Morti Covid al Trivulzio. Le famiglie contrarie all’archiviazione della procura
di BYOBLU (Davide G. Porro)
La vicenda del Pio Albergo Trivulzio (PAT) di Milano rappresenta un caso esemplare di quanto successo in tante altre RSA in Italia.
Quando iniziò la crisi epidemica in quella storica struttura si verificò una strage di anziani ospiti ma anche numerosi contagi tra gli operatori sanitari.
Sono circa 400 i casi su cui negli ultimi 18 mesi si sono concentrate le indagini della magistratura inquirente, che ha verificato la sussistenza di elementi probatori in relazione al reato di epidemia colposa, rilevando altresì numerose condotte “attive” che hanno positivamente agevolato la diffusione del virus all’interno della struttura.
Tra queste, appare accertato il divieto, che sembrerebbe stato impartito inizialmente dalla dirigenza del Pio Albergo Trivulzio sotto minaccia di sanzioni, di utilizzare dispositivi di protezione individuale autonomamente procurati dai dipendi.
Appare anche una condotta imprudente quella di acconsentire al ricovero di 17 pazienti a marzo 2020 provenienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni, in assenza di tampone negativo e contro il parere del primario del reparto, tre dei quali risultati poi positivi al Covid.
La Procura si è affidata ad un team composto da cinque medici e professori universitari esperti in medicina legale, malattie infettive, epidemiologia clinica e medicina del lavoro.
Gli esperti della procura hanno riferito che le condotte tenute nei primi mesi dell’emergenza epidemica hanno contribuito causalmente alla verificazione dell’epidemia all’interno della RSA.
Infatti, negli atti scrivono che “l’applicazione di efficienti misure di isolamento dei pazienti all’interno della struttura e di screening virologico avrebbe con ogni verosimiglianza limitato la diffusione del contagio all’interno del Pio Albergo Trivulzio”.
I consulenti tecnici del Tribunale hanno anche rilevato una omessa formazione dei dipendenti, specialmente quelli a contatto diretto con i pazienti, in merito al corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale.
Questa mancanza sarebbe risultata correlata “con la percentuale maggiore di positività al tampone” primariamente degli operatori sanitari impiegati nella struttura.
Nonostante ciò, la Procura di Milano ha proposto l’archiviazione del procedimento asserendo la difficoltà a dimostrare il nesso di causalità tra le condotte e l’epidemia, per “l’impossibilità di tracciare con ragionevole certezza il percorso del virus nel suo ingresso e diffusione nella struttura”.
A questo punto una ventina di famiglie delle vittime, insieme ad alcuni operatori socio sanitari ed alla associazione Felicìta che si occupa di questa vicenda e di altre sul territorio nazionale, hanno proposto opposizione all’istanza di archiviazione promossa dei pubblici ministeri milanesi.
Siamo stati nello studio legale LSM & Associati di Milano, incaricato della difesa, per comprendere meglio le ragioni dell’opposizione all’archiviazione.
“Abbiamo ricostruito una parte di queste condotte, così come emergono già negli atti della Procura in cui viene richiesta l’archiviazione” ha dichiarato l’avv. Luigi Santangelo ai nostri microfoni.
“Si tratta, da un lato, di condotte omissive che hanno avuto quale effetto il mancato impedimento, prima dell’ingresso e poi della diffusione del virus nella Struttura – continua Santangelo – con il risultato che non è davvero necessario dimostrare l’esatto percorso del virus per accertare il rapporto di causalità tra le condotte e l’epidemia”.
Lo studio legale ha quindi depositato, in questi giorni, l’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento penale n. 10619/2020.
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