Il progressista è un conformista
da L’INTELLETUALE DISSIDENTE (Fabrizia Sabbatini)
Esce in sala “La scelta di Anne”. Premiato a Venezia, pro-aborto, è il degno specchio dell’ideologia conformista
Il Ddl Zan è morto, il Ddl Eutanasia è in fin di vita e anche il patriziato liberal locale non si sente molto bene. I progressisti di casa nostra, infatti – che non ne azzeccano una forse dai tempi delle unioni civili, contentino di civilizzazione in salsa italiana – vivono un momento cupo, di depressione, dato dal ritorno delle battaglie ideologiche, intra ed extramoenia parlamentari. Ma anche oltre i confini dello Stivale la situazione non è messa meglio, la culture war è in atto ovunque, arriva fino a latitudini oltreoceaniche.
Non resta quindi che rivangare nel passato, scavare nella fossa, riesumare vecchi bottini di guerra, spolverarli, lucidarli, tirarli a nuovo e propinarli al proprio boario uditorio, rivendendoli come attuali.
Teatrino di questa pantomima, il recente Festival del Cinema di Venezia – divenuto ormai il Sanremo della settima arte – che ha visto il trionfo e la relativa assegnazione del famigerato leone aureo al film L’événement, ovvero la pellicola pro-aborto in concorso quest’anno. Premio di consolazione – leone d’argenteria – per il partenopeo Sorrentino, troppo conservatore, troppo antimoderno, troppo tutto. Ma questa è un’altra storia.
L’evento – tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Annie Ernaux (L’Orma editore) – farà il suo esordio nelle sale italiane oggi, ma il fermento dalla fragranza agée di vecchi sessantottini e anziane femministe colpisce finanche quelli di nuova generazione, che già costellano i giornali mainstream di entusiastiche colonne.
Il battaglione del progresso scaduto è infatti pronto per il raduno, le giacche di velluto a costine e i pantaloni a zampa di elefante sono stati prontamente riesumati dalla naftalina, le nostalgiche truppe sono pronte a schierarsi educatamente in fila all’ingresso dei cinema, preferibilmente non multisala, per poi ricongiungersi, all’uscita, e dare vita al dibattito old style sul tema ormai ammuffito dell’aborto.
Il film, in Italia, si chiamerà La scelta di Anne, in ossequio alla tradizione in cui gli italiani sono – e si confermano – veri maestri, ossia quella di generare titoli tristi e banali per soppiantare quelli originali, se non altro dotati d’una propria coerenza primaria (basti ricordare lo scempio compiuto ai danni di Eternal sunshine of the spotless mind di Michel Gondry, italianizzato in Se mi lasci ti cancello). Le tribune giacobine della critica, che hanno accolto con plausi e boati l’uscita e la premiazione della pellicola di Audrey Diwan, trasmettono quasi una sorta di grottesca tenerezza, la stessa che si prova nel vedere Fantozzi brindare allo scoccare della mezzanotte fasulla, anticipata dal maestro Canello, per poi rendersi conto dell’inganno. Il senso della realtà è pressoché lo stesso.
Sono trascorsi infatti più di quarant’anni dall’entrata in vigore della Loi Veil in Francia e dalla Legge 194 in Italia – che hanno depenalizzato e disciplinato l’interruzione volontaria di gravidanza – e, con ogni probabilità, non esiste un tema su cui il pensiero attuale sia più appiattito ed uniforme. Presentare un film sull’aborto, oggi, non è certo un’ardimentosa impresa, un’iniziativa eroica, spericolata, si tratta banalmente di un film come un altro – bello o brutto che sia – ma non per questo meritevole di “giusta” premiazione, come sostenuto da alcuni. In tal caso, vi è solo il trionfo della prevedibilità.
Il canone, infatti, è sempre il medesimo – cinema, letteratura, teatro – se l’opera è engagé e politicamente corretta scatta la pubblica lode, se non lo è, che vada pure a farsi benedire. Ma il progressista medio vive coi paraocchi, senza rendersi conto di una realtà che evolve, muta, si trasforma. Se nei primi anni Sessanta i più giovani vivevano immersi in una dilagante ignoranza – o strafottenza – sessuale e la contraccezione era illegale, l’aborto – comunque la si pensi al riguardo – era certamente un tema da débat public, ma nella postmodernità, in cui tutto è sdoganato – dal sesso virtuale alla cosiddetta pillola dei cinque giorni dopo – davvero si osa ancora ipocritamente definire “coraggioso” un film che tratta una tematica da decenni non più tabù per nessuno?
Ultimamente poi, il bersaglio prediletto dei feticisti del progresso è divenuto il Texas, con il suo recente abortion ban – l’interruzione di gravidanza ritenuta illegale dopo la sesta settimana (la legge è attualmente al vaglio della Corte Suprema) – contro il quale vengono scagliati dardi infuocati, perché la democrazia liberal funziona così, quando manca la maggioranza si urla automaticamente alla dittatura e il potere del popolo non è più degno di garanzie. Ma rimembrare le antiche battaglie si tramuta solo in un esercizio di memoria, di celeste nostalgia, si finisce per parodiare sé stessi, con quella brama di rivoluzione permanente, divenuta ormai solo pane per denti esaltati, da parte di quella schiera di individui che imposta tutto con la ragione per imporre i propri imperativi morali e poi vendersi a una politica fatta di emozioni, di sentimentalismo, alla perenne ricerca di un nemico da osteggiare, di una battaglia da combattere. È la patologia del Sessantotto infinito.
I progressisti di oggi si rivelano infatti, ancora una volta, i veri conservatori, con la loro smania di congelare gli status quo ante, senza guardare avanti. La nave imbarca acqua, rode lo scafo, ma loro continuano a suonare, in abito da sera, come l’orchestrina del Titanic sul ponte principale, mentre tutto intorno affonda. Che poi, libertà, coraggio, diritti a profusione, premi e tabù e nemmeno l’onestà di chiamare le cose con il proprio nome, conferendogli almeno la dignità del linguaggio.
Annie Ernaux, con il suo tipico tono pedante, nel libro – ambientato nel 1963, epoca in cui era una giovane ragazza – utilizza espressioni quali “questa realtà dentro la pancia”, “questa cosa qui”, mentre sceglie di farsi strappare clandestinamente il suo bambino dal grembo, di abortire il proprio figlio, rischiando la vita, per sottrarsi a un destino proletario, per proseguire gli studi, perpetuare la propria esistenza da intellettuale. E proprio in quanto trattasi di scelta sofferta, struggente, l’idea di sventolare il dolore, l’orrore, come una conquista sociale, strumentalizzarlo su un tappeto rosso, festeggiarlo a lustrini e champagne, per godere del marcescente strascico di vecchi fasti progressisti, è qualcosa di aberrante, di disgustoso. Non ha certamente nulla in comune con quella “civilizzazione” professata dai sostenitori della causa ma è forse più vicina ad un futuro prossimo governato da quelle possibilità che l’ingegneria sociale potrà concedere all’individuo – uomo o donna che sia – insieme alle peggiori nefandezze. Da quando il nichilismo è divenuto infatti emblema di civiltà?
“Nell’amore e nel piacere non mi sentivo un corpo intrinsecamente diverso da quello degli uomini”
scrive l’autrice, ed eccolo lì, il grande errore del femminismo, quello dell’affermazione del proprio successo nel mondo femminile attraverso l’erosione della sua caratteristica, naturale differenza rispetto a quello maschile – la maternità – tramite il diritto all’aborto.
In maniera molto più brutale ma molto più realista, Carmelo Bene – che soleva autodefinirsi un aborto vivente – diceva:
“Ha ragione Schopenhauer: il sospiro degli innamorati è in realtà la specie che vagisce. Non esiste la copula, è la specie che bussa”.
Lo scorso settembre, invece, ben poche sale cinematografiche hanno aderito alla programmazione di Unplanned. La storia vera di Abby Johnson, film anch’esso di matrice autobiografica (il libro da cui è tratto – Scartati-La mia vita con l’aborto – in Italia è stato pubblicato da Rubbettino), in cui la direttrice di una clinica abortiva si ritrova per un caso fortuito ad assistere dal monitor ad un’interruzione di gravidanza – con il profilo del bambino che scalcia, cercando di respingere la cannula che lo risucchia – cambiando così per sempre la sua visione dei fatti e diventando un’attivista pro-life. Ovviamente, a parte qualche giornale di ispirazione cattolica, nessuno, nei media conformisti, ne ha fatto menzione.
Ma è qui che il presunto conservatore si mostra più progressista del suo detrattore. Rompere un tabù, non è forse, oggi, mostrare cosa accade a un cuore che smette di battere?
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/la-scelta-anne-aborto-cinema/
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