Valpreda è stato incastrato, come è noto, dal tassista milanese Cornelio Rolandi. Questi, il mattino di lunedì 15 dicembre si reca ad una stazione dei carabinieri dove racconta che il venerdì precedente, cioè il 12 dicembre giorno della strage, un passeggero, che riconosce somigliante alla descrizione che gli viene fatta di Valpreda, era salito sul suo taxi a piazza Beccaria chiedendogli di condurlo a via degli Albricci, nonostante gli fosse fatto notare che era vicina e facilmente raggiungibile a piedi. Il taxi era entrato da Piazza Beccaria nella contigua piazza Fontana, sulla quale si ergono due lati della Banca Nazionale dell'Agricoltura, e da lì, per raggiungere via degli Albricci, aveva imboccato via San Clemente, dove c'era l'ingresso della banca per i clienti. Non appena il taxi aveva voltato da via San Clemente in via Santa Tecla, il passeggero, secondo la testimonianza di Rolandi, gli aveva chiesto di fermarsi per pochi minuti, era entrato con una borsa dentro la banca, per uscirne pochi minuti dopo senza borse, e poi gli aveva fatto continuare la corsa fino a via degli Albricci.
La vicenda della deposizione della bomba desumibile dal racconto di Rolandi presenta molte falle. Come è possibile che il tassista abbia visto il suo passeggero entrare in banca –dallo specchietto retrovisore, come specificò– se, per sua stessa ammissione, quello era sceso in via Santa Tecla, da cui proprio non si vede l'ingresso della banca, che si trova nella via San Clemente, perpendicolare a via Santa Tecla? Come è credibile una testimonianza in cui a Rolandi vengono presentate fototessere di Valpreda e gli viene detto che se lo riconosce come l'uomo che ha portato in taxi alla banca dell'Agricoltura riscuoterà in moneta contante cinquanta milioni di lire di taglia? E poi le falle più gravi: come è pensabile che un attentatore, a due passi dal luogo dell'attentato, vi si rechi in taxi, correndo il rischio che il tassista si ricordi di lui? E se Valpreda ha portato dentro una borsa una bomba anarchica, perché la questura milanese, interessata proprio a far credere questo, ha poi eliminato dalle prove i manifesti di rivendicazione anarchica che lo avrebbero confermato? Perché è stata fatta brillare, la sera stessa del venerdì della strage, la bomba inesplosa della Banca commerciale, costruita apposta come modello che rinviasse agli anarchici?
Nonostante tutto questo, Cucchiarelli ritiene che il racconto di Rolandi sia nell'essenziale veritiero, e che Valpreda abbia davvero portato nel suo taxi una bomba poi collocata nella banca, una bomba tuttavia, poco potente, e, soprattutto, destinata ad esplodere a banca vuota (egli credeva, secondo Cucchiarelli, che il timer fosse predisposto per un tempo più lungo, e comunque ignorava, lui romano, che quella sola banca milanese consentiva al suo interno le contrattazioni tra i clienti anche dopo la sua chiusura a nuovi ingressi del pubblico dopo le 16,30). Non si creda che, anche su questo punto, Cucchiarelli faccia soltanto sue personali congetture. Ogni sua tesi non soltanto ha una sua coerente logica interna, ma non è mai priva del supporto di ben vagliati indizi. Ciò che noi crediamo –ma su cui ognuno è invitato a farsi una propria idea sulla base di una lettura diretta– è che la tesi che Valpreda sia andato con una bomba nel taxi di Rolandi, benché niente affatto incredibile, e benché supportata da diversi indizi che la confermano (per i quali si veda il libro), non è però affatto dimostrata in maniera conclusiva, e soffre dell'esistenza di qualche altro indizio con essa poco compatibile.
L'apparente insensatezza di Valpreda che va in taxi a mettere la bomba si spiega poi, secondo il libro, con addirittura due elementi di fatto: egli soffriva di un morbo alla circolazione sanguigna, che lo aveva costretto a smettere di fare il ballerino, e che talvolta, dopo aver camminato per un centinaio di metri, gli rendeva dolorosissimo continuare, per cui il percorso del taxi gli avrebbe evitato la penosa eventualità di trovarsi in gravi difficoltà deambulatorie prima di entrare in banca; egli era ben conosciuto proprio nell'area di piazza Fontana, nella cui casa dello studente aveva soggiornato per mesi, per cui il rischio di essere riconosciuto da un tassista che non lo aveva mai visto prima era inferiore a quello di essere riconosciuto da qualcuno che lo conoscesse bene, e potesse quindi più facilmente ricordarsi di lui, e soprattutto testimoniare con certezza sulla sua presenza.
La più debole tra le tesi del libro è a nostro avviso quella dell'esistenza di un sosia neofascista di Valpreda che sarebbe andato a mettere accanto alla bomba semi innocua già deposta da Valpreda la potente bomba della strage, che così avrebbe potuto essere attribuita a Valpreda. Ci sono anche su questo punto alcuni indizi: l'autore del libro ha individuato qualche neofascista che aveva effettivamente qualche somiglianza con Valpreda (anche se dalla foto risulta un po' esagerato parlare di sosia), e, di più, Valpreda stesso parlò a suo tempo di un suo sosia che avrebbe potuto portare una bomba. Senonché l'esistenza di un sosia ha un senso se è stato lui a salire sul taxi di Rolandi, in modo che il tassista potesse essere poi facilmente indotto dalla questura a riconoscere nel passeggero Valpreda. Se, insomma, c'è stato un solo taxi per la bomba, ed una sola bomba, la cosa ha un senso, ed in quest'ottica Valpreda l'ha a suo tempo proposta: sul taxi di Rolandi, ha detto, non c'ero io, ed avrebbe potuto esserci un mio sosia. Ma se si sostiene che il neofascista è andato con un'altra bomba su un altro taxi, come fa il libro, non si capisce a quale scopo fosse necessario un sosia.
Una tesi fondante del libro è che Valpreda dovesse apparire come l'esecutore materiale, ma non l'ideatore della strage. La strategia della tensione doveva infatti servire a far apparire terroristi, per giustificare in funzione della loro repressione una terribile svolta politica, non sparuti gruppi anarchici, ma l'insieme dei gruppi della sinistra extraparlamentare, inclusi gruppi stranieri, e con essi l'editore Giangiacomo Feltrinelli ed il suo giro. A questo scopo davvero non serviva Valpreda, figura di secondo piano tutta interna al ristretto mondo neanche della Federazione anarchica ufficiale, ma dell'estremismo anarchico da essa dissidente. La figura ideale per il sordido scopo era il limpido e mite ferroviere anarchico Pino Pinelli. Questi, infatti, svolgeva un ruolo di coordinazione tra diversi gruppi della sinistra extraparlamentare milanese (tanto che era un suo vanto dire che nulla accadeva in quell'area senza che lui lo sapesse), che avrebbe così potuto essere incastrata nel suo insieme incastrando lui. Era inoltre sospettato di avere messo a disposizione la sua privata abitazione per favorire il transito di una partita di armi acquistata dall'editore Feltrinelli per farla arrivare alla resistenza greca, e ci si voleva servire di questo eventuale fatto per far credere che le bombe del 12 dicembre provenissero da quella partita di armi, incastrando così simultaneamente Feltrinelli ed i gruppi extraparlamentari tedeschi e greci impegnati nell'aiuto alla lotta contro la dittatura dei colonnelli greci. Pinelli, inoltre, da un lato aveva frequentato alcuni ambienti frequentati da Valpreda, dall'altro gravitava nella cerchia di Feltrinelli, per cui costituiva l'interfaccia ideale tra Valpreda, del tutto estraneo all'ambiente di Feltrinelli, e Feltrinelli medesimo, consentendo di riferire all'editore rosso i crimini di cui fosse accusato Valpreda. Se il piano fosse riuscito, Valpreda non sarebbe stato presentato, come invece fu, ma per uno sgradito ripiego da parte degli strateghi della tensione, quale il protagonista del terrore del 12 dicembre, bensì come il manovale del terrore che si era limitato a svolgere il compito assegnatogli di deporre una bomba.
Il piano non riesce per due motivi. Uno è la rettitudine del giudice Ugo Paolillo, che, se convalida l'arresto di Valpreda, sul quale gravava l'ineludibile riconoscimento del tassista, fa scarcerare l'anarchico Leonardo Claps, indagato per la bomba alla Commerciale senza indizi, per avvalorare la tesi di un complotto anarchico, e impedisce la perquisizione a casa Feltrinelli, ritenendo completamente infondato il sospetto della polizia di potervi trovare riscontri di un suo coinvolgimento nella strage.
L'altro motivo è la morte di Pinelli, che non consente più di sottoporlo ad interrogatori da cui trarre capziosamente qualcosa che avvalorasse un legame, tramite la sua persona, tra Valpreda e ambienti più vasti. Ciò significa che Pinelli non può essere stato intenzionalmente ucciso dalla questura milanese, come in tanti hanno (abbiamo) dato per certo. Tanto meno, ovviamente, si è suicidato, secondo la versione della questura, e neppure si è buttato giù involontariamente per un «malore attivo», secondo l'ipocrita formula con cui il Giudice Gerardo D'Ambrosio ha voluto chiudere nel 1975 la questione salvando capra e cavoli.
Le pagine del libro dedicate alla vicenda Pinelli sono tra le più belle, meglio argomentate e maggiormente convincenti del libro. Vi si dimostra come non vi fosse stato, in questura, alcun volontario assassinio di Pinelli, ma come la questura ne abbia fatto sorgere il sospetto sostenendo l'incredibile versione del suicidio perché impossibilitata a dire cosa fosse realmente accaduto.
Pinelli viene convocato in questura la sera stessa del 12 dicembre della strage. La convocazione non è ufficiale, ma è un invito informale, addirittura amichevole, da parte del commissario politico Luigi Calabresi, che è andato ad intercettarlo all'uscita da un circolo anarchico, alle 18,30. Pinelli è, in quanto anarchico rivoluzionario, sorvegliato da tempo, ed apertamente, dal commissario Calabresi, che però non lo ritiene pericoloso, per cui tra i due si è stabilita addirittura una certa qual cordiale familiarità, testimoniata anche da quel che accadde quella sera: Pinelli passa dalla moglie Licia a dirle che non tornerà a cena, e va poi in questura, del tutto irritualmente, sulla sua moto, seguendo a distanza quella del commissario, evidentemente sicuro che non vi siano pericoli di fuga.
Pinelli, poi, non torna a cena non solo quel venerdì, ma anche i successivi sabato e domenica. Viene trattenuto in questura del tutto illegalmente, senza un'imputazione, oltre le quarantotto ore legali, ed in mancanza della prescritta convalida del giudice, mai richiesta. È tuttavia trattato in modo cortese e rassicurante, e lasciato libero di muoversi all'interno del palazzo e di telefonare a chi vuole. In una telefonata alla moglie dice di non capire cosa vogliano da lui, perché gli ripetono di sapere che lui non c'entra con la strage, ma gli squadernano foto di persone che non ha mai visto chiedendo sul loro conto informazioni che egli non può dare.
Si tratta, in realtà, dei preliminari dell'operazione con cui si cerca di collegare Pinelli ad un'area di eversione della sinistra extraparlamentare, magari carpendogli con l'inganno qualche ammissione riguardo alle foto che gli sono fatte vedere.
L'operazione è guidata dal questore Marcello Guida. A caratterizzare il personaggio basti dire che durante la guerra aveva diretto il confino di Ventotene, dove nel 1942 aveva vessato Sandro Pertini, Ernesto Rossi, Camilla Ravera e Mauro Scoccimarro. Dopo la guerra, il blocco dell'epurazione ed il reintegro dei funzionari di carriera, voluto da De Gasperi, lo aveva salvato e riportato ai vertici della polizia, fino alla questura di Milano, quella stessa che dopo la liberazione della città era stata affidata al capo partigiano Italo Pietra.
Guida prende direttive, più che dalla struttura nazionale di comando della polizia, dal responsabile dell'ufficio affari riservati del ministero degli interni Elio Catenacci, sordido personaggio che nel 1974 il giudice Emilio Alessandrini riuscirà a chiamare in giudizio per ripetute sottrazioni di prove alla magistratura. Catenacci opera, nell'ufficio affari riservati, per conto di Umberto Federico D'Amato, di cui si è già detto come fosse da un lato un punto di riferimento di gruppi eversivi neofascisti, dall'altro un terminale di tutti gli impulsi eversivi provenienti dalla CIA. Nel suo ufficio, sotto la copertura compiacente del ministro degli interni di Rumor, Franco Restivo, è stata organizzata la strage (che nelle intenzioni non andate a compimento avrebbero dovuto essere le stragi) del 12 dicembre, e si progettano ora i modi per trarne i massimi frutti politici. Vittima designata di questa progettazione è, per le ragioni che si sono dette, l'ignaro ferroviere Pinelli. Chi è chiamato ad attuarla è, in virtù del ruolo che ricopre, Marcello Guida, il quale in effetti si adopera per stringere la tenaglia attorno al malcapitato, servendosi del capo dell'ufficio politico Allegra e del commissario Calabresi come esecutori.
Pinelli, così, viene trattenuto in questura, senza alcuna base legale, con quello che si configura quindi sempre più come un vero e proprio sequestro di persona, anche per l'intera giornata di lunedì 15 dicembre. Nella stessa questura viene condotto, nella tarda mattinata di quel giorno, Pietro Valpreda, accusato di strage, e, nel tardo pomeriggio, per effettuare il riconoscimento di Valpreda, già peraltro precedentemente fatto presso i carabinieri, come si è detto, il tassista Rolandi. Al giudice Paolillo, che cerca Rolandi per interrogarlo, il questore Guida, che lo ha nelle sue stanze, risponde di non sapere dove si trovi. Come si vede, tutto si svolge ormai nella massima illegalità.
Pinelli trascorre la maggior parte del tempo in un ozio forzato nello stanzone d'attesa della questura, insieme ad un altro anarchico, Pasquale Valitutti, convocato per rispondere di imputazioni minori. Ogni tanto viene chiamato per brevi interrogatori su questioni di cui non capisce il senso. Infine, dalle 22,30 in poi, l'interrogatorio finale, destinato a chiudersi in modo tragico.
La ricostruzione della questura è risultata veritiera soltanto per quanto riguarda le prime fasi di questo interrogatorio finale: a Pinelli viene fatta per la prima volta una contestazione di reato, basata su indizi artatamente mal interpretati, quella cioè di aver messo il precedente 25 aprile la bomba all'ufficio cambi della Stazione centrale di Milano. Poi viene rincarata la dose, dicendogli che c'è il fondato sospetto che abbia partecipato agli attentati dei treni di agosto: in particolare, trovandosi in sosta alla Stazione di Milano al momento della fermata dell'Intercity Venezia-Firenze, vi avrebbe collocato la bomba poi fortunatamente trovata e disinnescata prima che esplodesse.
La ricostruzione della fase finale dell'interrogatorio fatta ai cronisti dal questore Marcello Guida nel suo studio due ore dopo la morte di Pinelli è invece totalmente menzognera. Egli sostiene che l'interrogatorio si era svolto fino alle 23,40 in maniera assolutamente tranquilla (cosa già di per sé poco credibile, dato che a Pinelli venivano rivolte accuse tanto gravi quanto ingiuste, che gli avrebbero fatto perdere sia il lavoro che l'abitazione a fitto bloccato delle Ferrovie). Poi il commissario Luigi Calabresi gli aveva detto, su suggerimento di Allegra, che Valpreda aveva confessato tutto su piazza Fontana. Valpreda, in realtà, aveva vigorosamente negato ogni addebito, ed era stato soltanto riconosciuto da Rolandi. Allegra aveva tuttavia suggerito a Calabresi di dire a Pinelli la frase ad effetto, per misurare le sue reazioni. Il ferroviere era sbiancato in volto, ed aveva avuto un malessere. A questo punto, alle 23,50, Calabresi aveva lasciato con Pinelli i suoi cinque brigadieri, e si era recato nell'ufficio di Allegra per portargli i verbali dell'interrogatorio e concordare come proseguirlo. Di là, poco dopo la mezzanotte, si era udito un trambusto. Pinelli, avevano detto i presenti nella stanza, ripresosi dal malore, aveva gridato: «è la fine dell'anarchia!», e si era gettato di slancio dalla finestra del quarto piano. Si era sfracellato al suolo nel cortile interno della questura sei minuti dopo la mezzanotte. Era stata chiamata l'ambulanza, ma inutilmente, perché era morto. Il questore conclude dicendo che Valpreda è il mostro autore della strage di piazza Fontana, e che Pinelli ha indirettamente confessato la sua complicità con il suicidio.
Questa ricostruzione è falsa dal principio alla fine, come hanno potuto capire tutti quei generosi militanti che da subito indagarono sulla vicenda. La falsa confessione di Valpreda non poteva far sentire compromesso Pinelli ed il suo ambiente anarchico, dal quale Valpreda era da tempo stato espulso ed aveva cessato, dopo l'espulsione, ogni rapporto con Pinelli. Calabresi non poteva aver abbandonato il suo ufficio, dove si stava interrogando Pinelli, ed essere andato in quello di Allegra, senza passare davanti alla panca dove sedeva l'anarchico Pasquale Valitutti, che non lo ha invece mai visto passare. Gerardo D'Ambrosio, nella sua ipocrita sentenza del 1975, per avvalorare che Calabresi non si trovasse nella stanza di Pinelli quando questi è volato fuori dalla finestra, è stato costretto a dare per certo che Valitutti si fosse distratto nel momento in cui Calabresi gli passava davanti per andare all'ufficio di Allegra. Pare invece evidente come, dovendosi fornire una versione poco attendibile di ciò che era avvenuto nella stanza di Pinelli, se ne volessero tener fuori i funzionari della questura, Allegra e Calabresi, per sottrarli a possibili future accuse di falsa testimonianza. La cosa più incredibile è comunque il balzo suicida di Pinelli. Era letteralmente impossibile un balzo nel vuoto senza essere bloccato da qualche agente in una stanzetta di soli sedici metri quadri, ingombra di mobili, e con cinque agenti presenti, anche escludendo Calabresi.
Quando il giudice Emilio Alessandrini ha istruito, con le sue eccezionali doti di scrupolosità investigativa, il primo processo sulla morte di Pinelli, ha scoperto che la chiamata dell'ambulanza era stata fatta dalla questura cinquantotto secondi dopo la mezzanotte, ben cinque minuti prima del volo di Pinelli secondo la questura, ed ha capito la ragione di questa menzogna sull'orario apparentemente del tutto stupida. L'ora della chiamata dell'ambulanza rivela che la morte di Pinelli era avvenuta qualche minuto prima della mezzanotte. Proprio alla mezzanotte scadeva il turno del temuto giudice Ugo Paolillo, al quale subentrava il giudice Giovanni Caizzi, ritenuto più malleabile. Far credere che Pinelli fosse morto dopo la mezzanotte significava espropriare del caso Paolillo, al quale pochi giorni dopo la Cassazione toglierà anche il caso Valpreda, affidandolo per un bizantinismo giuridico che non conviene neppure spiegare ai giudici romani.
Il libro riesce a ricostruire convincentemente, sulla base di argomenti probatori per i quali rinviamo alla sua diretta lettura, l'ultima fase dell'interrogatorio di Pinelli. Nella prima ora gli si parla degli attentati di aprile e di agosto. Alle 23,40 l'anarchico Valitutti, sempre nello stanzone di attesa, sente un gran trambusto nella stanza di Calabresi, che interpreta come se stessero picchiando Pinelli. In realtà Pinelli non viene picchiato, perché l'autopsia non rivela sul suo corpo segni di violenza, ed in genere altri segni oltre quelli provocati dalla caduta. Gli viene detto da Calabresi che Valpreda ha confessato tutto ed ha coinvolto il movimento anarchico, non però, come è stato detto dalla questura, riguardo alla strage di piazza Fontana, su cui Pinelli si sarebbe sentito inattaccabile, ma riguardo ad un piano eversivo generale della sinistra extraparlamentare. Viene fatto entrare nella stanza Enrico Rovelli, che Pinelli conosce come amico anarchico, e che è invece una spia dell'Ufficio affari riservati del ministero degli interni, gestita dal maresciallo di polizia Ermanno Alduzzi, che ne riferisce direttamente a Umberto Federico D'Amato. Rovelli sa che Pinelli ha tolto, direttamente o attraverso qualche compagno, le bombe alla caserma dei carabinieri ed al grande magazzino tessile, che, sempre informato di tutto ciò che si muoveva nell'ambiente anarchico, aveva saputo essere state messe da sedicenti anarchici legati ad ambienti neofascisti. Impedendo che quelle bombe esplodessero, Pinelli aveva creduto di aver evitato che esse compromettessero l'ambiente anarchico. Rovelli usa invece proprio il fatto che siano state tolte come prova di un coinvolgimento anarchico in generale e di Pinelli in particolare –chi le ha tolte sa che ci sono perché ce le ha messe– coinvolgimento interno ad un piano rivoluzionario di settori della sinistra extraparlamentare legata a Feltrinelli, rientrato all'ultimo momento per contingenti motivi di opportunità.
Pinelli intuisce la perfida strategia di un terrorismo statal-fascista da attribuire alla sinistra, per cui protesta, strepita, chiede che tutto sia messo a verbale, provocando la reazione del brigadiere Vito Panessa, che lo blocca e lo spinge violentemente verso la finestra, aperta per dare aria a quella stanza congestionata di persone e satura di fumo. Pinelli perde l'equilibrio sotto gli spintoni violenti di Panessa, e cade dalla finestra. La prova regina che le cose siano andate così è che è stato provato senza ombra di dubbio che Pinelli non è caduto con un tuffo in avanti, come se si fosse suicidato o fosse stato vittima di un lancio omicida, ma di spalle, proprio come uno che, schiena alla finestra e premuto sul torace, abbia perso l'equilibrio.
La questura non poteva certo dire la verità, cioè la sua esecuzione della strategia della tensione dettatale dall'alto che aveva provocato il risentimento agitato di Pinelli, la reazione di contenimento violento di Panessa, e quindi la caduta non voluta di Pinelli. Dovendo tacere tutto questo, lo spregevole Guida ha inventato la storia del suicidio di Pinelli per sfuggire alla colpa a cui era stato inchiodato, macchiando così l'immagine postuma di un uomo di limpida moralità, e proponendo un racconto così inverosimile da diffondere la contrapposta certezza che Pinelli fosse «stato suicidato».
Calabresi non ha dunque «suicidato» Pinelli, e non è stato che un esecutore di terza mano e poco consapevole della strategia della tensione, in quanto si limitava a prendere direttive da Allegra, il quale le prendeva, talvolta di malavoglia, da Guida, che era al vertice del momento esecutivo. La progettazione si collocava più in alto ancora, nell'Ufficio affari riservati e nella persona di Umberto Federico D'Amato, e sua volta tramite dell'Aginter e della CIA. "Lotta continua", nella sua durissima campagna contro Calabresi, additato come l'assassino massimo responsabile della morte di Pinelli, ne ha fatto un capro espiatorio, contribuendo a coprire le vere ragioni per cui è stato ucciso, e quindi il contesto internazionale della strategia della tensione. Calabresi è stato ucciso solo apparentemente per vendicare Pinelli, in realtà per la strada da lui successivamente presa, distaccandosi da Allegra ed in conflitto con tutta la questura, di indagare sui traffici d'armi che stavano dietro le stragi, e che mettevano in luce la loro matrice internazionale-neofascista. Tutto questo non toglie che Calabresi non sia stato affatto pulito nel caso Pinelli. Tutt'altro. Ha condotto il ferroviere in questura senza fare obiezioni al fatto che vi sia stato trattenuto oltre i termini e senza le garanzie della legge. Lo ha interrogato secondo le direttive di Allegra, probabilmente convinto, per sudditanza gerarchica, di stare facendo la cosa giusta, ma contribuendo in questo modo ad incastrarlo ingiustamente. Dopo la mezzanotte ha telefonato, certamente in esecuzione di direttive altrui, al giudice Paolillo, per dirgli di non occuparsi del caso, dato che il suo superiore De Peppo lo aveva già assegnato per turno a Caizzi. Ma la cosa più grave è la sua comparsa, nell'incontro di Guida con i cronisti dopo la morte di Pinelli, a fianco del questore e di Allegra per confermare la loro versione dei fatti. Quando Guida dice la frase infame che Pinelli ha preferito suicidarsi piuttosto che essere inchiodato alle sue colpe, Calabresi la sostiene aggiungendo, in risposta alle perplessità dei giornalisti, un'altra infamia, e cioè che Pinelli era sempre sembrato un uomo tranquillo alieno alla violenza, ma che fatti nuovi avevano rivelato il contrario.
Nel frattempo la strategia della tensione sta mancando i suoi obiettivi immediati. Il primo obiettivo mancato è quello di una catena terrorizzante di stragi che avrebbe dovuto spingere quasi naturalmente allo stato di emergenza. Ci sarebbe dovuta essere una strage alla Banca Nazionale del Lavoro a Roma ed altre stragi alla caserma dei carabinieri e al centro commerciale di Milano. Invece la sola strage di piazza Fontana suscita più sconcerto e indignazione che vero terrore. Rumor, poi, convocato il consiglio dei ministri la sera di quel 15 dicembre 1969, a sorpresa rifiuta di proclamare lo stato di emergenza a cui lo spinge pressantemente il presidente della Repubblica Saragat, benché anche lui fosse, fino al giorno prima, della partita, ed al corrente della strategia della tensione, che non aveva promosso, ma neanche contrastato, e che sperava di cavalcare.
Il ritiro di Rumor, che ha in mano il potere governativo, provoca lo sbandamento di coloro che hanno lavorato per una svolta politica autoritaria, e che a questo punto dovrebbero affrontare contemporaneamente le sinistre e la DC, di cui il governo Rumor è allora l'espressione, fatto com'è di soli democristiani. Il voltafaccia di Rumor ha una sola spiegazione: la paura, alimentata da alcuni segni inequivocabili di pericolo per chi avesse tentato di sovvertire l'ordine costituzionale. La Germania, di cui da alcune settimane è diventato cancelliere Willy Brandt, si è associata ai paesi nordici nel pretendere l'espulsione dal consesso europeo della Grecia dei colonnelli, e ciò rappresenta un duro monito per ogni paese che si appresti a seguire la via greca o una via simile. La stampa inglese, all'indomani di piazza Fontana, si è concentrata su Saragat, accusandolo di servilismo verso Nixon e di golpismo strisciante, e facendo così capire a Rumor che se rimanesse della partita di Saragat sarebbe osteggiato non soltanto dalla Germania, ma anche dall'Inghilterra. Infine l'imponente, silenziosa e determinata partecipazione della classe operaia milanese ai funerali delle vittime di piazza Fontana, lunedì 15, fa capire a Rumor quale terribile ostacolo sarebbe la resistenza operaia sulla via di una svolta politica anticostituzionale. Fatta marcia indietro, a Rumor non passa la paura, perché teme ora di diventare, anziché il profittatore, la vittima di un golpe neofascista. In effetti negli anni successivi vi saranno progetti neofascisti di ucciderlo, per vendicarsi del suo voltafaccia.
Il ministro degli esteri di Rumor, Aldo Moro, non è mai stato della partita di Saragat, ed ha capito, non appena ha saputo della strage di pazza Fontana, come essa fosse concepita come segnale ed occasione di una svolta politica anticostituzionale di cui ha seriamente temuto di rimanere vittima. Nei dieci giorni successivi alla strage si è svolto uno scontro politico sordo e ignoto all'opinione pubblica, ma durissimo, tra Saragat, deciso a promuovere comunque una svolta autoritaria, e Moro, deciso ad impedirla. Il presidente Saragat è sostenuto da liberali e socialdemocratici e, all'interno della DC, dal segretario Piccoli, dal ministro degli interni Restivo, e dal capocorrente Andreotti. Moro è sostenuto da socialisti e repubblicani e, dall'esterno, e discretamente, ma efficacemente, dai comunisti. Egli guadagna punti quando passa dalla sua parte Rumor, che, come capo del governo, può rendere di fatto impossibile a Saragat indire elezioni anticipate in uno stato di emergenza come mezzo di una svolta politica autoritaria. Nella DC, nei giorni successivi, anche la corrente fanfaniana, rappresentata nel governo da Franco Maria Malfatti, che ricopre la carica, allora fonte di grande potere, di ministro delle partecipazioni statali, e la corrente del ministro del tesoro Colombo, si schierano con lui. Con i crescenti appoggi che trova all'estero e nella DC Moro si sente più forte di Saragat.
Il 22 dicembre Moro entra in possesso del rapporto del colonnello dei carabinieri Pio Alferano, incaricato dal giudice romano Vittorio Occorsio di indagare sulla strage. Pur non arrivando alle responsabilità del gruppo ordinovista veneto di Freda e Ventura, e del loro protettore ed informatore del SID, nonché uomo degli Affari riservati, Guido Giannettini, responsabilità scoperte solo nel 1972 dal giudice istruttore Emilio Alessandrini, Alferano, fermando ed interrogando Delle Chiaie, scopre la matrice neofascista della strage ed il complotto per attribuirla alla sinistra extraparlamentare. Contemporaneamente a Moro giunge una velina di agenti della CIA legati al partito democratico americano che informano di accordi segreti tra Nixon e Saragat per cambiare in senso anticomunista il corso della politica italiana.
Il 23 dicembre Moro si reca al Quirinale con il rapporto Alferano e la velina informativa per mettere alle strette Saragat. Questi, smascherato ed isolato, ha paura di essere travolto da uno scandalo, e si accorda con lui per un abbandono definitivo della strategia della tensione: non ci saranno più legami speciali con Nixon, stati di emergenza ed elezioni anticipate, e il giorno dopo, vigilia di Natale, Mario Tanassi, capo del partito socialdemocratico per conto di Saragat, si pronuncia a sorpresa per la ricostituzione di un governo di centro-sinistra sotto la guida di Rumor. In cambio di questo, però, Moro deve accettare garantendo anche per i comunisti, che tutto sia coperto da segreto militare, e che non si parli più del segreto che sta dietro piazza Fontana.
Abbiamo raccontato, seguendo il libro di Cucchiarelli, questo segreto. Attraverso questo segreto si capisce come la vicenda di piazza Fontana sia della massima rilevanza storica, avendo inciso in maniera profonda e decisiva dell'involuzione della società e della politica dell'Italia contemporanea, per almeno quattro motivi.
In primo luogo attraverso quella strage il crimine omicida è diventato uno dei fattori della lotta politica. Ancora in mezzo ai duri conflitti del 1968 gli italiani potevano vantare come, a differenza degli Stati Uniti, dove la lotta politica si faceva anche con l'assassinio di presidenti, parlamentari e leader dei movimenti, nel loro paese non ci si combattesse politicamente uccidendo. Dal 1969 in poi non è stato più così: è penetrata anche da noi la barbarie omicida.
In secondo luogo la strage del 1969 non ha gettato l'Italia nel baratro di una dittatura greca, o anche di una meno sanguinaria catastrofica limitazione dei diritti costituzionali, soltanto a prezzo di un generale patto omertoso tra gli attori politici. Da allora la politica visibile è sempre più diventata un teatrino fittizio dietro il quale c'è una politica invisibile, ed indicibile, che è quella reale. Lo aveva ben capito Pasolini nel 1974, quando, chiedendosi perché gli stessi politici di opposizione non rivelassero i responsabili, da loro ben conosciuti, delle trame stragiste, rispondeva testualmente che «il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose che stanno diventando sempre più inconciliabili in Italia». Una politica senza verità, fatta di scontri e incontri di potere giocati dietro le quinte, ha in sé il germe del progressivo degrado. Perciò, se vogliamo capire da storici come la deprimente Italia abbia un capo del governo, Berlusconi, il cui itinerario prima commerciale e poi politico è lastricato di ogni genere di impunite illegalità, e un capo dell'opposizione, Bersani, il cui partito è penetrato da pezzi di camorra, di 'ndrangheta e di mafia, e infarcito localmente di affarismi e clientelismi, con la pecoresca assuefazione del suo popolo, dobbiamo capire come il primo inizio del percorso che, certo gradualmente e attraverso tanti altri strappi, ci ha portato fino a questa palude, stia nella gestione politica della strage di piazza Fontana.
In terzo luogo quella strage, rivelando estese complicità nelle istituzioni, e l'impunità dei criminali in esse insediati, che hanno avuto addirittura la possibilità di depistare e impedire le indagini, ha spinto una parte della gioventù ideologizzata di allora, per disperazione nelle possibilità della politica, a darsi al terrorismo armato. I brigatisti rossi degli anni Settanta sono certo eticamente ed antropologicamente responsabili dei brutali assassinii da loro commessi, ma responsabili di averli spinti su quella strada, che ha spento la politica, sono coloro che l'hanno spenta prima di loro, gli strateghi della tensione da un lato, e gli oppositori opportunisti che non li hanno combattuti con la massima durezza a viso aperto.
Infine c'è la lezione più importante della strage di piazza Fontana che non è stata ancora tratta. Quella strage ha attualizzato tutte le potenzialità negative di un dato di fatto di cui si sono sempre annebbiati i termini e stemperate le implicazioni, e cioè che l'occupazione militare alleata con cui si è conclusa la seconda guerra mondiale è stata utilizzata anche per legare ad una stretta dipendenza esterna uomini ed apparati italiani. All'Italia manca l'indipendenza nazionale, perché servizi segreti, centri operativi militari, gruppi economici e uomini politici sono in parte non irrilevante agganciati ad un comando internazionale straniero. Non si è neppure tentato di estirpare questo bubbone purulento quando un qualsiasi Nixon, un qualsiasi Kissinger ed un qualsiasi Serac hanno potuto decidere di sconvolgere la vita italiana con le stragi, avendo in Italia tutte le leve necessarie per attuare le loro decisioni. Così, se ancora nel 2003 ci siamo trovati a vedere il rapimento in Italia di Abu Omar ad opera di agenti della CIA con la collaborazione servile di agenti dei servizi italiani, e la copertura delle responsabilità con l'apposizione del segreto di Stato da parte prima di Berlusconi e poi di Prodi, ciò è ancora l'eredità del modo in cui venne politicamente gestita la strage del 1969. Il segreto di piazza Fontana ci dice, prima di tutto, che abbiamo bisogno di porci l'obiettivo dell'indipendenza nazionale se vogliamo affrontare davvero tutti gli altri nostri problemi. (fine)
Eratostene
("Indipendenza", n. 30, maggio/giugno 2011)
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Ancora in mezzo ai duri conflitti del 1968 gli italiani potevano vantare come, a differenza degli Stati Uniti, dove la lotta politica si faceva anche con l'assassinio di presidenti, parlamentari e leader dei movimenti, nel loro paese non ci si combattesse politicamente uccidendo. Dal 1969 in poi non è stato più così: è penetrata anche da noi la barbarie omicida.
Articolo interessante ma che contiene questa notevole imprecisione. Ben prima del 1969 la CIA (che allora si chiamava OSS) e la marmaglia fascita (decima MAS) si dedicarono alla stragi. L'episodio è quello di Portella della Ginestra. In quegli anni dell'immediato dopoguerra (siamo nel 1947) si assiste in Sicilia al sorpasso: PCI e PSI conquistano 29 rappresentanti conro i 21 della DC. Il 1° Maggio i contadini si riuniscono a Porrtella della Ginestra per manifestare contro i latifondisti, ma trovano la banda di Giuliano e dei reparti militari USA a fare la strage. Senza dubbio le armi usate non sono solo quelle dei banditi, ma quelle sofisticate dell'esercito USA, usate anche dai fascisti di Borghese.
Poi, come ogni strage che si rispetti, inizia il depistaggio che vuole Giuliano l'unico responsabile.Quando il bandito si renderà conto di essere stato usato per scopi politici e si teme che possa informare l'opinione pubblica della verità, verrà ucciso dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, destinato a fare la stessa fine poco dopo.
Non cambiano nè copione nè finalità, e siamo oltre vent'anni prima del 1969.
http://digilander.libero.it/ladecimamas/Giuliano_Cia.htm