia è la seconda grande crisi economica globale in poco più di un decennio, e nel caso di alcuni Stati addirittura la terza, se si considerano come tecnicamente separate le due recessioni del 2008 e del 2012-13. Ognuna di queste tre crisi è stata particolarmente virulenta in Europa e ancor più in Italia. Tale evidenza, secondo una narrazione tuttora dominante, sarebbe la dimostrazione che il modello economico italiano ereditato dal passato fosse inefficiente. Staremmo cioè pagando ancora oggi gli eccessi e le disfunzioni della Prima Repubblica, a causa dei quali ci saremmo fatti trovare impreparati all’appuntamento spontaneo della globalizzazione o, se si preferisce, dell’Unione Europea. È un capovolgimento bello e buono della realtà, che non regge ad una seria analisi storica ed economica.
Innanzitutto dovrebbero spiegarci, i sostenitori di questa tesi, perché non solo l’Italia, ma la stessa Unione Europea è il buco nero della crescita mondiale quando l’economia rimbalza, e paga un prezzo più alto che altrove quando l’economia ripiomba in recessione. Anche limitandosi al caso specifico italiano, tuttavia, la tesi si scioglie come neve al sole non appena si confrontino dati alla mano le prestazioni economiche del modello ad economia mista della Prima Repubblica e di quello neoliberale della Seconda.
Guardiamo però ad un altro dato, oggi: la quota di Pil prodotto dalle esportazioni. Il rapporto ICE 2019-2020 (Assolombarda) ci dice che nel 2019 le esportazioni contribuivano al Pil nazionale per il 31,7%. Un terzo del Pil è legato perciò alla domanda estera, non a quella interna. Dieci anni fa, quando solo una delle tre gravi crisi del decennio aveva colpito con particolare forza l’Unione Europea e l’Italia, la stessa quota si attestava al 24,9%. Ancora prima, nel 1992, all’alba dell’Unione Europea e della Seconda Repubblica, le esportazioni contribuivano al Pil (il quale cresceva a ritmi ben maggiori di ora) per il 17,5% (elaborazione mia su dati Eurostat). In poco meno di trent’anni è quasi raddoppiato il contributo al Pil delle esportazioni, mentre la dinamica del Pil si è fermata (in un circolo vizioso di stagnazione, recessione, stagnazione).
Al di là delle cause, che sono ormai evidenti a chiunque non vaneggi (vincoli di finanza pubblica, privatizzazioni, divieto di aiuti di stato, divieto di politica monetaria, divieto di politica valutaria), è importante sottolineare le ricadute più dolorose di questa ristrutturazione dell’economia italiana:
– crollo dei salari reali (salario diretto);
– crollo delle pensioni medie (salario differito);
– riduzione quantitativa e qualitativa dello stato sociale e dei servizi pubblici (salario indiretto);
– crollo del tasso di risparmio (dal 25% del reddito guadagnato degli anni Settanta al 4-5% odierno);
– crollo degli investimenti pubblici e privati, e quindi dell’occupazione;
– aumento di povertà assoluta, relativa e delle diseguaglianze di reddito e di patrimonio;
– riacutizzazione delle divergenze territoriali (negli anni Sessanta il pil pro capite meridionale cresceva a ritmi doppi di quello settentrionale, oggi si è tornati alla normalità feroce di un dualismo che potrebbe sfociare anche nella disgregazione territoriale del Paese).
Cosa significa tutto questo, dal punto di vista generale delle imprese? Che muoiono come mosche le piccole attività, i commercianti e i negozianti, faticano gli stessi centri commerciali, e concentrano nelle loro poche mani una quota sempre maggiore di reddito e ricchezza le imprese esportatrici, localizzate principalmente nel nord-est. Da un modello in cui lo Stato garantiva a tutte le imprese un pavimento di domanda (le commesse pubbliche) e stimolava in prima istanza l’innovazione di processo e di prodotto, che poi si traduceva in investimenti privati indirizzati principalmente al mercato interno (salari reali in crescita e domanda nazionale florida), si è transitati in un trentennio ad un modello export-led, che sta saldando l’industria del nord est al mercantilismo tedesco, in posizione ovviamente subalterna e con tanti saluti all’occupazione interna, ai salari e alla coesione territoriale.
Ecco perché l’Unione Europea cresce meno degli altri (quando si cresce) e decresce di più (quando si recede), ed ecco perché al suo interno l’Italia fa ancora peggio. Nessuno ha applicato la cura unionista con il nostro zelo (basti vedere l’avanzo primario medio del bilancio pubblico, in cui siamo PRIMI AL MONDO nel periodo 1992-2018) e nessuno partiva da una presenza così decisiva dello Stato, che nel 1992 contribuiva per il 18% al valore aggiunto del settore manifatturiero, sopravanzando di gran lunga Francia e Germania. Abbiamo abbandonato un modello che ci ha reso grandi, dando ascolto alle sirene di chi rappresentava gli interessi del grande capitale, nazionale ed estero. Una rivoluzione silenziosa che ci ha trasformati in una piccola e malata Germania, a vantaggio di pochi.
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