Il nulla con l’Oscar intorno
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessandro Fiesoli)
Come da copione, agli Oscar trionfa “Nomadland”, cioè il cinema delle pezze al sedere. Ecco perché è un film insulso, poco originale, con tanti tramonti sul deserto
A colpi di macchina a mano e inquadrature sbilenche, il cinema del “già detto già visto già odorato”, come lo ha definito Goffredo Fofi anni fa, s’è preso Hollywood nell’anno più mesto che si ricordi: Nomadland vince l’Oscar e pure il Golpe d’oro della settimana, precedendo Agnelli e il suo pallone indebitato. Non che la concorrenza fosse particolarmente agguerrita, o che il premio debba sempre corrispondere a un marchio di qualità, ma nell’attesa dei caroselli americani, la furbetta Chloe Zhao, con questo suo cinema delle pezze al sedere, si era già portata a casa anche il Leone d’oro, propiziatore dell’effettiva riuscita del putsch dei pedinatori di poveri cristi.
Colpa nostra, sia chiaro, che a pensare al cinema dei dimenticati da Dio, fino a ieri, ci venivano in mente gli attacchini in cerca di bicicletta; le mondine di De Santis e le carovane di chi andava a raccattare la frutta in California, denunciando illusioni e condizioni di lavoro bestiali; oppure i gangster venuti dal nulla e morti nel tutto; i corrieri di Ken Loach, e ancora i cavalli frustati sotto gli occhi di Nietzsche e i disgraziati da realismo poetico francese. Troppa contingenza, venature sociali, riflessioni storiche e intrattenimento puro per l’approssimazione crucciata di Nomadland e compagnia, ben più attenti a inquadrare i tramonti nel deserto, come ha sottolineato Mereghetti dopo la proiezione veneziana del film di Zhao, piuttosto che indagare cause, effetti o risvolti anche simbolici di ciò che mostrano, in questo caso il nomadismo di una donna in cerca di lavoro in giro per l’America profonda, dopo che la chiusura di una miniera ha reso la propria cittadina un villaggio fantasma.
«I film indipendenti sono sempre più brutti, sono dei telefilm più leccati (perfino dei possibili “piloti”) oppure insulse sitcom o insulsi melodrammetti con personaggini moderatamente bizzarri in ambienti moderatamente insoliti che tentano di rendere insolito l’ovvio e il banale, o insulsi inseguimenti di una letteratura stantia o, come da noi, denunce di storture varie, individuali o istituzionali. Già detto già visto già odorato. Noia».
Goffredo Fofi, Spettacolo, cultura, merce nel cinema hollywoodiano contemporaneo
Lee Isaac Chung deve aver letto l’invettiva di Fofi e, per dispetto, pensato a Minari (altro film protagonista degli Oscar 2021) per fargli avvelenare il sangue, ma se la descrizione del critico si avvicina più al film del coreano che a quello di Chloe Zhao, l’impressione è che sia solo questione di tempistiche: l’approccio indie di Minari è roba vecchia di quasi trent’anni, mentre Nomadland è l’apice di una tendenza emersa forse più recentemente, che si guarda bene tanto dal denunciare le “storture varie” quanto da spingere troppo su un tono che possa identificare il film in termini di genere o di tematizzazione. Siamo allora dalle parti di una moda della non-trama che si rifà a una certa tradizione europea, incentrata spesso sul mondo interiore e il pessimismo dei suoi protagonisti – e fin qui nulla di nuovo e nulla di male – senza però averne la profondità di pensiero o le velleità di messa in scena, esattamente come accadeva nel film precedente della regista, The Rider (2017). Né cinema di message, né cinema di escape, insomma, piuttosto bozzetti di narrazione azzerata, riempiti di chiacchiere e pianoforti melensi, ed ecco tornare quella “letteratura stantia” citata da Fofi, qui spesso mescolata a quel senso di presa diretta per cui nessuna scena inizia, si sviluppa e si chiude mai realmente.
Che manchi il messaggio, a dire il vero, parrebbe quasi un bene, almeno a giudicare da quei pochi significati impliciti reperibili: la protagonista, come detto, vaga di lavoretto in lavoretto col suo van ribattezzato “Avanguardia” (e così fare la fame assume tutto un altro fascino) senza mai un cenno, anche sgangherato o fuori fuoco, alle condizioni di lavoro alle quali è costretta o ai motivi che l’hanno portata al nomadismo, relegati a didascalia sui titoli di testa. Ma l’assenza più pesante è forse quella tensione verso il riscatto che in genere segna il racconto sulla povertà, con Parasite che in tema di Oscar poteva fare scuola, tanto in termini di forma (il discorso sullo spazio simbolico alto vs basso) quanto sul piano del contenuto. Va a finire, invece, che da Amazon, lei e i suoi colleghi, ci lavorano piuttosto volentieri, e che la scelta del secchio in cui espletare i propri bisogni fisiologici diventa spunto per una gag successiva con tanto di effetto comico sonoro. La povertà è quindi condizione data, come ha scritto Grosoli nel suo commento, piovuta dal cielo o emersa da sottoterra come la prima guerra nella percezione dei soldati al fronte, dunque tanto vale farsela piacere e godersi altri tramonti, altre festicciole e altri incontri fugaci, resi poetici nelle intenzioni della regista dalle facce truci dei vecchi sdentati o dai banjo suonati da certi giovani nei parcheggi deserti. All’appello degli ingredienti ruffiani non manca certo la questione della malattia – peraltro, vai a sapere il motivo, sempre affrontata con distacco e disincanto – presente nel passato della protagonista (ha perso il marito) e nel presente della sua nuova migliore amica, che già ipotizza l’eutanasia con la freddezza di chi parla dei malanni altrui.
Né messaggio, né intrattenimento – sia mai – né ricerca stilistica, come si diceva. Nel cinema delle pezze al sedere, infatti, la manipolazione testuale pare vietata, così la macchina a mano diventa l’unico strumento utile a ribadire il senso di improvvisazione e di mimetismo in tono col contenuto, long take alternati in questo caso a qualche campo lungo al quale lo spazio si presta particolarmente bene. Nulla di nuovo, se non che la costante presenza di Frances McDormand sembri troppo spesso uno strumento per ribadire che la verbosità di certi momenti sia comunque da ricondurre a un film di finzione e non a delle interviste col controcampo del reporter. È lei stessa a sottolineare al Corriere della sera l’importanza del lavoro mimetico svolto prima e durante le riprese, al limite tra fiction e factual televisivo:
«A un certo punto sono andata a cercare lavoro, ho riempito il modulo, consegnato e nessuno mi ha riconosciuto. Abbiano capito che il gioco funzionava. Nei panni di Fern ho lavorato in un centro Amazon, a raccogliere barbabietole, in un bar, in un parco nazionale. Nella maggior parte dei casi nessuno mi notava […] ho cercato di raccontare la loro storia, non la mia […] Un fenomeno americano che sta diventando gigantesco. Frutto della disparità tra chi ha e chi non ha, peggiorato dal lockdown. Ma anche frutto di un bisogno di libertà e comunità. Di gente che crede ancora nel sogno americano. Che non si misura solo in termini economici».
Capito? Va bene la disparità economica, ma sotto sotto vivere in un van a sessant’anni è anche il “frutto di un bisogno di libertà” messo in scena in due ore di stasi, pedinamento e micro eventi autoconclusivi. Alla luce del The Rider già evocato, allora, si direbbe che il cinema di Zhao voglia estremizzare il filone rurale e minimalista in stile Debra Granik o Kelly Reichardt, riducendo all’osso una narrazione già piuttosto scarna e privandola di qualsiasi conflitto tra personaggi e ambiente, sempre presente invece nei lavori delle due ottime colleghe. Cosa resta di cinematografico, quindi? Il nulla con l’Oscar intorno, e con la regista già alla guida di un cinecomic Marvel incentrato su degli antichi alieni che vivono sulla Terra in segreto da migliaia di anni. Il golpe è quindi compiuto, il cinema finto straccione al potere, due ore e quaranta di supereroi e alieni crucciati ma non troppo, depressi quanto basta, poveri ma liberi. Sarà un successo.
Fermi tutti. Minuto ottanta circa di Nomadland, un segno di vita: il pianoforte melenso interrotto dal rumore della portiera del van che si chiude. Quando si dice l’originalità.
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/cinema/nomadland-oscar/
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