Basta menzogne e mezze verità sul debito pubblico italiano
di SIMONE GARILLI (RI Mantova)
In un recente articolo Heiner Flassbeck, prestigioso economista tedesco che da tempo si batte contro i pregiudizi dei suoi connazionali verso l’Italia, prova a spiegare le ragioni del nostro alto debito pubblico, sfatando il mito secondo cui l’esplosione del rapporto debito/Pil nel corso degli anni Ottanta fu il risultato dei vizi italiani. C’è buona volontà, il fine è nobile, ma il risultato è scambiare un odioso pregiudizio con un grave errore di analisi.
Non è che pretenda di prevalere su un economista rinomato, è che prima di esprimere giudizi sulla storia di un Paese che non è il proprio bisognerebbe armarsi di cautela in eccesso rispetto a quella che già richiede qualsiasi analisi scientifica. Bisognerebbe, innanzitutto, conoscere almeno a grandi linee la storia istituzionale, economica e sociale di quel Paese.
Flassbeck naturalmente ha ragione nel sostenere che “niente può essere più falso” dell’immagine del declino italiano che si sono costruiti in Germania. Già, ma allora perché in un decennio il nostro rapporto debito/Pil è raddoppiato, passando “dal 55% nel 1980 ad un livello del 120% nel 1995”? Secondo Flassbeck la causa scatenante sarebbe l’altissima propensione al risparmio delle famiglie italiane, “colpevoli” di investire in titoli di debito perché i tassi di interesse erano particolarmente favorevoli dato il contesto internazionale.
Con le sue parole: “Le ragioni della forte tendenza al risparmio delle famiglie italiane negli anni ’80 sono sicuramente molteplici. Ma pare giustificata l’ipotesi che essa sia dipesa dai tassi di interesse estremamente alti, che furono comuni in tutto il mondo all’inizio degli anni ’80 nel quadro della lotta all’inflazione, dopo la seconda esplosione del prezzo del petrolio […] Dato che si poteva contare facilmente sul fatto che anche in Italia il tasso di inflazione sarebbe caduto nel quadro della politica monetaria restrittiva e dei connessi tassi di interesse estremamente alti, c’era da aspettarsi anche un tasso di interesse reale molto alto. La conseguenza fu un risparmio incredibilmente alto delle famiglie che poteva essere soddisfatto solo con un indebitamento dello stato estremamente alto”.
Dunque le famiglie italiane si farebbero prendere da furia risparmiatrice a causa dei tassi di interesse molto elevati e lo Stato dovrebbe inseguirle, fornendo loro la materia prima su cui risparmiare (i titoli di Stato) ed espandendo la domanda depressa dallo stesso risparmio famigliare. C’è del vero, naturalmente, ma qualcosa non torna. Forse che a inizio anni Settanta, prima dello shock petrolifero del 1973 e del primo innalzamento dei tassi, il risparmio delle famiglie era piccolo piccolo?
Neanche per sogno. Si attestava intorno al 20% del reddito disponibile. Tassi o non tassi, anche nel decennio precedente all’esplosione del debito pubblico le famiglie italiane risparmiavano con prepotenza. Era il risultato di alti livelli occupazionali, lotte sindacali, lotte operaie, del salario indiretto garantito dallo Stato sociale e da un’inclinazione social-democratica della politica economica, conquistata faticosamente e non senza contraddizioni dopo il ventennio sostanzialmente liberale dell’immediato dopoguerra. Le famiglie italiane non impazziscono improvvisamente nel 1980 smettendo di consumare e pretendendo di fare i “rentiers”; risparmiano già da anni perché nel complesso guadagnano dignitosamente e beneficiano dei servizi pubblici.
Se il debito pubblico decolla, invece, è a causa di due eventi politici, con effetti macroeconomici sistemici, che intervengono nel giro di pochi anni:
– a fine anni Settanta la sterzata anti-inflazionistica americana, che Flassbeck cita;
– nel 1979 la costruzione del Sistema Monetario Europeo, antenato dell’euro, che il Partito Comunista Italiano osteggiò platealmente in Parlamento con l’argomento che avrebbe compresso i margini di politica economica del Paese a detrimento del lavoro (e che Flassbeck non cita).
L’Italia deve rispondere all’aumento dei tassi americani alzandoli a sua volta per non perdere capitali, e dopo essere entrata nello SME deve mantenersi entro una banda di oscillazione ristretta rispetto alle monete aderenti, su tutte il marco tedesco. Per farlo, di nuovo, occorre alzare i tassi sopra il livello degli altri Paesi per attirare capitali dall’esterno e difendere l’altrimenti insostenibile parità della lira.
Naturalmente questa esplosione dei tassi spinge ancora più in alto la propensione al risparmio privato (alle famiglie si aggiungono le imprese, che rientrano rapidamente dal loro indebitamento netto comprando titoli di stato), ma è l’effetto, non la causa! Se l’Italia deve mantenere tassi di interesse REALI costantemente positivi per tutto il decennio non è perché glielo impongono le famiglie italiane, è perché deve rimanere nello SME, costi quel che costi, ed è una scelta tutta politica.
Già l’aumento dei tassi reali, di per sé, basterebbe a gonfiare rapidamente il rapporto debito/Pil, ma a ciò si aggiunge l’atteggiamento di una classe dirigente ancora in parte legata all’economia mista costruita nei decenni precedenti; una classe dirigente che continua a sostenere l’economia attraverso deficit pubblici trainati soprattutto dagli investimenti (e non dalla spesa corrente come credono in molti).
Tradotto: mentre un pezzo di politica ci trascina negli inferi del vincolo esterno (Sistema Monetario Europeo) e prepara il terreno alla successiva catastrofe sancendo il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro (1981), l’altro pezzo tiene a mantenere livelli di crescita soddisfacenti e non reagisce al nuovo contesto restrittivo con l’austerità, bensì mantenendo florida la domanda aggregata per mezzo della spesa pubblica. Il prodotto di queste spinte opposte, che rendono il decennio Ottanta affascinante e contraddittorio, anche se decadente, è l’esplosione del rapporto debito/Pil, ovvero del parametro che la classe dirigente nata sul cadavere della Prima Repubblica innalzerà a totem per giustificare le sue intense e indisturbate politiche anti-popolari.
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