L’età delle macchine
di La Fionda (Francesco Prandel)
Quanti uomini vivono oggi in stato di schiavitù rispetto alle macchine? Quanti trascorrono l’intera vita, dalla culla alla morte, a curare notte e giorno le macchine? Pensate al numero sempre crescente di uomini che esse hanno reso schiavi, o che si dedicano anima e corpo al progresso del regno meccanico: non è evidente che le macchine stanno prendendo il sopravvento su di noi?
SAMUEL BUTLER (1835-1902)
I mulini a vento, e quelli azionati dall’acqua, risalgono almeno al terzo millennio avanti Cristo. Ma fu a partire dalla rivoluzione industriale che gli uomini cominciarono a convivere con le macchine. Nel secolo scorso, in particolare durante le due guerre mondiali e nel corso della guerra fredda, questo processo di meccanizzazione ha conosciuto un’accelerazione e un’intensificazione tali che, ai giorni nostri, il rapporto uomo-macchina è divenuto pressoché simbiotico. In particolare la cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, quella che a partire dagli anni ‘70 ha sviluppato l’elettronica, le telecomunicazioni e l’informatica, ha reso disponibili macchine il cui impiego va ben oltre il soddisfacimento dei fabbisogni materiali, o il trasporto di cose e persone.
La diffusione capillare dei computer e dei telefoni cellulari, ma ancor più quell’informatizzazione totalizzante del nostro vivere dissimulata dal termine digitalizzazione, ha profondamente trasformato il nostro modo di pensare e di comunicare. «Il mezzo è il messaggio» profetizzava Marshall McLuhan già negli anni ’60. Pare non sia servito a molto se, in tempi più recenti, Umberto Galimberti si è preso la briga di ricordarci che «è necessario far piazza pulita di tutti quei luoghi comuni, per non dire idee arretrate, che fanno da tacita guida a quasi tutte le riflessioni sui media, e in particolare di quella persuasione secondo la quale l’uomo può usare le tecniche comunicative come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, senza neppure il sospetto che la natura umana possa modificarsi proprio in base alle modalità con cui si declina tecnicamente nella comunicazione».
Se con Martin Heidegger occorre riconoscere che «il linguaggio parla», i termini tipicamente meccanici che con grande disinvoltura – e non senza un certo compiacimento – utilizziamo per riferirci ai nostri simili e al loro vivere, danno la misura di quanto le macchine ci abbiano plasmati a loro immagine e somiglianza. Ci basti pensare a parole come rendimento o efficienza, che la termodinamica ha fatto proprie per esprimere le prestazioni delle macchine termiche, e che noi adoperiamo con tutta naturalezza per riferirci alle prestazioni (!) di uno scolaro o di una segretaria. O, meglio, alla loro performance, come vuole la neolingua di orwelliana memoria, il latinorum della rivoluzione industriale, dell’imperialismo e dell’informatica.
Per non parlare del termine resilienza che, sulla bocca dei nostri lumi, ha recentemente conosciuto un riscatto a dir poco singolare: da termine che esprime la resistenza all’urto dei materiali, l’uomo del XXI secolo ha elevato il suo significato ad un rango ben più nobile, dall’alto del quale può ora esprimere la resistenza dell’uomo a quelle forme di usura, note come stress e alienazione, in buona parte riconducibili proprio alla nostra frequentazione sempre più assidua del «regno meccanico».
Se al telefono una voce registrata ci informa che «tutti gli operatori sono momentaneamente occupati», non dovremmo domandarci perché mai delle persone vengano qualificate come operatori? Se non lo facciamo, se la cosa ci pare del tutto naturale, se non ci vediamo nient’altro che un mero costume lessicale, abbiamo le carte in regola: siamo a tutti gli effetti uomini dell’età delle macchine. Quando l’ufficio del personale diventa l’ufficio delle risorse umane, non dovrebbe assalirci il dubbio atroce che l’uomo non sia più il fine, ma una materia prima – se non un mero mezzo – per ottenerlo? Se non rimaniamo perplessi a fronte di queste tendenze linguistiche, e all’indirizzo logico che sottendono, non è forse perché la convivenza con le macchine ha profondamente cambiato la nostra percezione di noi stessi e dei nostri simili? A ben vedere, la cosa non può destare alcuna meraviglia. Sulla scorta del motto «dimmi chi frequenti e ti dirò chi sei», o del detto «a stare con i lupi si impara ad ululare», solo un ingenuo potrebbe pensare che due secoli di convivenza con le macchine non ci abbiano cambiati nel profondo: la nostra capacità di adattamento è formidabile, nel bene e nel male.
La proliferazione incontrollabile dei protocolli, delle procedure, dei programmi, delle istruzioni, delle griglie, dei descrittori, degli indicatori, di tutti quei controlli che serrano i ranghi e restringono gli umani orizzonti, sono altrettanti segnali che stiamo progressivamente assimilando le macchine.
La metamorfosi in atto si lascia avvertire non solo nella crescente meccanizzazione del nostro linguaggio, del nostro pensiero e delle nostre relazioni, ma anche nei valori – o coefficienti sociali – che abbiamo adottato. Quale è il valore che viene riconosciuto all’uomo nell’età delle macchine? Non è forse la produttività? E che cos’è la produttività se non la prerogativa assoluta delle macchine?
Quando il premio produttività è un riconoscimento professionale che a stretto giro diventa sociale, quando l’uomo comincia a misurare lo spessore e la statura dei propri simili sulla base di parametri squisitamente meccanici, l’età delle macchine non evoca alcuno scenario distopico: è il nostro tempo.
Per cogliere appieno la portata della mutazione antropologica in corso occorre tuttavia rilevare che, per quanto meccanizzati, il linguaggio, il pensiero, le relazioni e i valori rimangono (almeno per ora) dei tratti genuinamente umani. L’assimilazione dall’uomo alla macchina si perfeziona nella misura in cui il primo fa proprio il carattere più peculiare della seconda. Secondo Douglas R. Hofstadter, «è una proprietà inerente all’intelligenza quella di saper uscire dal compito che sta svolgendo per osservare ciò che ha fatto. […] Fino a che punto si è insegnato ai calcolatori a uscire dal sistema? […] Se si pensa a “il sistema” come a “qualunque cosa il calcolatore debba fare in base al programma”, allora non c’è dubbio che il calcolatore non mostra la benché minima capacità di uscire dal sistema».
È del tutto evidente che l’uomo del XXI secolo sta rapidamente perdendo la capacità di «uscire dal compito che sta svolgendo per osservare ciò che ha fatto», che «non mostra la benché minima capacità di uscire dal sistema», anche se i dati disponibili indicano chiaramente che dovrebbe farlo, e in fretta. La mega-macchina che ha messo in moto corre come il Titanic verso un iceberg avvistato da tempo, ma il suo timone è troppo piccolo se commisurato alla stazza iperbolica e alla velocità del bastimento, e i musicanti sul ponte continuano ad intrattenerci. Dal canto suo la politica, che ha perso la visione angolare e ridotto l’orizzonte temporale della decisione, non può correre ai ripari: in queste condizioni non le resta che navigare a vista tra le secche dell’opinione pubblica e gli scogli dei mercati finanziari.
«Forse questo ti sembrerà strano, ma la ragione ti ha un po’ preso la mano, ed ora sei quasi convinto che non può esistere un’isola che non c’è» cantava Edoardo Bennato: l’esistente esaurisce il possibile. Qualcuno sosteneva che le utopie sono come le stelle per i naviganti: nessuno pensa di raggiungerle, ma indicano la direzione, permettono di mantenere la rotta. La progressiva scomparsa delle utopie è forse il sintomo più evidente di una convivenza uomo-macchina che sta smorzando il fattore umano. Non è necessario convocare Don Chisciotte, né è il caso di appiccare improbabili focolai neo-luddisti. Potrebbe essere più utile, prima che le macchine ci riducano ad un branco di androidi neoprimitivi, prendere qualche distanza e guardarsi un po’ le spalle. Tanto per essere concreti, potremmo cominciare col risparmiarci la prossima diavoleria che il «progresso del regno meccanico» metterà in vetrina. Potremmo cominciare col dire «No grazie, può bastare così».
Zi-Gong, dopo essersi recato nel principato di Chu, tornava verso quello di Jin. Passando a sud del fiume Han, vide un vecchio intento a lavorare il suo orto. Quell’uomo scendeva lungo un tunnel fino al pozzo, ne usciva con la giara colma d’acqua e la vuotava nel canaletto delle sue aiuole. Lavoro faticoso e di scarso risultato. Zi-Gong gli disse: “Se aveste una macchina che riuscisse a irrigare cento aiuole al giorno, non vorreste servirvene?” “Come è fatta?” chiese il giardiniere levando lo sguardo su Zi-Gong. “È una macchina di legno cavo, pesante dietro e leggera davanti, con la quale si tira l’acqua come si potrebbe fare con la mano, ma così velocemente che l’acqua trabocca ribollendo dal secchio: questa macchina si chiama pozzo a bilanciere”.
Il giardiniere si adirò, cambiò colore e con scherno disse: “Ho imparato questo dal mio maestro: chi si serve di macchine, usa dei meccanismi e il suo spirito si meccanizza. Chi ha lo spirito meccanizzato non possiede più la purezza dell’innocenza e perde la pace dell’anima. Non ignoro i pregi di questa macchina, ma avrei vergogna a servirmene”.
Zhuang Zhou, Zhuang-Zi
Fonte: https://www.lafionda.org/2021/02/14/leta-delle-macchine/
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