12 dicembre 1969. Strage di Piazza Fontana, "la madre di tutte le stragi". Un capitolo (forse nemmeno il primo) dell'Operazione Chaos (nome in codice del piano CIA elaborato nel 1963 ed avallato dall'amministrazione del presidente democratico USA, Johnson, vice e subentrante di Kennedy assassinato): direzione strategica atlantica, cioè americana, e ruolo operativo della manovalanza neofascista. L'Operazione Chaos prevedeva una vasta opera di destabilizzazione, centralmente comprensiva anche di stragi indiscriminate, in alcuni paesi alleati/subalterni considerati deboli, per creare caos, diffondere insicurezza, favorire una sterzata a destra, quindi alzare il livello di repressione contro le lotte sociali e politiche, scompaginare l'estrema sinistra, diminuire il consenso popolare verso i partiti antiamericani (guerra Vietnam in corso). Insomma, destabilizzare in apparenza per stabilizzare in sostanza. Nella fattispecie di questa strage, a fungere da cinghia di trasmissione tra committenza e manovalanza, ci sono, oltre ad agenti della CIA, figure significative ed apparati di Stato di questo paese, dal presidente della Repubblica di allora a esponenti di governo, dai servizi segreti a magistrati, eccetera.
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Abbiamo ricostruito il quadro da cui discendono gli attentati del 1969 e lo abbiamo collocato come dato di fatto prima di passare ad analizzare gli attentati, per renderli più intelligibili e per organizzare con un minimo di chiarezza una situazione molto complessa e ingarbugliata. Il lettore sappia però che nel libro di Cucchiarelli questo quadro giunge alla fine, dopo dettagliate documentazioni ed argomentazioni che lo provano, ed alle quali rimandiamo.
Il presidente della Repubblica Saragat, il capo del governo Rumor, il segretario della DC Piccoli, il capo della destra democristiana Andreotti, hanno già all'inizio del 1969 qualche informazione sull'impulso che da Washington è giunto ai gruppi eversivi neofascisti italiani legati alla Grecia dei colonnelli perché compiano provocazioni violente. Non si oppongono affatto alla deriva violenta che immaginano abbia tra breve inizio, e Saragat addirittura la sollecita da Nixon, quando questi viene in visita ufficiale a Roma nel febbraio 1969, come unico mezzo per scongiurare le lotte sociali, e l'avvento di una maggioranza governativa democristiano–social–comunista, attraverso una netta svolta politica. Egli, e gli uomini della destra democristiana, sono infatti sicuri che, grazie al legame positivo instaurato con Nixon, impediranno facilmente ai gruppi eversivi neofascisti di prendere il sopravvento ed arrivare ad instaurare una dittatura di tipo greco, e li lasceranno confinati in un lavoro sporco puramente esecutivo, che potranno utilizzare per instaurare loro stessi un governo autoritario e repressivo, ma senza spargimento di sangue ed entro un quadro ancora formalmente parlamentare e pluripartitico.
L'eversione neofascista comincia a muoversi secondo un piano preciso a partire dalla riunione, documentata da diverse risultanze processuali, tenuta a Padova la sera di venerdì 18 aprile 1969. Si tratta della riunione segreta delle cellule venete di Ordine Nuovo, che fanno capo al medico veneziano Carlo Maria Maggi. Ad essa partecipano anche Guido Giannettini, informatore del SID (il nome, all'epoca, del servizio segreto militare italiano), un inviato dei colonnelli greci e due capi neofascisti venuti da Roma. Chi fossero costoro non è mai stato chiarito. Un rapporto dei colonnelli greci parlava di un «signor P», che alcuni hanno ipotizzato essere il capo di Ordine Nuovo Pino Rauti, altri il dirigente pacciardiano Picone Chiodo, altri ancora il dirigente di Avanguardia Nazionale Guido Paglia. L'altro capo neofascista venuto da Roma pare essere stato l'amico di Umberto Federico D'Amato, il capo dell'Ufficio affari riservati del ministero degli interni, cioè Stefano Delle Chiaie, ma neanche questo è del tutto certo.
Ad ogni modo, in quella riunione padovana della sera del 18 aprile 1969 viene impostata la strategia cosiddetta della «seconda linea»: dato che esistevano gruppi anarchici spontaneamente motivati a far esplodere qua e là per l'Italia bombe dimostrative, con valenza simbolica antiborghese ed antiaffaristica, i neofascisti vi si sarebbero infiltrati per far esplodere le bombe in maniera non dimostrativa ma stragista, e per farle attribuire non soltanto a isolati gruppetti anarchici, ma all'organizzazione dell'editore Giangiacomo Feltrinelli. Questi, amico di Fidel Castro e legato a diverse forze rivoluzionarie nel mondo, si era convinto, dopo il golpe dei colonnelli in Grecia, che in Italia si fossero messi in movimento centri eversivi decisi a imitarlo, o a provocare quanto meno una profonda svolta autoritaria. Egli aveva quindi cominciato ad autorizzare le sue risorse finanziarie di editore plurimiliardario per predisporre una resistenza armata guerrigliera al golpe ritenuto prossimo, e tramite questo suo impegno era diventato un punto di riferimento organizzativo e politico per le azioni di gran parte della nuova sinistra italiana e non solo. Scatenando attentati stragisti, e congegnandoli in modo da farli attribuire a Feltrinelli per il tramite di gruppi anarchici in contatto con lui, Ordine Nuovo avrebbe raggiunto molteplici risultati: avrebbe paralizzato, colpendo a morte l'organizzazione di Feltrinelli, ogni resistenza armata alla successiva azione golpista; avrebbe creato il contesto adatto per questa azione golpista diffondendo la paura per la sinistra extraparlamentare; avrebbe mantenuto le coperture nel mondo politico istituzionale, soddisfacendo le esigenze dei fautori della svolta autoritaria di vedere Feltrinelli in galera ed esposta alla repressione tutta l'area della sinistra extraparlamentare, ed anche quella ad essa incrociata della sinistra del PCI.
Così il 25 aprile 1969 vengono compiuti due importanti attentati a Milano, con due bombe, una all'ufficio cambi della Stazione centrale, che viene scoperta e disinnescata prima di esplodere, e l'altra allo stand della Fiat della Fiera Campionaria, che esplode e ferisce cinque persone. Così il 9 agosto 1969 otto bombe esplodono su altrettanti treni, facendo dodici feriti. Nella sentenza del 1981 del processo di Catanzaro i capi ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura sono stati condannati a quindici anni sia per gli attentati del 25 aprile a Milano che per quelli del 9 agosto ai treni. All'epoca dei fatti, però, tutti credettero che si trattasse di attentati anarchici.
Ordine Nuovo non ha però ancora raggiunto i suoi obiettivi. Gli attentati del 25 aprile alla Fiera campionaria e all'Ufficio cambi della Stazione centrale, a Milano, e quelli del 9 agosto su otto treni, sono stati bensì attribuiti agli anarchici, con diramazioni di sospetto verso Feltrinelli, proprio come voluto, ma non hanno suscitato l'auspicato terrore verso la sinistra extraparlamentare, soprattutto perché non hanno fatto morti, in parte per errori tecnici, in parte per puro caso. Inoltre, nonostante la scissione degli uomini di Saragat dal partito socialista, che ha rotto anche l'alleanza di centro-sinistra guidata da Rumor, e nonostante che questi abbia varato un governo monocolore democristiano alla cui presentazione in parlamento sono scoppiate le bombe sui treni per dargli il destro di proclamare lo stato d'emergenza, lo stato di emergenza non è stato proclamato, per la mancanza di un clima adatto nel paese.
Occorre dunque una esasperazione della strategia della tensione, per la quale il tempo stringe. Sul piano interno, infatti, il governo monocolore democristiano di Rumor dipende dall'appoggio parlamentare del PSI, che potrebbe farlo cadere e richiedere un'apertura al PCI. Sul piano internazionale, la SPD vince le elezioni politiche tedesche del settembre 1969, cosicché Willy Brandt diventa da ministro degli esteri cancelliere, e smantella definitivamente la rete Gehlen in Germania. Per quanto riguarda la Grecia dei colonnelli, essa comincia a subire un crescente isolamento, tanto che Danimarca e Svezia ne chiedono l'espulsione dal Consiglio d'Europa per violazione della sua Convenzione dei diritti dell'uomo del 1950.
La tensione viene fatta artificialmente salire durante tutto il mese di novembre del 1969. Mentre si sviluppano le lotte operaie per il rinnovo dei contratti, vengono distribuiti nelle maggiori città volantini di un sedicente «Comitato per la difesa pubblica» che accusano la sinistra extraparlamentare di seminare disordine da un capo all'altro dell'Italia e di spingere gli operai alla violenza, e quella parlamentare di non volervisi contrapporre, e che invocano quindi come necessaria una svolta autoritaria capace di ristabilire l'ordine. Il caso vuole poi che mercoledì 19 novembre, a Milano, mentre la polizia carica arbitrariamente una manifestazione dei lavoratori che hanno aderito alla sciopero per la casa indetto da quel giorno dai sindacati confederali, due sue camionette si scontrino in via Larga provocando la morte dell'agente Annaruma. Questo caso viene cinicamente sfruttato due giorni dopo, venerdì 21 novembre, quando i funerali dell'agente vengono trasformati, alla presenza del ministro degli interni Restivo, in un'accusa contro le manifestazioni della sinistra, come se Annaruma fosse stato ucciso da manifestanti, e non invece involontariamente dalla stessa polizia. Scende ad un livello vergognoso per un presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che celebra Annaruma deprecando i disordini provocati dalle manifestazioni politiche. In questo clima che tende a fare della sinistra extraparlamentare e delle stesse lotte operaie un capro espiatorio, i gruppi eversivi neofascisti preparano il peggio sentendosi ben coperti.
Arriva così il fatidico venerdì 12 dicembre 1969, giorno decisivo per la storia d'Italia. Sette bombe sono disseminate tra Roma e Milano. Tre a Roma: una alla Banca nazionale del Lavoro, una al museo del Risorgimento, ed una al pennone alzabandiera dell'Altare della Patria. Quattro a Milano: una ad una caserma dei carabinieri, una ad un grande magazzino di abbigliamento, una alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, una alla Banca commerciale. Una catena di stragi avrebbe dunque dovuto colpire banche, forze armate e consumismo, obiettivi tipici della contestazione della sinistra anticapitalistica e antiborghese, che sarebbe così apparsa di estrema pericolosità terroristica, giustificando la proclamazione di un'emergenza repressiva e la svolta autoritaria. In una piazza di Milano è collocata inoltre una cassetta metallica dentro la quale c'è un baratolo con un congegno per un timer, e sopra la quale c'è un manifesto nero di iconografia anarchica con la scritta «L'inizio di una lotta prolungata», simile a volantini custoditi dalla casa editrice Feltrinelli. La firma della sinistra extraparlamentare sotto le bombe, insomma, che avrebbe dovuto spaventare l'opinione pubblica.
Le cose vanno poi in maniera parzialmente diversa dal progetto. Invece che una catena di stragi, avviene una strage sola, anche se sufficiente, da sola, ad avere un impatto sconvolgente, la strage, cioè, di piazza Fontana. In questa piazza milanese vicina al Duomo, a cui è congiunta da via dell'Arcivescovado, c'è la banca Nazionale dell'Agricoltura, dove una potentissima bomba esplode alle ore 16,37 di quel venerdì 12 dicembre 1969 sotto il massiccio tavolo ortogonale del salone centrale. Dentro la banca si contano sedici morti. I feriti sono ottantanove, alcuni dei quali passanti del marciapiede antistante l'edificio.
Diciotto minuti dopo, in via San Basilio, a Roma, accanto a via Veneto, una bomba esplode alla banca Nazionale del Lavoro, provocando il crollo della parete del sottopasso che dall'esterno conduce ai saloni della clientela, presso cui è stata collocata, già in orario di chiusura al pubblico, e che assorbe gran parte della forza d'urto dell'esplosione. Ci sono perciò soltanto quattordici impiegati feriti, e nessun morto. All'esplosione della Banca Nazionale del Lavoro, che avviene alle ore 16,55, seguono a Roma altre due esplosioni, una alle 17,22 alla base del pennone alzabandiera dell'Altare della Patria, dove non c'è nessuno, ed una alle 17,30 sui gradini del contiguo Museo del Risorgimento, che ferisce un carabiniere avvicinatosi troppo ed una ragazza che passava in quel momento di là in automobile.
Le due bombe collocate, a Milano, rispettivamente in una caserma dei carabinieri ed in un grande magazzino, vengono ritirate da qualcuno e fatte scomparire prima che arrivino ad esplodere.
Rimane la settima bomba, quella collocata nella Banca commerciale in piazza della Scala, a Milano. Essa viene trovata inesplosa in una cassetta metallica identica a quella sovrastata dal manifesto apparentemente anarchico saltata fuori nella vicina piazza Cordusio. Nell'interno della borsa nera di fabbricazione tedesca contenente la cassetta con la bomba c'è un «7» timbrato con inchiostro blu, che vuole evidentemente indicare che la bomba è la settima del giorno delle stragi.
Il quadro complessivo dei fatti del 12 dicembre 1969 è, come si vede, estremamente frastagliato in sfaccettature diverse, che sembrano talvolta esigere spiegazioni contrastanti. Ciò nonostante il libro offre un'interpretazione precisa del quadro complessivo e di tutti i suoi aspetti particolari.
Un fatto apparso enigmatico quando è stato rivelato –non nel 1969, in cui era ignoto, ma all'apertura del processo a Valpreda nel 1972– è che la bomba collocata alla Banca commerciale è rimasta inesplosa non per un caso o un errore tecnico nella confezione del congegno, ma perché non era stata proprio innescata, vale a dire perché era stata collocata proprio con l'intenzione di non farla esplodere. Secondo il libro la bomba non doveva esplodere per non distruggere la borsa e la cassetta che la contenevano, la cui tipologia doveva rinviare agli ambienti anarchici, rendendo anche credibile il manifesto anarchico trovato in una cassetta simile, e nello stesso tempo occultare i più potenti dispositivi esplosivi, a cui gli anarchici non potrebbero aver avuto accesso, in quanto provenienti da depositi NATO, messi nelle altre banche. La stampigliatura del «7» doveva sottolineare che la bomba posta nella Banca commerciale non era che la settima della serie, per cui le altre sei dovevano corrispondere allo stesso modello.
Perché questo rinvio agli ambienti anarchici funzionasse occorreva però che alcuni anarchici fossero effettivamente coinvolti, con mezzi da loro effettivamente utilizzati, nella dinamica di tutti o di parte degli altri attentati.
La certezza che il libro vuole trasmettere è che in ogni attentato del 12 dicembre 1969 le bombe siano state due: una, a carica più debole e con l'idea di farla esplodere a scopo dimostrativo, attraverso un timer, in assenza di persone che potessero diventarne vittime, messa da qualche anarchico incoraggiato e fornito del mezzo da qualche neofascista travestito da anarchico; una seconda, molto più potente e destinata ad esplodere in tempo breve, attraverso una miccia, in modo da provocare una strage, collocata accanto alla prima, pochi minuti dopo, da qualche neofascista assassino.
La pluralità di stragi, a Milano ed a Roma, non c'è poi stata, secondo il libro, perché a Milano le bombe alla caserma dei carabinieri ed al grande magazzino sono state ritirate in tempo da anarchici resisi conto della spaventosa trappola loro tesa, e perché a Roma chi avrebbe dovuto mettere una prima bomba all'interno della Banca Nazionale del Lavoro non ha per qualche motivo potuto farlo, e l'ha lasciata nel sottopasso d'ingresso, e chi doveva metterne accanto un'altra ha dovuto lasciarla anche lui nel sottopasso. L'esplosione è stata poi di tremenda violenza, dando l'impressione che il palazzo si sollevasse, e facendo tremare, a distanza, tutta Via Veneto. Se il doppio ordigno fosse esploso all'interno della banca, sarebbe stata una strage simile e parallela a quella di Milano. Nel sottopasso dove avviene l'esplosione, invece, non c'è nessuno, perché la banca è stata chiusa al pubblico quasi mezz'ora prima, e tra il suo pur numeroso personale interno, protetto dal diaframma di una parete al di là della quale le due bombe deflagrano, non si registrano che quattordici feriti.
L'uomo che con tutta probabilità ha messo la bomba anarchica nel sottopasso della banca Nazionale del Lavoro è Mario Merlino, strettamente legato al capo neofascista Stefano Dalle Chiaie, e riciclatosi come anarchico. Benché fosse Dalle Chiaie a dare ad alcuni suoi seguaci indicazioni di presentarsi socialmente come anarchici, pare che Merlino abbia poi svolto il suo nuovo ruolo con crescente convinzione e non come mero infiltrato, che cioè il suo iniziale travestimento fosse diventato una sua identità. Così quando nel 1969 fonda il circolo anarchico 22 marzo insieme a Pietro Valpreda, sembra sinceramente amico di costui, e non uno che lo frequenti per spiarlo. Ciò nonostante conserva relazioni con l'ambiente eversivo neofascista, ed in particolare con Stefano Dalle Chiaie, sulla base della convinzione di un loro comune spirito rivoluzionario antiborghese, pur con diversa declinazione ideologica. È dunque stato facile per lui lasciarsi indirizzare a portare una bomba dimostrativa rivoluzionaria nella Banca Nazionale del Lavoro, di cui aveva oltretutto un'ottima conoscenza. Una seconda bomba, neofascista e più potente, vi è stata messa, secondo il libro, da uomini collegati a Dalle Chiaie, come Stefano Serpieri, capo del gruppo eversivo neofascista Europa civiltà, e Gianni Nardi, riconosciuto da un impiegato della banca rimasto ferito nell'esplosione come il giovane che si era allontanato dal sottopasso poco prima.
Secondo il libro, lo stesso Pietro Valpreda avrebbe effettivamente collocato, pensando di fare un gesto rivoluzionario senza spargimento di sangue, una bomba poco potente, destinata ai suoi occhi ad esplodere in un edificio vuoto, alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano. Vi si sarebbe recato effettivamente in taxi con il tassista Rolandi. Un suo sosia neofascista sarebbe andato egualmente in taxi a collocare, accanto alla sua, la bomba della strage, con le cose organizzate in modo da farlo sembrare responsabile della strage, e da far attribuire gli attentati, respingendo nell'ombra i neofascisti, ai soli anarchici e a Feltrinelli.
Fermiamoci. Non è troppo congetturale e fantasiosa questa ricostruzione? No. Chi legga il libro troverà in queste parti, che qui per la loro estensione non possiamo riassumere, supporti articolati a tutto ciò che è stato detto. L'autore non avanza alcuna tesi che non sia basata su precisi riscontri o su inferenze ricavate da contenuti di documenti o di testimonianze a lui rese.
Che nulla, nella ricostruzione dei fatti esecutivi del 12 dicembre 1969 data dal libro, sia campato in aria, non significa che tutto vi sia provato in maniera completamente convincente e completamente sicura. Rimangono a nostro avviso ancora dubbi e possibili obiezioni a che Valpreda sia andato a mettere una bomba alla banca arrivandovi con il taxi di Rolandi, che un suo sosia abbia messo un'altra bomba, che dappertutto vi siano state bombe anarchiche a timer raddoppiate con bombe neofasciste a miccia. Tutte cose che indizi e ragionamenti avanzati nel libro rivelano sicuramente possibili, ma non definitivamente certe. Su questo ed altri punti, del resto, ognuno può farsi la sua idea leggendo il libro.
Il segreto di piazza Fontana è comunque svelato, perché esso sta, a livello politico, nelle centrali estere che hanno promosso le stragi italiane, negli scopi per cui le hanno promosse, e nelle loro catene di comando, tutte cose già chiarite, e, a livello esecutivo, nell'azione dei gruppi neofascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale, collegati per i propri specifici scopi con la Grecia dei colonnelli, ed operanti d'intesa con l'Ufficio affari riservati del ministero dell'interno e per mezzo di attivisti anarchici da incastrare.
Il magistrato Ugo Paolillo, che per primo ha indagato sulla strage di piazza Fontana in quei lontani giorni di dicembre del 1969, in cinque incontri con l'autore del libro ha rivelato come, grazie ad una sua fonte, già la sera del giorno della strage sapesse come essa fosse stata progettata da gruppi neofascisti, come l'esplosivo utilizzato fosse di provenienza militare e non anarchica, e come la carta dei manifesti sedicenti anarchici provenisse dalla Svizzera, non fosse mai stata usata in Italia, e fosse invece stata usata dall'OAS. Si spiega così perché la questura milanese, interessata ad incastrare Valpreda sulla base dell'informazione che lui avesse effettivamente portato una bomba alla banca dell'Agricoltura, abbia poi messo da parte o distrutto le prove ulteriori che avrebbero dovuto portare a lui: perché quelle prove, oramai, portavano invece alle bombe neofasciste, vere cause della strage.
Commistioni oggi inimmaginabili tra anarchici e neofascisti, attraverso abili e mascherate infiltrazioni di questi ultimi, o persino di conoscenze accettate, sono state allora piuttosto estese. Il libro le documenta al di là di ogni dubbio, e rende pienamente convincente il coinvolgimento subalterno e strumentalizzato a diversi esiti e scopi di anarchici nella strategia della tensione. In altre parole: può anche non essere vero che Valpreda sia salito sul taxi di Rolandi ed abbia collocato una bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, ma è certamente vero che ha avuto attraverso Merlino frequentazioni neofasciste, che ha più volte rivendicato, con irresponsabile leggerezza, la sua capacità di compiere gesti rivoluzionari contro la tranquillità borghese, e che è stato espulso dal circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa per volontà di Pinelli, che lo aveva sorpreso a fabbricarvi rudimentali congegni esplosivi.
Valpreda è stato poi perfidamente costruito come il mostro responsabile della strage di Piazza Fontana che certamente non si era neppure sognato di volere, ha pagato con anni di carcere colpe non sue, ed è diventato, negli anni Settanta, l'icona di una generazione che, attraverso la rivendicazione della sua innocenza, denunciava nelle piazze e sulla stampa che la strage era di Stato. Nel nome dell'innocenza di Valpreda si è sviluppata, negli anni Settanta, una delle più generose e riuscite campagne di controinformazione della storia italiana, che ha già allora rivelato decisivi retroscena della strage di piazza Fontana.
La figura di Valpreda è quindi costitutiva dell'identità politica di quella parte della sinistra radicale che per ragioni anagrafiche è nata dell'impegno militante nei primi anni Settanta.
Una diversa verità su Valpreda rispetto all'icona degli anni Settanta, quale quella portata dal libro, non compromette in realtà le scoperte della controinformazione di allora, ma le integra collocandole in un contesto più realistico, dando loro un più solido fondamento. Neppure cade, a ben vedere, se non per chi non riesca ad avere un'identità politica anticapitalistica altro che come identitarismo angusto, acritico e controproducente, la figura di Valpreda come icona del movimento dell'epoca. Il ballerino anarchico spavaldo e fragile, ribelle e incostante, bisognoso di autoesaltarsi con grandi gesti ed inaffidabile su impegni di lungo periodo, scompare con la tragedia che lo travolge. Se prima è stato manipolato e strumentalizzato da neofascisti infiltrati nelle sue amicizie anarchiche, e presentatisi comunque come ribelli al sistema pur da una diversa angolazione, quando ne è stato incastrato ha capito di essere stato vittima, per loro tramite, proprio di un oscuro sistema di poteri forti e criminali annidati dentro lo Stato italiano, ed è diventato un uomo impegnato con serietà e fermezza, dal fondo di un carcere sofferto in cattive condizioni di salute, in una grande causa. Questa è la figura pubblica di Valpreda che appartiene alla nostra storia, di cui le sue vicende anteriori non sono che un antefatto di vita personale. (continua)
Eratostene
("Indipendenza", n. 29, novembre/dicembre 2010)
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