L’azione come condizione del pensiero
di STEFANO D’ANDREA (Presidente di RI)
Si deve riconoscere che la larghissima maggioranza delle persone è tifosa e fanatica. Credevo fosse vero soltanto per i docenti universitari, i quali sono grandissimi diffusori di ideologie e non amano, in genere, la verità.
Pensavo che il mio essere stato, per parecchi anni, fanatico, paranoico, tifoso antiamericano, e in precedenza, per un periodo ancor più lungo, un presuntuoso giovane lettore di quotidiani che mi fornivano la verità che spiattellavo nelle conversazioni, come fosse cultura e sapere, fossero state due malattie mie, durate un paio di decenni, che avessero ragioni familiari e personali. Poi ho intravisto distorsioni simili in tanti altri, ma a lungo comunque ho ipotizzato che si trattasse se non di casi rari, di casi minoritari. Non è così.
Quasi tutte le persone tifano, per una persona, per una idea, per un interesse. E quindi quando discorrono, non lo fanno per ragionare, né esprimono posizioni alle quali sono giunti dopo un ragionamento ma asseriscono opinioni, lottano e disputano, sempre e soltanto nella posizione di avvocati, di difensori di una tesi.
Ciò spiega per quale ragione la maggior parte delle posizioni si lasci davvero inquadrare nelle categorie estremistiche. Le persone che le sostengono sono davvero berlusconiani o antiberlusconiani; pentastellati o antipentastellati; leghisti o antileghisti; comunisti o anticomunisti; fascisti o antifascisti; immigrazionisti o anti-immigrazionisti; omofobi o omofili; femministi o maschilisti; covidisti o anticovidisti; no mask o sì mask; europeisti o nazionalisti; creduloni della Gruber o di Riotta o creduloni di spostati che postano sulla rete, vaccinisti e antivaccinisti.
Forse addirittura cresciamo tifando, siamo educati a tifare, a casa e a scuola. È la nostra natura maligna della quale siamo chiamati a liberarci: la liberazione dal tifo è una delle principali forme di liberazione, forse la principale. Ma è fenomeno raro.
Certamente, se tifiamo, non ci sentiamo mai soli, siamo in gruppo, apparteniamo ad una schiera. E questa, forse, è una ragione per la quale in una società che ha distrutto pressoché tutte le comunità, la gente è particolarmente restia ad abbandonare gli schieramenti “ideali” (o forse mediatici e addirittura fantomatici) e non ha la minima intenzione di liberarsi.
D’altra parte, nei lunghi anni in cui io sono stato tifoso e fanatico, non ne ero nemmeno consapevole, pensavo di pensare – anche se come dice Gaber ero un conformista che pensava per sentito dire, con tre giornali sotto il braccio. Non ci fa niente. Bisogna prendere atto della realtà. Non bisogna minimamente dispiacersi. Siamo uomini massa, non dei, non condottieri, non fondatori di civiltà.
Solo l’azione, volta ad uno o altro risultato, compresa la elaborazione di idee, può renderci cauti, concreti, ponderati, dubbiosi, pragmatici, pazienti, analitici, maturi. Solo l’uomo di azione può pensare (“può”, perché non sempre pensa). L’uomo che non inserisce i propri pensieri in una azione, per forza di cose tifa ed è fanatico: è perennemente giovane.
È così. Non può che essere così. È logico, provato da tutta la storia. E in fondo, proprio per queste ragioni, non vi è motivo per cui le cose dovrebbero stare diversamente.
L’azione è condizione necessaria ma non sufficiente del pensiero. Perciò il pensiero è raro.
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