Lo spazio non fa buon sangue
da SCIENZA IN RETE (Claudio Elidoro)
La tecnologia rende i viaggi spaziali di lunga durata sempre più fattibili; tuttavia, in questo campo, non si può dimenticare la fragilità dell’organismo umano quando lascia il suo pianeta. Due recenti studi hanno messo in evidenza alcuni problemi in cui incorrono gli astronauti, e che dovranno essere approfonditi e tenuti presenti nell’ottica di lunghe missioni spaziali.
Nell’immagine: scorcio della Stazione spaziale internazionale in un sorvolo notturno della regione tra il Mar Nero e il Mar Caspio. In primo piano, a sinistra, la capsula dell’equipaggio Soyuz MS-18 e, a destra, il Multipurpose Laboratory Module chiamato Nauka. Lo studio di come reagisce l’organismo umano alle condizioni presenti sulla stazione spaziale è fondamentale per comprendere gli effetti dei lunghi viaggi interplanetari. Il quadro emerso finora è piuttosto preoccupante.
Sul versante della tecnologia, i viaggi spaziali di lunga durata sembrano sempre più vicini. Space X prosegue i suoi test di volo del progetto Starship, il sistema di trasporto completamente riutilizzabile pensato per voli interplanetari di lunga durata (con Marte nel mirino), la NASA confida al più presto di concretizzare il progetto Artemis per un ritorno sulla Luna e la CNSA (l’Agenzia spaziale cinese) ha allo studio una nuova versione del suo vettore Lunga Marcia 5 in grado di far scendere entro qualche anno un suo astronauta sul nostro satellite (con il sogno di Marte nel cassetto). Passi da gigante rispetto al panorama tecnologico degli anni in cui USA e URSS si contendevano il primato spaziale e la conquista della Luna. Le missioni umane nello spazio, soprattutto quelle a maggiore durata, non possono però assolutamente lasciare da parte le numerose e preoccupanti fragilità che l’organismo umano mostra quando abbandona per lunghi periodi il confortevole pianeta che lo ospita. Negli ultimi mesi altre due allarmanti scoperte si sono aggiunte a quelle ormai ben note.
Cervello a rischio?
La prima scoperta, pubblicata online lo scorso ottobre su JAMA Neurology da Peter zu Eulenburg (Ludwig-Maximilians-University Munich) e collaboratori, riguarda la presenza nel sangue di alcuni astronauti di elevati livelli di proteine che solitamente si rilevano in pazienti con trauma cranico o malattie neurodegenerative. Benché il campione esaminato dagli autori dello studio sia piuttosto esiguo – solamente cinque astronauti – il quadro che emerge non può essere sottovalutato. La constatazione che gli astronauti rientrati a Terra dopo lunghe missioni presentassero problemi di vista ha indotto i ricercatori a indagare sempre più a fondo sull’importanza che ha per il cervello umano una prolungata permanenza nello spazio.
Qualche anno fa, sul New England Journal of Medicine, Donna Roberts (Medical University of South Carolina) e collaboratori avevano pubblicato un rapporto relativo a una ventina di astronauti in cui descrivevano come, ricorrendo a risonanza magnetica cerebrale, si rivelava una perdita di volume della materia grigia e un aumento del volume del liquido cerebrospinale. Nella ricerca, però, non si valutava cosa potessero comportare tali cambiamenti cerebrali per la salute e i processi cognitivi. Proprio per provare a chiarire questo importante aspetto e in cerca della traccia di possibili lesioni cerebrali, il gruppo di zu Eulenburg ha misurato i livelli di cinque diverse proteine nel sangue di cinque cosmonauti maschi sia prima che dopo la permanenza di circa sei mesi sulla stazione spaziale. È pur vero che il miglior fluido per lo studio di questi biomarcatori è il liquido cerebrospinale, ma per accedervi è necessario un prelievo spinale invasivo. Per questo i ricercatori hanno optato per l’analisi sanguigna, altrettanto affidabile ma con decisamente meno problemi nell’acquisizione dei campioni.
Dopo aver misurato i livelli delle proteine 20 giorni prima del lancio, i ricercatori hanno calcolato il livello medio per ciascuna proteina nei cinque cosmonauti. Una volta terminata la missione spaziale, sono stati effettuati altri tre prelievi (un giorno, una settimana e una ventina di giorni dopo il ritorno) e confrontati i livelli con quello medio.
L’analisi ha mostrato come il livello di due proteine si mantenesse a livelli elevati anche una settimana dopo il rientro e, pur diminuendo nelle successive due settimane, restasse comunque al di sopra del livello medio per ogni cosmonauta. Per altre due proteine, poi, si è notato come il loro rapporto seguisse un andamento che talvolta si rileva in pazienti soggetti a condizione neurodegenerativa. «Si tratta ovviamente di uno studio pilota – ha dichiarato zu Eulenburg – ma la qualità dei dati e l’analisi sono così solide che non ho dubbi sull’effetto complessivo. È molto sorprendente che alcuni livelli siano rimasti elevati per tutte e tre le settimane: dai risultati emerge la prova di un danno cerebrale come conseguenza dell’esposizione di lunga durata alle condizioni di microgravità».
Commentando i risultati, Donna Roberts (non coinvolta nella ricerca) ha sottolineato che lo studio contiene dati che suggeriscono che ci possa essere un qualche tipo di lesione al cervello, ma ritiene che sia indispensabile un’analisi più dettagliata che non solo misuri i biomarcatori per più tempo dopo il rientro degli astronauti, ma anche durante la loro permanenza sulla stazione spaziale. Questo potrebbe aiutare a determinare se i livelli elevati siano effettivamente dovuti al tempo trascorso in regime di microgravità o se, invece, la causa vada ricercata nel brusco cambiamento di gravità nel rientro a Terra o nell’intensa forza sperimentata durante l’atterraggio.
Anemia spaziale
Il secondo studio, pubblicato da Guy Trudel (Ottawa Hospital Research Institute) e collaboratori su Nature Medicine a metà gennaio, riguarda la cosiddetta anemia spaziale, cioè la drastica diminuzione del numero dei globuli rossi che si verifica negli astronauti. Prima di questo studio si pensava che l’anemia spaziale – costantemente segnalata fin dalle prime missioni – fosse un rapido adattamento allo spostamento dei fluidi nella parte superiore del corpo dell’astronauta al suo arrivo nello spazio. Questo fenomeno comporta per gli astronauti una perdita del 10% di liquidi nei vasi sanguigni e si riteneva che la rapida distruzione del 10% di globuli rossi fosse il modo per ripristinare il necessario equilibrio, ma che tutto tornasse alla normalità già dopo una decina di giorni nello spazio.
Il gruppo del dottor Trudel ha invece scoperto che la distruzione dei globuli rossi non è la conseguenza dello spostamento dei liquidi, bensì un effetto primario del trovarsi nello spazio. Sono giunti a tale sorprendente conclusione misurando direttamente la perdita di globuli rossi in 14 astronauti nel corso dei sei mesi delle loro missioni sulla stazione spaziale. I dati raccolti indicano che, nel corso della loro permanenza sulla stazione, gli astronauti distruggevano il 54% di globuli rossi in più di quanto normalmente avrebbero fatto sulla Terra. Risultati che non fanno distinzione di genere, mantenendosi praticamente identici sia per gli astronauti di sesso femminile che per quelli di sesso maschile.
Da questo studio emerge che, al momento del loro rientro a Terra, 5 astronauti su 13 – a uno non è stato effettuato il prelievo – erano clinicamente anemici. Fortunatamente, questa anemia legata allo spazio appare reversibile: i livelli di globuli rossi, infatti, tornano progressivamente su valori accettabili tre o quattro mesi dopo il ritorno sulla Terra. Un ritorno alla normalità molto graduale, visto che, ripetendo la misurazione un anno dopo il rientro, la distruzione dei globuli rossi era ancora del 30% al di sopra dei livelli rilevati prima della missione.
Ciò che più preoccupa, soprattutto pensando a missioni di lunga durata quale può essere quella verso Marte, è che il livello di anemia è direttamente legato alla durata della missione spaziale. È questa, infatti, la conclusione alla quale giungono Trudel e collaboratori in uno studio pubblicato nel dicembre 2019 sull’American Journal of Hematology che ha preso in considerazione oltre 17 mila misurazioni della concentrazione di emoglobina raccolte nel corso di 721 missioni spaziali. Una situazione che suggerisce alcune considerazioni. Oltre a evidenziare la necessità di individuare e predisporre una dieta mirata per gli astronauti, indica anche l’importanza di tener conto dei livelli individuali di globuli rossi non solo nella scelta dei futuri astronauti, ma anche in quella dei semplici “turisti spaziali”. Sarà comunque da chiarire al più presto, infine, per quanto tempo l’organismo possa sopportare senza gravi conseguenze questo anomalo tasso di distruzione e produzione di globuli rossi.
Il sogno dell’uomo su Marte, insomma, non è proprio a portata di mano.
FONTE: https://www.scienzainrete.it/articolo/lo-spazio-non-fa-buon-sangue/claudio-elidoro/2022-01-25
Commenti recenti