L’intelligenza sociale
di ALESSANDRO CASTELLI (FSI-Riconquistare l’Italia Trento)
Prologo
Ho deciso di presentare questo post, il cui titolo sembra esulare i contenuti di questo sito, perché mi trovo a essere sempre più preoccupato dalla logica di scontro frontale fra due fazioni – sempre meno destra/sinistra, progressisti/conservatori, socialisti/liberali e sempre più forze del Bene contro le forze del Male – che è ormai la cifra della politica.
I.
Se si osservano due persone discutere si può fare la seguente osservazione: i due contendenti lottano con l’idea di, e allo scopo di, avere ragione. Parrebbe che l’idea che innerva tale conflitto sia che tra le due parti in causa ci sia una distinzione primaria: tra chi ha ragione e chi ha torto. A questa nozione se ne accompagna un’altra: che il conflitto non sia, o non sia soltanto, lo strumento ultimo per dirimere la questione, ma che sia proprio la strada per far emergere quale delle due parti in causa (o tre, o quelle che sono) sia dalla parte della ragione. Ma in fondo quale altro vero motivo ci può essere dietro a un conflitto, se non proprio quello di dimostrare all’altro che sia aveva in prima istanza ragione? E questo è dimostrabile attraverso una semplice osservazione: chi mai è convinto di essere nel torto?
Ora, se le cose stessero un questo modo, è chiaro che a ogni conflitto corrisponderebbe una vittoria per la ragione e una sconfitta per il torto, dove colui che aveva torto riconosce, attraverso la dolce forza del logos, di aver commesso un errore nel suo ragionamento e si dichiara disponibile a assumere il punto di vista dell’avversario dialettico.
Nel mondo reale, però, le cose non stanno così, perché non succede quasi mai che le due parti in causa abbiano una torto e una ragione, ma piuttosto accade che l’una e l’altra parte abbia ragione nel portare avanti i propri interessi. Inoltre, quando si assiste a una diatriba, l’atteggiamento non è quello di un osservatore neutrale, ma più quello degli ultras di una squadra di calcio: ci si accalora, ci si indigna per un fallo – quando l’avversario dialettico afferma qualcosa che noi riteniamo eticamente riprovevole – ci si infuria per la sconfitta anche quando è ormai acclarato che si era dalla parte del torto. In una parola: ci si emoziona. Ma queste emozioni, da dove vengono?
II.
Ci sono due modelli che sembrano poter rispondere a questa domanda. Il primo si può descrivere così: ognuno di noi sceglie una posizione rispetto ai massimi sistemi sulla base di un ragionamento logico che tiene conto dei propri interessi. A quel punto ogni volta che ci si trova di fronte a un fatto che va a favorire o a sfavorire questi interessi, la reazione emotiva che ne deriva non è altro che una sintesi di una visione volta a preservare gli interessi in gioco, visione che è già stata processata a suo tempo e di cui di fronte al fatto in questione non ci sarebbe tempo di rifare tutti i passaggi.
Il secondo invece è questo: da qualche parte dentro l’homo sapiens ci sono delle predisposizioni innate a fargli provare delle emozioni di fronte a determinati fatti – e, di converso, a rimanere freddo di fronte ad altri. Soltanto a causa dello stimolo di tali predisposizioni allora si decide di allinearsi a determinati interessi. In altre parole: prima ci sono delle reazioni emotive, poi i ragionamenti logici che le giustificano. Se il modello più corretto è il secondo, ne discendono delle conseguenze molto interessanti.
III.
Innanzitutto, se è vero che le scelte di campo sono il risultato di reazioni emotive che hanno come sorgente la natura particolare di ogni essere umano, ovvero in ultima analisi su pattern neuronali su cui uno non ha più controllo di quanto possa avere sul proprio naso, l’idea di colpe collettive che ricadono su determinati interessi e determinate ideologie è semplicemente assurda. Se una persona fa una scelta di campo, non è perché questa persona è buona o cattiva, qualsiasi significato poi si possa dare a parole del genere, ma è semplicemente il risultato di reazioni emotive innate, o della mancanza delle stesse.
In secondo luogo parrebbe proprio che tutto sommato il drive soggiacente agli esseri umani sia lo stesso, ovvero una sorta di grumo primordiale di emozioni che funge da sorgente alla razionalità. Se tutto questo è vero, allora ne consegue che tali reazioni emotive siano il viatico alla solidarietà verso coloro per i quali si prova delle emozioni positive (sé stessi per gli egoisti e i narcisisti) e al fastidio verso la parte in causa verso la quale si prova delle emozioni negative – oppure nessuna emozione. E quindi qui nasce il conflitto tra chi solidarizza per alcuni e chi solidarizza per altri.
L’errore, qui, è pensarsi il Bene – tale perché sarebbe dimostrabile come tale attraverso un ragionamento logico ripetibile da qualsiasi coscienza normale – che si trova a combattere contro il Male – tale perché portatore di istanze ignobili, e ignobili non tanto eticamente, ma perché irrazionali, illogiche, dedotte da fatti non dimostrati, o indimostrabili, o magari completamente inventati. Invece, entrambe le parti seguono solo il loro istinto, istinto che li spinge a provare solidarietà verso una parte di mondo e non, oppure meno, per l’altra.
In terzo luogo, il vero problema però è che la sezione di mondo verso cui una persona solidarizza diventa ipso facto la prova della sua superiorità morale, nel senso che ognuno è convinto che solo le persone dotate di una superiorità morale solidarizzano verso quella sezione di mondo e non verso altre. Quando invece si tratta solo del risultato di meccanismi su cui non si ha alcun vero controllo.
Dunque, non esistono persone buone o cattive, altruiste o egoiste, compassionevoli o impietose: ognuno è un impasto di queste caratteristiche le quali alternativamente emergono quando ci si trova gettati in una situazione dove si ha di fronte quella sezione di mondo corrispondente. Chi si indigna per A e B contro chi si indigna per C e D. Tutti e due convinti di essere superiore all’altro perché la propria indignazione è fondata sulla ragione mentre quella del nemico no. Tutti e due beatamente ignari di essere semplicemente dei pupazzi agitati da un burattinaio, ovvero l’istinto. Tutti e due assolutamente dimentichi del fatto che i loro bei ragionamenti razionali si basano su una sorgente irrazionale.
Epilogo
Sono consapevole del fatto che questo breve scritto faccia emergere più problemi di quanti ne risolva. Per esempio, rimane completamente aperta la questione di come e in che misura la società possa determinare una reazione emotiva innata finché si vuole ma allo stesso tempo malleabile di fronte all’ambiente. Rimane altresì aperto di come considerare le opinioni razionalmente fondate rispetto a quelle che non lo sono.
Tuttavia, ritengo innegabile che prendere coscienza dell’unità soggiacente alle opinioni e alle azioni, anche politiche, potrebbe, forse, far capire che i conflitti tra esseri umani sono appunto tali, e non conflitti tra il Bene e il Male. Potrebbe cioè aprire nel migliore dei casi a una vera democrazia e, quanto meno e molto più realisticamente, a una guerra dove venga osservata almeno la parvenza di un diritto e non a una guerra verso un nemico disumanizzato che vede, a seconda del grado di disumanizzazione dell’avversario, come fine ultimo l’assorbimento o la distruzione.
Ma anche così, non si sfuggirebbe alla regola base: anche chi caldeggiasse questa soluzione non lo farebbe perché illuminato da chissà quale verità, ma semplicemente perché il suo istinto lo porta a evitare il conflitto e preferire soluzioni meno brutali. Tuttavia, c’è anche da dire che portare lo scontro su un terreno di verità come processo svolto da parti contrapposte in un regime di collaborazione – quanto meno con gli elementi meno estremisti di una parte e dell’altra – e non su un terreno di fatti esibiti come verità – ritenuti veri da chi, poi? – e sguainati come spade, a me ricorda molto una definizione: quella di intelligenza sociale.
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