da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Emanuel Pietrobon)
Gli ottomani hanno fatto (nuovamente) ingresso nel continente nero, dove hanno costruito e/o stanno costruendo avamposti dai porti arabi contermini al Mediterraneo al Sahel e dalle terre insanguinate del corno d’Africa al Capo di Buona Speranza, e ivi sono giunti con un obiettivo preciso: restare e, possibilmente, prosperare ed espandersi a spese altrui, o meglio a spese di potenze logore, sfibrate e senili come Italia e Portogallo.
Relativamente poche le nazioni dell’Africa subsahariana che non sono state interessate dal nuovo pivot geostrategico dell’agenda estera della presidenza Erdogan, che, studiata meticolosamente e implementata con altrettanta cura, ha permesso alla Turchia di fare ingresso in quell’area ad accesso limitato nota come Françafrique, di sbarcare nell’estremo capo meridionale del continente, cioè il Sudafrica, di allargarsi nello spazio ex coloniale portoghese, di subentrare all’Italia tra Libia e Somalia e di posare lo sguardo sull’Atlantico via Sahel e Africa occidentale.
La presenza turca tra Sahel e Africa di ponente
Il paragrafo occidentale dell’Africa è uno dei perni dell’agenda estera della Turchia per il continente nero. L’obiettivo, dal Sahara al Sahel, è quello di costruire una rete capillare di alleanze informali e partenariati strategici funzionali all’ottenimento di spazi di manovra laddove possibile, ossia ovunque le piccole, medie e grandi potenze occidentali, dalla Francia al Portogallo, abbiano lasciato dei vuoti potenzialmente colmabili.
Le ragioni di Ankara sono legate al fatto che mentre il corno d’Africa è la porta d’ingresso al continente, l’Africa occidentale è la porta che dà sull’Atlantico, sogno recondito di ogni sultano dell’impero ottomano, mentre il Sahel è un punteruolo utilizzabile in chiave antieuropea. In questo contesto si lega il progressivo riorientamento dell’ago della bussola dell’agenda africana dell’AKP da levante a ponente, come mostrano e dimostrano i tour dell’anno scorso di Recep Tayyip Erdogan, in visita in Gambia e Senegal, e di Mevlut Cavusoglu, sbarcato in Togo, Niger e Guinea Equatoriale.
Dal 2017 ad oggi, il governo turco ha organizzato visite di lavoro nei teatri più geostrategicamente e politicamente rilevanti dell’Africa occidentale, come Ciad, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea Equatoriale, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Togo, ivi focalizzando l’agenda dell’inaugurazione di ambasciate – cresciute da 12 a 42 fra il 2002 e il 2019; tra le ultime quelle di Lomé e Malabo – e la finalizzazione di accordi di cooperazione in materia di sicurezza – più di 35 nell’intero continente, gran parte dei quali siglati con stati-chiave della regione, tra i quali Benin, Ciad, Costa d’Avorio, Mauritania, Niger e Nigeria.
L’erogazione di servizi attinenti alla sicurezza, spazianti dall’antiterrorismo all’intelligence e dalla formazione dei quadri militari al finanziamento del G5 Sahel, è affiancata e accompagnata dall’impiego di instrumenta regni la cui efficacia è stata già collaudata con successo nello spazio ex ottomano, ovvero religione, cultura, intrattenimento, istruzione, infrastrutture, commercio, investimenti e cooperazione allo sviluppo.
La Turchia ha ottenuto una parte significativa dell’attuale influenza grazie alla TIKA (Turkish Cooperation and Coordination Agency), che ha fatto breccia nelle terre dell’Africa occidentale più afflitte dalla scarsità idrica, come Senegal, Ciad e Niger, costruendo gratuitamente pozzi e sistemi di depurazione dell’acqua, prestando a prezzi modici le proprie ditte edili in maxi-cantieri come il Palazzo dello sport di Dakar e stabilendo consigli per gli affari aventi il duplice obiettivo di incrementare gli scambi commerciali e gli investimenti diretti turchi in entrata in questa parte di continente.
Il Senegal è uno dei casi studio più emblematici: ex colonia francese, che continua ad avere nella Francia il principale investitore straniero, nell’ultimo decennio ha aumentato l’interscambio commerciale con la Turchia di sedici volte, la quale ha qui costruito, tra le altre cose, un aeroporto internazionale e un maxi-stadio, ed è attualmente coinvolta nella realizzazione di ventinove progetti del valore di 775 milioni di dollari.
Un ruolo pivotale, TIKA, investitori e grandi privati a parte, sta venendo giocato dalla compagnia SADAT – che ivi ha concluso accordi con Ciad e Costa d’Avorio –, dalla Fondazione Maarif – che ha uffici, scuole e uffici di rappresentanza nei Paesi più importanti dell’area, come Ciad, Gambia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal e Sierra Leone –, dalla Croce Rossa Turca, dal Direttorato degli Affari religiosi (Diyanet) e dalla Federazione turca delle associazioni umanitarie.
Nei mesi scorsi il capo dell’Eliseo, Emmanuel Macron, aveva fatto scalpore accusando la Turchia di essere dietro alla diffusione di sentimenti francofobi in una parte crescente di Sahel e Africa occidentale, che starebbe alimentando facendo leva sul “risentimento postcoloniale”. Moschee, centri culturali e informazione sarebbero i mezzi impiegati da Ankara per inculcare nelle popolazioni sahariane e subsahariane pregiudizi e sentimenti di odio strumentalizzabili a detrimento di Parigi, e il semplice fatto che ciò stia avvenendo, e che sia stato dato in pasto alla stampa da Macron, dovrebbe aiutare anche i meno esperti ad avere un’idea del cambio di paradigma in corso.
La Françafrique non è mai stata così poco francese, e il merito, oltre dell’entrata in scena della Cina e del ritorno della Russia, è anche e soprattutto di quel giocatore sul quale nessuno aveva scommesso: la Turchia. I rischi di una turchizzazione di Sahel e Africa di ponente sono estremamente elevati: è da qui, invero, che parte la stragrande maggioranza delle carovane di migranti economici, profughi climatici e rifugiati che, attraversando il deserto del Sahara e giungendo in Libia, cercano infine di approdare in Europa. Ma è anche qui, inoltre, che negli anni recenti si è assistito ad un crescendo di instabilità e violenze dovuto all’espansione di islam radicale e terrorismo jihadista.
Scritto e spiegato altrimenti, possedere le chiavi di Sahel e Africa occidentale equivale a controllare i flussi migratori in direzione dell’Europa, da qui i timori dell’Eliseo concernenti l’espansione di Ankara; timori che dovremmo fare nostri, proponendo ai cugini d’Oltralpe di formulare una strategia di contenimento antiturco da portare avanti congiuntamente, perché la storia recente ha dimostrato che il Bel Paese è la porta d’accesso all’Europa prediletta dai trafficanti di esseri umani.
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