"Il decennio del rifiuto": l'antieuropeismo del PCI negli anni Cinquanta
di CARLO GIUSEPPE CIRULLI (politologo)
La prima fase [risalente agli anni Cinquanta, ndr] del rapporto tra il Pci e l’Europa si caratterizza per un rifiuto totale del processo d’integrazione europea. L’opposizione all’Europa trova le sue radici nei tratti identitari del Pci, nella sua collocazione internazionale, facendo sì che il processo d’integrazione europea venga a contatto con la “carne viva” del partito. L’Europa avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella storia dei partiti comunisti dell’Europa occidentale nella misura in cui sarà dalla paura del comunismo e di una sua vittoria anche in alcuni paesi dell’Europa occidentale che verrà una spinta sostanziale al processo d’integrazione europea.
Infatti, pur non essendo l’unico fattore determinante, la guerra fredda ha in un certo senso “assistito” il processo di integrazione europea: gli Stati Uniti hanno sostenuto esplicitamente la costruzione comunitaria e i partiti comunisti, inizialmente indifferenti a forme di integrazione europea, sarebbero divenuti apertamente ostili a forme di integrazione dalla nascita del Comintern in poi (settembre 1947). L’Europa venne così identificata da tutti i partiti comunisti occidentali come capitalista, atlantica, riformista e come un ostacolo per la Rivoluzione. Il Partito Comunista Italiano, condividendo questa visione con il Partito Comunista Sovietico, oltre che con gli altri partiti comunisti occidentali come quello francese, avrebbe adottato subito un atteggiamento di aperta condanna verso la Comunità Europea, vista come uno strumento al servizio dell’imperialismo che aveva il duplice obiettivo di soggiogare politicamente ed economicamente l’Europa agli Stati Uniti e di rafforzare l’offensiva imperialista contro il blocco dei Paesi socialisti guidati dall’Urss.
Come osserva Di Nolfo, la guerra fredda, prima di essere scontro diplomatico, o marginalmente militare, era un confronto tra l’egemonia economica statunitense, unitamente al sistema di interdipendenze che essa creava su scala globale, e il tentativo sovietico di rispondere ad essa mostrandone contraddizioni e fragilità. La guerra fredda era così uno scontro tra sistemi economici e il processo d’integrazione che, richiamando la celebre Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, mirava a creare una solidarietà di fatto tra gli Stati europei attraverso una sempre maggiore collaborazione in campo economico, si inseriva all’interno di uno dei due blocchi: quello americano. In tal senso è indicativo quanto dichiarato in un’intervista da Antonio Giolitti, che sino al ‘57 era stato un esponente di primo piano del Pci in materia di politica economica e politica estera. Egli affermava come, finché aveva fatto parte del Pci, il tema dell’Unione Europea fosse sempre stato semplicemente “snobbato, essendo dato per scontato che (fosse) un’operazione di marca capitalistico-imperialistica”.
L’antieuropeismo del Pci trovava così le sue basi in una chiara collocazione internazionale del partito che lo vedeva far parte ideologicamente del blocco contrapposto a quello occidentale. Se a livello interstatale i singoli Paesi europei adottarono una politica estera in tutto e per tutto coerente con il blocco di riferimento, a livello intrastatale il bipolarismo comportò una netta divaricazione tra le forze di sinistra social-comuniste, che avevano nell’Urss il modello di riferimento, e quelle di matrice liberal-democratica, laica e cattolica. Tale netta spaccatura, in Italia, era ancor più marcata per la presenza del maggior partito comunista dell’Europa occidentale e per il “patto d’unità d’azione” stretto, nel 1943, tra questo ed il Partito Socialista Italiano che sarebbe culminato con la presentazione di un fronte unitario alle elezioni politiche del 1948.
Oltre all’influenza dell’Urss sulla posizione del Pci, non va nemmeno trascurato il ruolo di partito di opposizione che esso giocò nel quadro politico italiano. Infatti, nell’immediato dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta, “ogni movimento di lotta e di protesta, sia di carattere economico che politico, ebbe il Pci come proprio referente politico e come luogo di elaborazione, organizzazione e direzione” (M. Flores e N. Gallerano). Sarà solo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta che il Pci cesserà di essere l’unico rappresentante dei movimenti di lotta e di protesta. L’antieuropeismo del Pci ha quindi anche una radice interna. Secondo l’analisi condotta da N. Conti e L. Verzichelli, l’antieuropeismo del partito era dettato non solo dalla dialettica maggioranza/opposizione ma anche dalla distanza del partito dal “centro dello spettro politico”. Il primo decennio del processo di integrazione europea vede così il Pci attestarsi su una posizione di rigido antieuropeismo: non a caso S. Galante parla di questi anni come “decennio del rifiuto”.
Il partito era schierato su posizioni rigidamente filosovietiche ed ogni idea di sovranazionalità era respinta, soprattutto se si riferiva al solo campo occidentale. La difesa dell’indipendenza e della sovranità nazionale era perseguita con ogni mezzo e la politica estera governativa era “percepita e presentata come partecipazione intenzionale a un disegno ispirato dall’anticomunismo straniero e indigeno ai cui interessi subordinava, compromettendoli, quelli interni ed esterni della nazione” (S. Galante). È cosi possibile evincere come l’iniziativa della CECA [Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ndr] fosse vista dal Pci come una operazione negativa non solo perché di stampo chiaramente capitalistico, ma anche perché ritenuta svantaggiosa economicamente per un’Italia che appariva come “la cenerentola che pagava nell’accordo tra i due grandi” (A. Giolitti). La stessa ferma opposizione sarebbe stata mostrata dal partito nei confronti del fallito tentativo della CED [Comunità Europea di Difesa, ndr], che sarebbe stato visto come una semplice filiazione del Patto Atlantico.
Secondo una formulazione che si può far discendere da Marx in persona ed in seconda battuta da Lenin,vi era una chiara opposizione ideologica a qualsiasi forma di collaborazione tra gli Stati europei che non avesse come presupposto il superamento del capitalismo e la conquista del potere da parte del proletariato. Già durante gli anni del secondo conflitto mondiale l’Unione Sovietica si era opposta a qualsiasi iniziativa volta a progettare, per il periodo post-bellico, forme di raggruppamento regionale per l’Europa. Da questo derivava anche l’interscambiabilità, agli occhi del Pci, dei binomi Europa/Nato, europeismo/atlantismo: è indicativo come in questi anni il termine adoperato negli ambienti del Pci per indicare il processo d’integrazione europea fosse quello di “Mercato Comune” piuttosto che di “Comunità Europea”, proprio per voler marcare la chiara connotazione capitalistica del fenomeno che, in quanto tale, andava avversato.
Adottare il termine “Comunità” avrebbe significato introdurre una visione più vasta del processo, mirante ad un’integrazione anche di tipo politico, che in quegli anni era lontana anni luce dalla posizione del Partito. Una parziale eccezione in questa prima fase di antieuropeismo ideologico del Pci sarà costituita dagli anni della Resistenza e della lotta al fascismo: la speranza di liberare il continente dai totalitarismi di destra e la volontà di riportare la pace attraverso la sconfitta dei nazionalismi aveva, forse solo per un momento, fatto condividere a federalisti e comunisti l’idea che il sistema internazionale fosse irrimediabilmente compromesso e andasse ricostruito su nuove basi.
Tuttavia, l’attenzione che il Pci gli avrebbe conferito sarebbe stata modesta e comunque subordinata alla lotta principale: quella per il socialismo. Ad ogni modo, la Conferenza di Yalta ed il rafforzamento della logica bipolare avrebbero posto sin da subito una pietra tombale su qualsiasi forma di collaborazione tra i due movimenti. Per quanto dopo la morte di Stalin Togliatti manifestasse delle perplessità sulla leadership di Khrushchev, allo stesso tempo non c’era nulla che potesse fargli venir meno la convinzione che il “campo vincente” fosse quello sovietico e che le Comunità Europee appartenessero al campo avverso. Era “la sua filosofia della storia lo portava a questa certezza” (A. Giolitti) e di conseguenza l’atteggiamento del partito verso il processo comunitario non poteva che discendere da tale presupposto.
Spostando la nostra attenzione alle prime discussioni che si sarebbero svolte in ambito parlamentare, è possibile avere conferma dell’opposizione della sinistra al processo d’integrazione europea, che quindi sarebbe stata evidente anche in queste sede. Il primo dibattito parlamentare sulle tematiche europee si svolse nel giugno-luglio 1948. Esso trattava il tema dell’adesione dell’Italia all’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE) e vide i voti favorevoli di cattolici, liberali e socialdemocratici, l’astensione del Movimento Sociale Italiano e il voto contrario del Psi e del Pci. Le opposizioni, come evidenziato dalla mozione presentata da Nenni e di cui Pesenti fu relatore, non facevano alcuna distinzione tra Stati Uniti ed Europa: qualsiasi adesione italiana ad organismi europei avrebbe, ai loro occhi, rafforzato il posizionamento filoatlantico del Paese.
Anche il dibattito sull’adesione italiana al Consiglio d’Europa si mosse sulla falsa riga di quello sull’OECE, mentre la ratifica italiana alla Comunità Europea di Difesa (CED) non vide alcuna disamina da parte del Parlamento a causa del sopravvenuto scioglimento delle Camere. Un dibattito vero e proprio si ebbe in Parlamento, invece, in seguito alla ratifica del trattato istitutivo della Ceca, firmato a Parigi il 18 aprile 1951. La relazione contraria di minoranza, firmata dall’esponente del Pci Pastore, non fece ricorso ad analisi di mercato, né a considerazioni di politica economica, ma si limitò ad esprimere il sospetto che i veri protagonisti dell’iniziativa sarebbero stati i grandi monopoli della Ruhr, alcuni gruppi americani e quelli siderurgici francesi della regione della Lorena.
In questi stessi anni anche i socialisti italiani, pur fra differenziazioni e distinguo, erano allineati al comunismo staliniano, con una scelta di campo di segno diametralmente opposto ai grandi partiti socialdemocratici europei. I temi di politica estera avevano comunque portato ad una prima scissione nell’ambito della sinistra: nel gennaio del 1947 i riformisti filoatlantici guidati da Saragat, in disaccordo con la linea sostenuta dal segretario Nenni in tema di alleanze internazionali, avevano abbandonato il Psi con la famosa scissione di Palazzo Barberini. Tuttavia, sarà solo dopo la morte di Stalin ed il successo elettorale del 1953, che il Psi muoverà i primi passi nella direzione di un progressivo distacco dal Pci e di un’apertura verso posizioni più filoatlantiche e europeiste, senza però fare subito propria la tradizione socialdemocratica o riformista.
Il 1957 rappresenterà per il Psi l’anno in cui esso abbandonerà il proprio atteggiamento negativo nei confronti della costruzione europea. L’occasione sarà costituita dalla ratifica in Parlamento dei trattati istitutivi delle due Comunità: l’EURATOM e la CEE; in tale occasione esso voterà a favore del primo e si asterrà sul secondo. Il dibattito parlamentare sulla Comunità Europea si svolse nella seconda metà di luglio del 1957 e vide il Pci presentare una propria mozione a firma di Giuseppe Berti. La nuova posizione dei socialisti aveva indebolito il peso dell’opposizione di sinistra che vedeva, quindi, il solo Pci esprimere parere contrario in Parlamento.
L’intervento di Gian Carlo Pajetta alla Camera il 25 luglio 1957 ribadiva con forza la posizione del partito nel primo decennio dell’integrazione europea: il Pci non contestava che vi fosse un processo di sempre più accentuata collaborazione internazionale, ma riteneva che le Comunità prospettate andassero nella direzione di una divisione dell’Europa, della creazione di quella che Pajetta definiva come “piccola Europa” dei monopoli. Di quei monopoli che, per l’esponente comunista, avevano accettato la politica europea di guerra e di soggezione all’imperialismo tedesco sino alla fine della seconda guerra mondiale. Il processo di integrazione europea era quindi visto come entità non autonoma in quanto dipendente politicamente ed economicamente dagli Stati Uniti che la indirizzavano contro l’Unione Sovietica. Nelle parole di Pajetta il mercato comune, lungi dall’essere un passo fondamentale verso l’integrazione europea, rappresentava una tappa ulteriore di rafforzamento della divisione in blocchi dell’Europa.
Nel discorso alla Camera nel 1957 Pajetta teneva a precisare come il Pci non accettasse le critiche, che gli erano state mosse dai liberali con Malagodi e dal socialista Lombardi, di essere conservatori e sostenitori di un’economia basata su principi di stampo chiaramente protezionista. La non accettazione del Mercato Comune era anche motivata, dall’esponente comunista, con l’esiguità del numero dei Paesi aderenti alle Comunità europee e con le barriere che inevitabilmente si sarebbero create con i restanti Paesi, ivi inclusi quelli dell’est Europa. Rigettando la narrazione comunitaria che vedeva la nascita della Cee come strumento di cooperazione tra gli Stati, Pajetta affermava come la solidarietà internazionale si manifestasse nel votare contro il mercato comune dato che esso mirava a ledere fortemente l’indipendenza nazionale, favorendo organi di natura non democratica che pretendevano di decidere le sorti delle classi lavoratrici in base ad interessi dettati da “alleanze intermonopolistiche”.
La prima fase del rapporto tra il Pci e l’Europa trovava, inoltre, una sua chiara esemplificazione nello scritto di Togliatti del 1958, intitolato Il Partito Comunista Italiano. L’occasione per la pubblicazione di questo testo venne dall’iniziativa, da parte della casa editrice Nuova Accademia, di pubblicare una serie di saggi sulla storia dei partiti politici in Italia; si è di fronte così ad un testo di carattere divulgativo destinato ad un pubblico non strettamente di partito. Nell’ultimo capitolo del suo saggio, il segretario tracciava con estrema chiarezza la visione del mondo che era alla base dell’identità stessa del Pci. Egli riteneva come sul finire degli anni ‘50 fosse possibile identificare due linee caratterizzanti l’evoluzione della situazione internazionale e del progresso umano. Una, quella capitalista, era ritenuta da Togliatti inevitabilmente in fase discendente, mentre l’altra, quella socialista, era vista in fase ascendente. Il processo d’integrazione europea faceva indubbiamente parte, per Togliatti, della prima delle due linee ed in quanto tale sarebbe stato destinato ad un’inesorabile declino. Esso infatti era visto come un’associazione tra Stati diversi che “non vuole affatto giungere a una trasformazione della struttura economica di questi Stati tale che sopprima lo sfruttamento del lavoro e lo strapotere dei monopoli, anzi, mira a rafforzare e mantenere l’ordinamento capitalistico”.
L’Europa diveniva anche l’occasione per rispondere alle critiche che erano solitamente mosse nei confronti del Pci da parte delle altre forze politiche (Democrazia Cristiana in primis), in ragione della sua appartenenza al movimento comunista internazionale che esse ritenevano andasse inevitabilmente a scapito degli interessi della nazione. Togliatti, se da un lato affermava come ogni movimento politico avesse la tendenza a stabilire contatti al di fuori del proprio Paese, dall’altro trovava strano come coloro che si scagliavano contro l’internazionalismo del partito fossero gli stessi artefici dell’ingresso dell’Italia nelle Comunità europee, da egli definite in maniera spregiativa come “piccola Europa”, in quanto organizzazione che comprendeva solamente il blocco capitalista dei Paesi europei. Per il segretario del Pci, mentre la classe operaia e le sue organizzazioni politiche erano spinte a cooperare perché unite da un “grande ideale” che le univa nella volontà di aiutarsi a vicenda in vista di un comune nemico da abbattere, ossia il capitalismo, il processo europeo si poneva agli antipodi, poiché mirava alla sua perpetuazione.
FONTE: e-theses.imtlucca.it
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