Vani sono stati anche i tentativi di limitare l’invadenza politica dei militari, che gestiscono come un feudo personale il 25% dei seggi del Parlamento. L’ora del giudizio è scattata con le elezioni politiche del novembre scorso, vinte a valanga (80% dei consensi) dalla Lega nazionale per la democrazia guidata dalla Premio Nobel. Un risultato così netto da spalancare le porte alle riforme che avrebbero potuto mettere le briglie alle ambizioni e agli interessi dei generali. Questi hanno reagito denunciando oltre diecimila casi di brogli elettorali e arrestando o sottomettendo tutti gli esponenti del potere civile.
Si dice anche che Ming Aung Hlaing, il capo delle forze armate del Myanmar, abbia agito ora perché vicino alla scadenza del suo mandato quinquennale di comandante in capo. Questo però attiene alle ambizioni personali. È chiaro invece che il vero motore del colpo di Stato è il timore del cambiamento, di uno scossone che avrebbe potuto rovesciare radicatissime rendite di posizione. Dove il termine rendita vuol dire anche tanti tanti soldi, per esempio, ma è solo l’ultimo caso, con l’acquisto e la distribuzione dei vaccini anti-Covid.
Ci si interroga, anche, sulle possibili interferenze esterne. Si sospetta la lunga mano della Cina, che nei tre porti birmani di Akyab, Cheduba e Bassein vorrebbe incastonare alcuni «gioielli» di quella catena di avamposti anche militari, detta Filo di Perle, che le consentirebbe il controllo di mari decisivi per i commerci mondiali e un’autostrada acquatica per i suoi rapporti con l’Asia e l’Occidente. Un capitolo importante della sfida con gli Stati Uniti per la supremazia economica globale, in cui una leader sicuramente filo-occidentale come Aung San Suu Kyi avrebbe potuto giocare un ruolo non graditissimo a Pechino. E non è sfuggita, per analoghe ragioni di competitività globale, la visita che Sergej Shoigu, ministro della Difesa della Russia, ha compiuto in Myanmar una decina di giorni fa, ricevuto con grandi onori proprio da quel generale Ming Aung Hlaing che oggi è più che mai l’uomo forte del Paese. Per contro, gli Usa e l’Europa hanno condannato il colpo di Stato ma sono sembrati sorpresi e inerti, complice forse quella certa delusione nei confronti di Aung Saan Suu Kyi che, come dicevamo, era emersa negli anni scorsi.
È tutto plausibile, nel mondo della competizione strategica e delle infinite connessioni. Resta però il fatto, decisivo, che i militari birmani non hanno mai davvero accettato le regole della democrazia parlamentare e, men che meno, ipotizzato di sopportare un ruolo subordinato al potere politico. È come se in Myanmar, in questi ultimi dieci anni, avessero provato a convivere due diversi poteri: quello dei politici e quello dei soldati. E, peggio ancora, due diversi sistemi: quello della democrazia elettiva, della competizione per il consenso, e quello della casta, garantita per diritto d’origine. Due fette di una mela tenute insieme dalla necessità e dalla convenienza ma che mal si sopportavano. Non poteva durare. E quando l’equilibrio si è spezzato, chi aveva il fucile purtroppo ha avuto ragione.
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