La presenza ai vertici politici – nella fattispecie al ministero della Difesa, con Sergey Shoigu e alla vicepresidenza della Duma con Sholban Kara Ooh – di due nativi della piccola Repubblica di Tuva, uno dei soggetti federali più poveri della Federazione Russa, ci porta a fare alcune considerazioni sul ruolo delle minoranze etniche nell’architettura dello Stato russo. L’impero russo è notevolmente ridotto rispetto ai fasti zaristi e sovietici. Sembrano ormai lontani, anche se non lo sono, i tempi in cui l’Asia Centrale, i Paesi baltici, l’Europa orientale e il Caucaso facevano parte di un’unica entità politica, con centro a Mosca, imperniata sull’heartland e sul popolo russi.
Nonostante la Federazione Russa sia abitata per l’80% circa da russi etnici, e quindi sia etnicamente più omogenea degli Stati Uniti, la sua struttura politico-demografica rimane ancora in bilico tra quella di un’impero e quella di uno Stato-nazione. Soprattutto a causa del fatto che le minoranze etniche non sono, come negli USA o nel Regno Unito, frutto di immigrazione più o meno recente e disseminate nell’intero territorio nazionale, ma sono invece concentrate in determinate zone geografiche con una storia antica e separata benché parallela rispetto a quella della Russia propriamente detta, che oggi si rispecchia in entità amministrative ben definite.
La Russia, da quando ha un impero, ha sempre provato a risolvere la disomogeneità etnica e culturale (in certi periodi riuscendoci, in altri no) tramite la centralizzazione del potere amministrativo, oltre che con la repressione delle minoranze “ribelli”. Durante l’era sovietica, escludendo la triste parentesi delle deportazioni di massa di Stalin (che pure era egli stesso di minoranza etnica, in quanto georgiano), la russificazione andò di pari passo con un tentativo di cooptare le minoranze etniche e un tentativo più o meno sincero di rendere l’URSS un vero stato multinazionale.
Dopo la breve parentesi di Boris Eltsin, che notoriamente disse ai soggetti federali russi di “prendersi il massimo di sovranità che riuscivano a sopportare”, con Vladimir Putin si torna alla centralizzazione dello Stato russo tramite una serie di riforme – costituzionali e non – come l’istituzione dei “distretti federali”, suddivisioni territoriali “monitorate” da un plenipotenziario del Cremlino che si fa garante, ricordando il “centralismo democratico” sovietico, dell’omogeneità del diritto russo e dell’applicazione degli indirizzi generali del Presidente; o come la sostituzione dell’elezione dei presidenti dei soggetti federali da parte dei parlamenti locali con la nomina da parte Mosca. Questo processo avviene di pari passo con la riconquista militare della Cecenia, realizzata anche tramite alla cooptazione di settori della popolazione e dell’élite locale.
Tornando al punto da cui siamo partiti, osserviamo che, parallelamente alla necessità da parte del centro politico di tenere le minoranze etniche sotto la propria ala, le suddette minoranze tendono a concentrarsi nelle zone più povere della Federazione, e tendono inoltre ad avere tassi di fertilità nettamente superiori rispetto alle zone abitate da russi etnici. Tuva è il soggetto federale con il tasso di fertilità più alto (2.97, in crescita rispetto all’inizio del millennio), la Cecenia il secondo. Gli abitanti di questi soggetti federali, con poche prospettive economiche e una crescita demografica che non sono in grado di sostenere, spesso vedono nella carriera militare – che può sfociare anche in un impiego nelle forze delle ordine – o politica la loro migliore opportunità. I dati sulla composizione etnica dell’esercito russo sono secretati, ma molti analisti concordano sul fatto che le minoranze etniche siano largamente sovrarappresentate, addirittura qualcuno ritiene che i russi etnici rappresentino una minoranza.
Questa tendenza è capita perfettamente dal Cremlino, che ha bisogno di assicurarsi un bacino demografico per le sue imponenti forze armate, oltreché la fedeltà delle minoranze che vivono ai margini della Federazione. Non è quindi un caso che Putin dia così tanto risalto ad una figura come Sergei Shoigu, il ministro della Difesa ritenuto anche un suo possibile successore, tanto da farcisi fotografare insieme in vacanza. O che sottolinei costantemente il suo rapporto speciale con Ramzan Kadyrov, il presidente della Cecenia nonché uno dei maggiori sostenitori del suo sforzo bellico in Ucraina, tanto da inviare al fronte la sua milizia personale, i kadyrovtski.
Non sono casuali le parole che Putin ha pronunciato pochi giorni fa, a proposito del primo caduto delle forze armate russe: “Sono un russo e, come si dice, ho Ivan e Masha nel sangue. Ma quando vedo esempi di eroismo come quello del giovane Nurmagomed Gadzhimagomedov, nativo del Daghestan, un Lak di nazionalità, ai nostri altri soldati voglio dire: sono un Lak, sono un daghestano, sono ceceno, inguscio, russo, tataro, ebreo, mordvino, osseto”.
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