Il caso Pelosi a Taiwan, perché i russi attaccano Odessa e altre notizie interessanti
di LIMES
LIMES BONUS
Gazprom annuncia la riduzione al 20% delle forniture di gas alla Germania attraverso Nord Stream 1 citando un nuovo malfunzionamento tecnico. Il gas aveva ripreso a fluire attraverso la condotta baltica lo scorso 21 luglio dopo un’interruzione di dieci giorni. Abbinata al lancio di missili su Odessa dopo l’accordo sulla ripresa dell’export del grano [v. secondo commento qui sotto], la notizia confermerà nei dirigenti tedeschi e di tutta Europa la determinazione della Russia a usare il controllo sulle materie prime a corrente alternata per generare caos nella pianificazione dei paesi occidentali.
NANCY PELOSI A TAIWAN? [di Federico Petroni]
Da giorni a Washington tiene banco una possibile visita ad agosto della speaker della Camera Nancy Pelosi a Taiwan. Temendo l’innesco di un’escalation con la Cina, la Casa Bianca comunica la sua contrarietà alla stampa, riferendo che il governo di Pechino ha mandato messaggi in privato molto più minacciosi che in passato per dissuadere il viaggio. Addirittura l’entourage del presidente Joe Biden dice di temere che la dirigenza cinese faccia intercettare l’aereo militare che trasporterebbe Pelosi oppure dichiari il divieto di sorvolare i cieli sopra Formosa.
Perché conta: La Casa Bianca non è disposta a correre il rischio di un’escalation con la Cina. E nemmeno le Forze armate, secondo il presidente contrarie alla visita della speaker. Avendo contro due dei principali centri di potere, fra cui quello che materialmente consentirebbe il viaggio, anche un’istituzione autonoma e potente come il Congresso dovrà cedere.
Sono 25 anni che un presidente della Camera, terza carica dello Stato, non va a Taipei. L’ultima volta era il 1997 e Newt Gingrich vi fece scalo dopo una tappa a Pechino, dove ammonì la dirigenza comunista di non osare attaccare l’isola, pena un intervento degli americani, che solo pochi mesi prima avevano schierato la portaerei Nimitz nello Stretto di Taiwan. Era un altro mondo.
Oggi i cinesi sono militarmente più potenti e gli statunitensi assai più presenti a Formosa. Da circa due anni, delegazioni sempre più ufficiali di funzionari americani si recano sempre più frequentemente a Taiwan. I militari a stelle e strisce hanno reso palese la loro presenza sull’isola, sia pure contenuta, non stanziale e per scopi addestrativi.
Viceversa, la Repubblica Popolare ritiene la situazione sempre meno accettabile. Percepisce questa tendenza come un progressivo svuotamento della politica della Cina unica da parte degli Stati Uniti: d’altronde in questi mesi due ex segretari sotto Trump, Mike Pompeo e Mark Esper, hanno apertamente invocato il riconoscimento di Taiwan. Inoltre, sono mesi complessi per il presidente Xi Jinping, fra le rivolte contro la politica zero Covid, le ricadute di questo approccio sulla produttività e la delicata preparazione del XX Congresso del Partito comunista, dal quale vuole un inedito terzo mandato. Avendo scommesso molto sul recupero di Taiwan – con le buone o con le cattive – la visita di Pelosi costituirebbe più di un fastidioso imbarazzo, anzitutto dinanzi al crescente nazionalismo dell’opinione pubblica.
Con l’indurimento della retorica, la dirigenza pechinese punta come minimo a mettere un tetto al livello di ufficialità dei rapporti tra Washington e Taipei. E possibilmente cominciare a invertire la tendenza, cioè a far arretrare gli americani. Inizia infatti a ventilare usi sempre meno incruenti della forza (la no-fly zone) per reclamare l’esclusività della propria sfera d’influenza. Anche oltre Taiwan, come suggeriscono le parole del ministro degli Esteri Wang Yi secondo cui il Mar Cinese Meridionale non è un «parco safari» per la «competizione fra potenze». Sembra voler testare fin dove intendono spingersi gli Stati Uniti.
Quest’ultimo punto non è chiaro nemmeno agli stessi americani. Il dibattito si divide fra chi pensa che la Cina si stia indebolendo e sia giunto il momento di metterla ulteriormente in difficoltà, a cominciare da Taiwan (posizione dei repubblicani, soprattutto trumpiani, e di buona parte del Congresso), e chi invece ritiene sempre più probabile una crisi che potrebbe cogliere impreparate le Forze armate e dunque necessario disinnescare i possibili focolai, senza rinunciare a iniziative di contenimento economiche e militari (posizione dei democratici e degli apparati). La seconda corrente è maggioritaria, ma la prima ha seguaci in molte istituzioni.
Per approfondire: Quad, Ipef e Taiwan, le carte di Biden contro la Cina
MISSILI SU ODESSA DOPO L’ACCORDO SUL GRANO [di Mirko Mussetti]
Il giorno dopo la firma degli accordi sui “corridoi del grano” tra Russia e Ucraina con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite, le Forze armate russe hanno attaccato con missili il porto di Odessa. Kiev ha denunciato la distruzione di un silos di cereali; Mosca ha smentito, dichiarando l’affondamento di una nave militare ucraina e la distruzione di un deposito di missili Agm-84 Harpoon di produzione statunitense.
Il ministro degli Esteri della Federazione Russa Sergej Lavrov ha sostenuto che Mosca rispetterà le intese sottoscritte.
Perché conta: Tecnicamente la Russia non ha violato gli accordi siglati venerdì, poiché il cessate-il-fuoco è previsto solo nelle fasi di carico e transito delle navi mercantili. Non è dunque il caso dell’attacco missilistico di sabato 23 luglio. Ma l’indignazione e lo sconforto serpeggia nelle cancellerie occidentali e tra gli attori protagonisti dello sforzo diplomatico, come nel caso del segretario generale dell’Onu António Guterres che condanna «inequivocabilmente» l’accaduto.
L’intesa sul grano rimarca piuttosto due distinti approcci tra le parti belligeranti. Mentre a firmare per l’Ucraina è stato il ministro delle Infrastrutture Oleksandr Kubrakov, a siglare l’accordo per la Russia è stato il ministro della Difesa Sergej Šojgu. Il primo è avvezzo a questioni logistico-economiche, il secondo agli affari strategico-militari. Mentre per Kiev è essenziale salvare parte della produzione e ripristinare celermente l’export di derrate alimentari al fine di fare cassa, per Mosca non vi è alcuna fretta. Soprattutto fintantoché le sanzioni occidentali (pagamenti interbancari, assicurazione dei mercantili, embargo dei prodotti) che ostruiscono l’esportazione di cereali e fertilizzanti russi resteranno in vigore senza deroghe.
La Russia ha però un forte interesse militare: fare in modo che le oltre ottanta imbarcazioni straniere rimaste ancorate dall’inizio della guerra sulle coste ucraine lascino la zona litoranea e possibilmente il Mar Nero. Per le Forze armate di Mosca i mercantili forestieri costituiscono solo un fastidioso (e rischioso) ingombro per il prosieguo delle attività belliche in «altri territori».
Ecco dunque che l’attacco missilistico al porto di Odessa costituisce un messaggio diretto agli armatori: con o senza grano, l’accordo di Istanbul è la finestra ottimale per abbandonare i porti ucraini. E non farvi più ritorno. Se la Russia si riserva il “diritto” di continuare ad attaccare i porti marittimi di Odessa, Čornomors’k e Južne oggetto del patto, cala sia la predisposizione dei vettori marittimi ad affacciarvisi di nuovo sia la disponibilità delle compagnie ad assicurare le navi e i suoi preziosi carichi.
Se per l’Ucraina, la Turchia e le Nazioni Unite i documenti sottoscritti rappresentano un nulla osta per lo stabile ripristino dei commerci, per la Russia si tratta di un biglietto di sola andata offerto agli operatori rimasti bloccati il 24 febbraio 2022. Una rimozione di ostacoli fisici, accompagnata dalla pressante richiesta di sminare i porti ucraini.
Per approfondire: Luci e ombre dell’accordo sul grano (video)
🎨 Carta: I maggiori importatori del grano ucraino
MENO PROGETTI CINESI IN RUSSIA [di Federico Petroni]
Un rapporto dell’Università di Fudan a Shanghai citato dal Financial Times riferisce che gli investimenti cinesi in Russia nell’ambito delle nuove vie della seta si sono ridotti a zero. Nel 2022 non è stato firmato nessun accordo in tal senso fra i due paesi. È la prima volta che accade dal lancio dell’iniziativa nel 2013.
Perché conta: Benché abbia denunciato la guerra economica occidentale alla Russia, la Cina ha dimostrato molta cautela nel tentativo di non permettere alle proprie imprese e ai propri progetti di incappare nelle sanzioni.
L’atteggiamento non è dovuto a una divergenza strategica fra le due cancellerie e nemmeno alla volontà di Pechino di non passare per chi finanzia l’aggressore – infatti ha aumentato le importazioni di idrocarburi, che molto più direttamente degli investimenti delle vie della seta entrano nelle casse dello Stato russo. La motivazione è molto più contingente: il governo cinese non vuol rischiare di veder congelata una liquidità.
Pesa probabilmente anche l’intenzione di vedere come evolverà il clima degli investimenti in Russia: se la Federazione restasse isolata dai principali circuiti finanziari nel medio periodo, potrebbe non essere un ambiente remunerativo. In ogni caso, i progetti di Mosca di sviluppare l’Artico e l’Estremo Oriente ne usciranno come minimo ritardati, se non addirittura compromessi, perché si basavano su capitali giapponesi (azzerati), sudcoreani (idem) e cinesi (temporaneamente ridotti).
La Cina ora preferisce investire in altri lidi, in particolare in Medio Oriente: sia nel 2021 sia probabilmente nel 2022 è stato un paese arabo il primo destinatario degli investimenti delle nuove vie della seta, l’Iraq lo scorso anno e quest’anno (finora) l’Arabia Saudita. Chiaro come Pechino intenda comunque diversificare il paniere energetico, senza affidarsi unicamente ai russi. Il rapporto dell’Università di Fudan segnala infatti che, nonostante la riduzione delle cifre stanziate per le nuove vie della seta, i nuovi accordi siglati dai cinesi siano più mirati, in particolare per garantirsi l’accesso alle risorse, a partire dagli idrocarburi mediorientali. La caccia alle materie prime, se non è accompagnata al ruolo militare del compratore, solitamente non genera rapporti di dipendenza.
Per approfondire: Usa e Nato danno la caccia alle vie della seta
DAL FRONTE UCRAINO [a cura di Giacomo Mariotto]
• Gli Stati Uniti non stanno assecondando interamente le richieste di Kiev in merito al rifornimento di ulteriori sistemi missilistici di precisione Himars. L’atteggiamento dell’amministrazione Biden, volto a valutare con prudenza un’eventuale risposta di Mosca, è considerato poco saggio dalle Forze armate ucraine sul campo. La notizia conferma che gli obiettivi di Washington e Kiev nella guerra in corso non sono perfettamente sovrapponibili.
• La Polonia ha accusato la Germania di «manovre ingannevoli»: secondo il viceministro degli Esteri polacco Szymon Szynkowski vel Sęk, i carri armati offerti da Berlino a Varsavia per rimpiazzare le forniture belliche a Kiev sono «più vecchi di quelli che abbiamo dato all’Ucraina». Le difficoltà del governo Scholz nelle consegne di armamenti pesanti a Kiev sono puntualmente sfruttate dall’avanguardia antirussa della Nato per esercitare pressione sulla Germania.
• Questa settimana, in Ucraina, un carro armato russo ha ucciso un combattente canadese, uno svedese e due americani. La notizia, inizialmente pubblicata da Politico, è stata successivamente messa in primo piano dall’agenzia di stampa russa Tass. Riportando la notizia, Mosca intende lanciare un chiaro messaggio e disincentivare la formazione di gruppi di combattenti stranieri per rimpiazzare i reparti ucraini.
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