Stabilità e soft power: perché la Cina lotta contro l’inquinamento
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Giorgio Cuscito)
Pechino prepara un nuovo piano per ridurre drasticamente le emissioni di Co2. Da ciò dipende la qualità della vita dei cittadini, la sovranità del Partito comunista, il futuro di Xi e l’immagine della Repubblica Popolare all’estero.
La Repubblica Popolare torna a fare i conti con gli alti tassi d’inquinamento. Con l’arrivo dell’inverno, la qualità dell’aria nel paese è nuovamente peggiorata. Al punto che a metà novembre le autorità cinesi hanno chiesto a province settentrionali quali Hebei, Shanxi, Shandong ed Henan di prendere provvedimenti per ridurre le emissioni di diossido di carbonio.
Tale sviluppo si intravedeva già lo scorso maggio, quando il quantitativo di Co2 prodotto dalla Repubblica Popolare era circa il 5% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il dato è ancor più rilevante se si considera che la statistica aveva subito un crollo del 25% tra febbraio e marzo a causa del parziale blocco dell’economia dovuto allo scoppio dell’epidemia di coronavirus. Per il ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente cinese, le “cupe” tendenze ambientali del paese non sono cambiate malgrado i miglioramenti registrati negli ultimi cinque anni.
Il persistere di tali problemi spiega perché il piano quinquennale di sviluppo sociale ed economico 2021-2025 allestito da Pechino includa la lotta all’inquinamento. Quest’ultima si impernia sulla promozione della cosiddetta “civilizzazione ecologica” (shengtai wenming). Il concetto, coniato dal presidente cinese Xi Jinping, implica che la crescita del paese non deve avvenire a danno dell’ambiente. Nel concreto, l’obiettivo di Pechino è raggiungere il picco di emissioni di Co2 nel 2030, per poi azzerare quelle nette entro il 2060. Tale traguardo richiede il coordinamento sistematico di vari settori: industria, energia, trasporti, agricoltura e dei consumi. Il piano d’azione sarà divulgato il prossimo marzo e in base ad esso saranno allestiti progetti specifici per ambiti ed enti territoriali.
Pechino non sottovaluta il problema. Il delicato equilibrio tra crescita economica e sostenibilità ambientale incide sulla qualità della vita della popolazione cinese. Quest’ultima è a sua volta condizione necessaria (ma non sufficiente) per la stabilità di lungo periodo della Repubblica Popolare e della legittimità del Partito comunista. Tutto ciò è decisivo anche per il futuro di Xi, che molto probabilmente resterà alla guida del paese anche dopo il 2022, quando scadrà il suo secondo mandato presidenziale. Nei prossimi due anni, il capo di Stato cinese cercherà non solo di rafforzare il controllo sui centri di potere (Partito, Esercito popolare di liberazione e Stato), ma anche di catalizzare consenso popolare. Così da scongiurare qualsiasi opposizione alla sua leadership. In passato la lotta all’inquinamento è stata frenata dalla sovrapposizione di competenze tra governo centrale e amministrazioni locali e dall’opposizione di coloro che nel Partito e nel tessuto imprenditoriale cinese traevano beneficio dallo status quo. Non è escluso che tali problemi affiorino nuovamente qualora Pechino ordinasse una riforma drastica del settore energetico.
La difesa dell’ambiente è anche una questione di soft power. La Repubblica Popolare cercherà di stare al passo con gli obiettivi prefissati per rafforzare la sua immagine all’estero.
La “civilizzazione ecologica”
Secondo i dati ufficiali cinesi – di cui in Occidente spesso si contesta la trasparenza – le emissioni di Co2 per unità di pil sono diminuite del 48% rispetto al 2005. L’uso del carbone è oggi pari al 58% del paniere energetico totale, il 10% in meno rispetto al picco del 2013. Anche la media dei giorni con una buona qualità dell’aria si sarebbe alzata.
Eppure la Repubblica Popolare è ancora prima al mondo per emissioni di diossido di carbonio, seguita dagli Stati Uniti.
Inoltre, la crescita economica cinese degli ultimi 40 anni ha provocato seri danni all’ambiente, tra cui deforestazione, desertificazione, erosione del suolo e inquinamento dei fiumi. La Cina è abitata dal 22% della popolazione mondiale ma dispone solo del 7% delle terre coltivabili del pianeta. In più, il 40% di queste ultime è degradato. A ciò si aggiunga che nel 2016, il ministero delle Risorse idriche cinese ha ammesso che l’80% dell’acqua nel sottosuolo del paese è inquinato. I danni all’ambiente attanagliano i principali nuclei geopolitici cinesi: il bacino del Fiume Giallo, dove si trova Pechino; il delta dello strategico Yangtze, lungo cui è sita Shanghai; il delta del Fiume delle Perle, in prossimità del quale sono ubicate la turbolenta Hong Kong, la più mite Macao e la produttiva Shenzhen.
I dettagli pratici del piano quinquennale si sapranno solo tra qualche mese. Tuttavia, è già possibile identificarne gli elementi chiave nel campo ambientale.
Pechino promette di ridurre ulteriormente la dipendenza dal carbone. Tale processo necessita un’ulteriore riduzione della sovraccapacità industriale, argomento che la leadership cinese tratta con le pinze. La chiusura delle aziende di Stato inefficienti (definite “zombie”) sarebbe la soluzione economicamente più sensata. Eppure sinora Pechino ha preferito la loro fusione con altre imprese più solide. La cessazione completa di più attività industriali infatti inciderebbe sulla rete di interessi economici domestici e determinerebbe il licenziamento di milioni di persone. Ciò a sua volta alimenterebbe il malcontento sociale e quindi l’instabilità domestica.
La banca centrale cinese intende accrescere i finanziamenti alle tecnologie verdi. Nella Repubblica Popolare, l’energia idroelettrica rappresenta il 18% della produzione nazionale. Quella eolica e quella solare generano ciascuna l’11% di elettricità; il nucleare (che non è rinnovabile) solo il 2%. Incentivare l’uso di queste risorse dovrebbe ammortizzare l’effetto destabilizzante della chiusura delle fabbriche a carbone.
Pechino potrebbe annunciare nuove politiche di supporto al miglioramento dell’efficienza delle grandi metropoli. La leadership cinese considera il processo di urbanizzazione indispensabile per favorire la crescita dell’entroterra, alimentare i consumi domestici e ridurre la dipendenza dalle esportazioni. Eppure, l’espansione degli agglomerati urbani accresce la densità demografica, l’inquinamento e il traffico stradale. Di qui la necessità di ripensare lo spazio cittadino. In tale contesto, la megalopoli Jin-Jin-Ji (composta da Pechino, Tianjin e lo Hebei) è un caso di scuola. Lo sviluppo della nuova area di Xiong’an, a 100 chilometri da Pechino, lascia intendere che la leadership cinese vuole riprogettare lo spazio urbano per renderlo più a misura d’uomo, dotandolo di infrastrutture relativamente basse e più spazi verdi.
Il governo cinese promette di ottimizzare le attività di coltivazione e allevamento, con tre finalità: favorire la crescita economica delle aree rurali; assicurarsi il rispetto degli standard di qualità messi in discussione dalla diffusione di malattie come la Sars, la febbre suina e il nuovo coronavirus; non compromettere ulteriormente il degradato suolo cinese e le scarse riserve d’acqua. A metà novembre, Pechino ha annunciato che nelle campagne nessuno vive più al di sotto della soglia di povertà assoluta, pari oggi a un reddito annuale di 4 mila yuan (500 euro). Il risultato è certamente notevole, considerando che settant’anni fa tale condizione caratterizzava circa 800 milioni di cinesi. Eppure la qualità della vita nelle campagne non è ancora paragonabile a quella delle megalopoli costiere della Repubblica Popolare. La faglia sociale ed economica tra aree urbane e rurali è una delle fragilità più importanti che contraddistinguono la geopolitica cinese.
La Repubblica Popolare tenterà di usare il suo piano di lotta all’inquinamento anche per rilanciare la sua immagine all’estero. L’epidemia di coronavirus e il duello con gli Usa hanno infatti infragilito il soft power cinese, soprattutto in Occidente. Ora la Repubblica Popolare vuole dare una mano di verde alle nuove vie della seta, scoraggiando gli investimenti nelle fabbriche a carbone straniere e favorendo quelli in energie rinnovabili. L’obiettivo è respingere le accuse degli Usa e dei paesi occidentali sulla sostenibilità delle infrastrutture cinesi all’estero.
A prescindere da tale proposito, Pechino non potrà proporsi come difensore globale dell’ambiente se non riuscirà a ridurre consistentemente gli alti tassi d’inquinamento nella Repubblica Popolare.
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