I negoziati di Istanbul, la strage in Israele e le bizzarrie di Biden
da PICCOLE NOTE (Davide Malacaria)
Nessun accordo reale nei negoziati di Istanbul, nonostante ieri si fosse registrato un certo ottimismo (invero esagerato). Il partito della guerra continua a minare gli sforzi diplomatici dispiegati da mezzo mondo, come dimostra la bomba lanciata sull’incontro dal Wall Street Journal, che annunciava come i negoziatori ucraini, tra le cui file era stato inserito l’oligarca anglo-russo Roman Abramovich, fossero stati avvelenati dai russi.
A negare lo scoop, che il WSJ aveva ricevuto da Bellingat, un team di cronisti investigativi indipendenti (leggi Cia), anche i diretti interessati. A iniziare dal negoziatore Mykhailo Podolyak, che affermava “Ci sono molte speculazioni, varie teorie del complotto”. Seguito da un altro membro del team, Rustem Umerov, il quale ha esortato a non fidarsi delle “informazioni non verificate” (Evening Standard).
Per finire con Ihor Zhovkva, vice-capo dell’ufficio del presidente ucraino, il quale dichiarava: “i membri della delegazione ucraina stanno bene; ero in
contatto con uno di loro e hanno detto che la storia era falsa” (tweet di Tim Franks, della BBC). Ma la bomba, benché disinnescata, ha egualmente avvelenato il clima distensivo.
Da registrare che mentre si svolgevano i colloqui di Istanbul, in Israele, che sta mediando in parallelo con la Turchia, si è registrata una nuova strage, la terza in una settimana: un lupo solitario ha sparato e ucciso cinque persone, tra cui due ucraini residenti in Israele (Timesofisrael).
Un eccidio avvenuto, peraltro, alla vigilia dello sbarco in Israele di un team negoziale ucraino: la prima visita ufficiale di una delegazione ucraina a Tel Aviv dall’inizio del conflitto (Haaretz).
A dare l’idea che a Istanbul si potesse concretizzare qualcosa di positivo anche l’annuncio previo di Mosca sul fatto che le operazioni militari russe si sarebbero concentrate nell’Est, con il conseguente ritiro del contingente stanziato nei pressi di Kiev.
Una novità che sembrava aprire nuove possibilità. Il presidente Biden, infatti, in parallelo, dichiarava di esser disposto a incontrare nuovamente Putin, se si fosse registrata una de-escalation reale.
Una dichiarazione sorprendente e non ripresa da nessun media, della quale ha dovuto però dare atto la direttrice delle comunicazioni della Casa Bianca Kate Bedingfield nella conferenza stampa di ieri, forse perché costretta dalla domanda posta da un giornalista su tale incredibile apertura.
Sorprendente non solo per l’avversione dei media e della politica occidentale verso lo zar a seguito dell’invasione, ma anche perché, in contemporanea, Biden aveva etichettato Putin come “macellaio” e ne aveva auspicato la rimozione dal potere (parole che avevano suscitato una ridda di critiche nell’establishment globale, che ha ammonito il presidente a non eccedere in dichiarazioni incendiarie, costringendo la Casa Bianca a impervie correzioni di tiro).
E, però, come registravamo in una nota precedente (facendo riferimento anche a note pregresse), Biden usa accompagnare improvvide sparate ad aperture reali, come sembra sia capitato anche nel caso specifico.
E desta sorpresa, anche se non troppa, che nessuno abbia ripreso l’accenno alla possibilità di un incontro con Putin, che se avvenisse chiuderebbe la guerra e ne attutirebbe le terribili conseguenze globali, dal momento che il mondo sta solo iniziando a scontare il crollo della produzione di grano (1) – l’Ucraina era il granaio globale – e il durissimo contraccolpo delle sanzioni emanate contro la Russia (che non si limitano all’aumento dei costi energetici).
Né desta sorpresa che il Dipartimento di Stato, che sogna di fare dell’Ucraina il nuovo Afghanistan di Putin, abbia gettato secchiate di acqua gelida sul ritiro russo, derubricandolo a mero ridispiegamento delle forze.
Insomma, poco o nulla è cambiato. O forse no. Sorprendentemente, Vladimir Medinsky, il consigliere di Putin a capo dei negoziatori russi, ha dichiarato che l’Ucraina ha sostanzialmente accettato alcune richieste di Mosca, cioè lo status di “Paese non allineato, il rifiuto delle armi nucleari, nonché il possesso, l’acquisizione e lo sviluppo di altri tipi di armi di distruzione di massa e il rifiuto di schierare basi e contingenti militari stranieri”.
Tutto scritto in una bozza di accordo, che però rimane tale per via, sembra, delle controversie su Crimea e Donbass. Ma i negoziati, ha aggiunto Medinsky, continuano, nonostante il conflitto resti aperto (con tutto il suo corollario di orrori).
Me nel muro contro Muro eretto tra l’Est e l’Ovest del mondo si registra un avvenimento in controtendenza. Così la Reuters: “Un importante diplomatico statunitense si recherà questa settimana in Cina per discutere dell’Afghanistan con i suoi omologhi cinesi, russi e pakistani, hanno comunicato martedì il ministero degli Esteri cinese e il Dipartimento di Stato”.
È il primo incontro ad alto livello tra Russia e Stati Uniti dall’inizio dell’invasione ucraina. Ed è difficile immaginare che nel corso del summit non si parli anche del conflitto in corso.
(1) David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale, ha avvertito che la crisi ucraina minaccia di incenerire gli sforzi dell’organismo che presiede volti a fornire cibo a circa 125 milioni di persone. E ha aggiunto che il conflitto “avrà un impatto sul contesto globale molto al di là di qualsiasi cosa abbiamo visto dalla seconda guerra mondiale ad oggi” (al Manar). Altro motivo per tentare di porre fine alla guerra.
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