Vietato filmare a Teheran. Intervista a Jafar Panahi
di GLI ASINI (Maurizio Braucci)
Nell’estate del 2011, io Cristina Basso andammo in Iran per consegnare al regista Jafar Panahi un premio. Quale premio? Inventato da noi, ma non completamente perché era un premio che prendemmo in prestito dalla rivista Lo straniero di Goffredo Fofi, un disegno di Gianluigi Toccafondo, due asinelli, che mi feci affidare per consegnarlo a Panahi, arrestato ingiustamente dal regime. Il viaggio venne preparato con un giornalista iraniano che vive a Roma, dovevamo incontrare il regista solo alla fine del nostro giro per il Paese come normali turisti, per non dare nell’occhio. A Teheran, Shiraz, Esafhan, Persepoli, scoprimmo una terra meravigliosa, con tanta gente dolcissima e curiosa di incontrare noi due stranieri, molti dicevano: siamo persiani e non arabi, e tu ti ricordavi di Ciro il Grande e di Zaratustra. Quella degli zoroastriani è la comunità che più ci colpi, la più libera delle comunità nell’attuale regime, dove nei week end, intorno al fuoco sacro, si rifugiano i ragazzi iraniani per fare quelle esperienze che la legge dello stato gli proibisce. Il giorno prima di ripartire per Roma, Incontrai Panahi nel suo appartamento, nella zona residenziale di Elahiyè a Teheran, la sua era una libertà vigilata, ma in realtà spiata ad ogni passo. Dovetti fargli l’intervista senza nemmeno prendere appunti, Panahi temeva che al ritorno mi fermasse la polizia, tenni tutto a mente e poi lo riversai su carta appena tornai in hotel. Panahi non parlava inglese, c’era un giovane amico a fare da interprete. Il regista mi raccontò delle sue disavventure per entrare, senza esserci poi mai riuscito, negli Stati Uniti. Non gli piaceva il fatto che bisognasse far leggere la pupilla per passare la frontiera, lo considerava fascista, Panahi è un uomo libero e ha nella dignità un valore irrinunciabile. Ha fatto dei gran bei film, spesso sperimentali, si affermò in Europa per un Leone d’Oro a Venezia con il suo “Il cerchio” nel 2000, ma prima aveva fatto “Oro rosso” il più bel film sulla frustrazione sociale, e “Lo specchio” un film nel film (aveva esordito con “Il palloncino bianco” sulla scia di Kiarostami). Era stato arrestato nel marzo 2010, perché aveva partecipato, filmandola, alla stagione delle proteste del 2009 per i brogli che avevano portato alla sconfitta del riformatore Mousavi. Poco dopo la mia intervista del 2011, che riuscii a pubblicare sul Corriere proprio mentre era in corso il Festival di Venezia, Panahi venne condannato in appello a 6 anni di carcere e a 20 di interdizione dall’attività di regista. Da allora è riuscito a fare altri 4 film, il primo nel 2011 “This is not a film”ambientato a casa sua, e via via gli altri in esterno e sempre più audaci, realizzati grazie a un espediente che dice tutto dell’Iran e della sua complessità. Il fatto stesso che Panahi potesse circolare a Teheran era una interpretazione cavillosa della sua sentenza, in quanto fosse “pericoloso per il popolo iraniano” finquando si manteneva non pericoloso mentre scontava la pena gli si permetteva una certa libertà. Panahi l’ha sfruttata comparendo come attore nei suoi film e sempre in spazi chiusi, una casa, un taxi, o filmando nella campagna remota, ma sempre intorno a una macchina che doveva essere considerato come un suo spazio privato, la sua navicella. E’ chiaro che non è tutta qui la ragione di questa paradossale detenzione (che tuttavia ha limitato notevolmente la libertà del regista) infatti Panahi è stato supportato da tanti artisti e festival e istituzioni europee che hanno tenuto il fuoco sulla sua situazione e ridotto così la repressione del regime.
Era andata così durante tutti questi ultimi anni, ma ora, mentre il mondo sta cambiando e si profila di nuovo un blocco est-ovest, la posizione dell’Iran è più aggressiva, si sa che nei venti di guerra i fascisti mostrano i muscoli. Mohammad Rasoulof è un altro bravo regista iraniano che ha subito la stessa sorte del suo amico Panahi, era detenuto dal 2011 ma era stato Orso d’Oro a Berlino nel 2020, secondo questa (se l’avete capita) assurda peripezia persiana di repressione e di arte di aggirare la censura. Racconto tutto questo perché a inizio di luglio, Panahi, Rasoulof e il loro collega Mostafa Aleahmad, sono stati di nuovo arrestati, o meglio per i primi due la pena si è trasformata in pena detentiva e con delle aggravanti. Fino ad allora, l’opinione pubblica iraniana aveva protestato per la morte di 41 cittadini nel crollo di un complesso edilizio nella città di Abadan nel maggio 2022, durante uno dei tanti progetti di speculazione del lobbismo iraniano e della corruzione statale. I tre registi hanno rilasciato dichiarazioni e promosso appelli, mentre si era sull’onda di un generale malessere per la situazione socioeconomica, che hanno scatenato il potere giudiziario (e religioso) su di loro. Ora sono in carcere, per impedirgli di parlare, in quanto personaggi ascoltati nel mondo, della situazione generale mentre l’Iran sogna una nuova e più libera posizione nel mondo (la libertà dei suoi fascisti al potere) sullo scacchiere delle nuove alleanze contro l’imperialismo USA e NATO, che non rende conveniente avere voci di dissenso. L’energia nucleare è riconosciuta come un passaporto per tutti gli stronzi, e la Repubblica islamica lo vuole possedere, mentre la sua meravigliosa e antica gente sa fare cose molto più intelligenti. Ad esempio il cinema, di cui l’Iran è una patria moderna.
Di seguito l’intervista integrale che feci a Jafar Panahi l’11 luglio 2011 a Teheran. Come lui stesso aveva previsto nell’intervista che state per leggere, il 15 ottobre 2011 il regista iraniano Jafar Panahi ha visto il processo d’appello chiudersi con la conferma della sentenza di primo grado nei suoi confronti: 6 anni di carcere e 20 di interdizione dall’attività di regista. Pur rimanendo ancora in libertà, grazie ad una legge per cui il magistrato, se non lo ritiene socialmente pericoloso, può disporre che il condannato sconti la condanna fuori dal carcere, a Panahi è proibita ogni attività artistica ed espressiva. Proibizione che il regista ha continuato a sfidare, come ha fatto in questa intervista realizzata a Teheran 41 giorni prima del processo d’appello.
4 settembre 2011
L’auto è parcheggiata davanti all’enorme edificio dove abita il regista, forse l’uomo nell’abitacolo sta già fotografando di nascosto il mio arrivo. Sono ad Elahiyè, la zona residenziale a nord di Teheran dove, prima di essere scacciate dalla rivoluzione del 1979, le elitès iraniane vivevano secondo le passioni dello scià Mohammad Reza: l’occidente, lo sfarzo e l’indifferenza per le sorti della gente comune. Jafar Panahi, l’uomo che sto per incontrare, è stato arrestato il 2 marzo 2010 per aver progettato un film sulle manifestazioni antigovernative e ha ottenuto la libertà su cauzione dopo 3 mesi passati nel terribile carcere di Evin, ma si tratta di una libertà vigilata o meglio: spiata. Per non insospettire le autorità ho agito nel modo più naturale possibile per incontrarlo, l’unica precauzione è stata di richiedere un visto turistico dove ho dichiarato di essere un insegnante, sotto il regime di Ahmenajad le parole scrittore e giornalista vanno nascoste, specialmente se vieni dall’occidente, specialmente dopo le violente repressioni di piazza del 2009 e 2011 che il governo della Repubblica Islamica continua a negare. La verità è che sono qui per intervistare Panahi e consegnargli il premio “Lo Straniero”, ma anche che se un artista può oggi ancora essere contro il Potere, qualcosa di buono si può ancora sperare dall’arte.
Una voce al citofono mi dice in inglese di salire al nono piano, tengo sottobraccio il disegno di Toccafondo con cui premierò Panahi, deglutisco per la tensione, sto entrando nella rete di controllo che il regime iraniano ha steso intorno ad uno dei suoi dissidenti, posso farcela o forse no, la fortuna non ha regole. Ma, ad ogni modo, in caso mi arrestassero, sarà Cristina, la mia compagna rimasta in un albergo del centro di Teheran, ad avvertire l’ambasciata italiana.
Jafar mi accoglie con un sorriso, parla solo farsi e per capirci ci aiuterà un giovane traduttore, Morteza Farshbaf, anche lui regista. L’appartamento è elegante e luminoso, non potendo più occuparsi di cinema, il regista ha ristrutturato con le proprie mani tutti i muri del soggiorno, lo racconta in “This is not a film” il lungometraggio fatto uscire clandestinamente dall’Iran pochi mesi fa per essere proiettato ai festival di Cannes e Venezia. Dopo i saluti, Panahi fa sparire rapidamente i nostri cellulari in un’altra stanza “Attraverso questi ci intercettano” dice. “Adesso possiamo parlare liberamente?” chiedo, lui mi fa segno di no, in casa ci sono delle microspie- Mi porta di là in cucina dove evidentemente siamo meno controllabili, ma per l’intervista ci dobbiamo spostare su un terrazzino che qui, al nono piano, è battuto dal vento. Iniziamo a conversare a bassa voce, come se ci confidassimo con le vicine montagne dell’Alborz che delimitano la metropoli a nord. Morteza traduce le mie domande a Panahi, il rumore del vento rende difficile intercettarci, siamo dentro un film di spionaggio o forse solo dentro la natura surreale del regime di Mahmouhd Ahmadinejād.
– Di cosa ti accusano?
Di due cose: di aver tramato contro la Repubblica Islamica e di aver messo in pericolo la popolazione iraniana. Né l’avvocato, né io abbiamo ancora capito cosa significano esattamente queste accuse. Sono stato arrestato nel marzo 2010 e dopo tre mesi nel carcere di Evin a Teheran ho iniziato uno sciopero della fame che ha costretto le autorità a concedermi la libertà su cauzione, per ora posso muovermi liberamente sul territorio nazionale ma non espatriare. Tra due mesi ci sarà l’appello ma sono quasi sicuro che mi faranno tornare in carcere, sono pessimista, ho poche possibilità.
– Avresti potuto fare qualcosa per evitare l’arresto?
A me non interessava fare delle denunce politiche, sono sceso in strada durante le manifestazioni perché era mio dovere, non potevo chiudere gli occhi, fare finta di niente. Da allora mi perseguitano, sono sotto una continua sorveglianza, ogni mia azione o parola può diventare il pretesto per accusarmi di qualcosa. Questa è la sorte di molti di quelli che erano in piazza in quei giorni; il carcere o la caduta in uno stato di depressione e di incertezza assoluti.
– La solidarietà che hai ricevuto dall’estero ti aiuta?
Io non ho chiesto niente, sono azioni spontanee e ringrazio tutti per l’amicizia dimostratami. Serve sì, ad esempio quando Bernando Bertolucci ha letto la mia lettera pubblicamente a Roma queste immagini sono rimbalzate tra la popolazione iraniana attraverso la tv satellitare, è importante perché la mia vicenda viene tenuta nascosta all’opinione pubblica locale. Mentre io vengo perseguitato, al Museo del Cinema di Teheran c’è una grande teca dedicata a me, con i premi vinti dai miei film. Questo dà un’idea dell’assurdità della situazione. Nel carcere di Evian, lo spazio della cella che occupavo e che, sono convinto, tornerò ad occupare, era molto più piccolo di quello che mi hanno dedicato al Museo del Cinema.
– Qual è stata la reazione del governo a “This is not a film” che hai girato insieme a Mojtaba Mirtahmasb?
Nessuna reazione, semplicemente silenzio, ma sono certo che il film verrà allegato ai capi d’accusa durante il processo d’appello, uno strumento in più per loro per farmi tornare in carcere. A questo regime non importa niente di quello che dicono di me in occidente, della solidarietà, dei premi…. Quello che stanno facendo al Paese però non può continuare a lungo, loro stessi lo sanno, perché non è compatibile con l’idea di vita moderna che la gente desidera, eppure tirano avanti, come se dicessero: finché dura. Alcune delle persone che detengono il potere credono davvero nell’Islam e nel Corano, altri invece ne approfittano soltanto perché questa idea di stato e religione integrati ha creato delle condizioni favorevoli alle loro carriere mentre tanti altri ne sono stati danneggiati. Ahmadinejād è stato eletto presidente perché ha promesso maggiore ricchezza ai ceti sociali più poveri, soprattutto distribuendo i proventi del petrolio e creando un fondo per i giovani meno abbienti. Per il resto, lui è molto abile nel creare situazioni complicate, a fare dichiarazioni roboanti per poterne poi gestire gli effetti mediatici e celare il fallimento delle sue politiche economiche e sociali. Adesso che l’economia è evidentemente in crisi e le promesse di Ahmadinejād non sono state mantenute, anche l’Ayatollah Khamenei e le altre autorità religiose hanno iniziato ad avere dei contrasti con il governo, dopo che per anni l’hanno benedetto a svantaggio dei candidati riformisti delle elezioni del 2005 e del 2009.
– Se ti liberassero quale sarebbe la prima cosa che faresti?
Un film, ho tre sceneggiature già pronte, sono un regista, il cinema è la mia vita. Amo fare film e li voglio fare però alla luce del sole, non di nascosto ma nel modo in cui lavoro, tra la gente, nel mio paese. Raccontare l’Iran standone fuori mi sembrerebbe una menzogna, non sono d’accordo con chi se ne va, io resto qua. E poi non saprei dove andare. Negli Stati Uniti? Nel 2001 ero in viaggio per l’Argentina e facemmo scalo a Washington, lì volevano prendermi le impronte digitali solo per farmi passare da un terminale all’altro dell’aeroporto, io mi rifiutai e così fui costretto a tornarmene indietro. L’anno dopo mi invitarono al festival di San Francisco, dissi che ci sarei andato se non mi avessero preso le impronte digitali, mi fecero sapere che non era possibile ed io risposi che a quelle condizioni non lo era nemmeno per me. Non riuscirei vivere in un paese che ti obbliga a cose del genere. Sono legato all’Iran, alla sua gente, ho una grande curiosità per il mio paese, per le storie che si annidano nelle sue vie, nelle sue case. Dopo aver girato“Lo specchio” nel 1997 capii che la società iraniana, a partire da un film, iniziava a rendersi conto di se stessa, di quello che le stava accadendo e, infatti, da allora per me sono cominciati i primi problemi. Nei primi anni 2000 mi invitarono ad andarmene dall’Iran ma io non volli, come non ho voluto in seguito, lasciare il paese nelle mani di queste persone.
– In Iran alle donne è vietato cantare e a tutti vengono imposte forti limitazioni.
La gente non condivide il modo in cui è costretta a vivere ma tace per paura, nel privato fa cose che in pubblico non potrebbe minimamente fare, a casa cambia il modo in cui parla, si veste, si relaziona, è costretta ad una doppia vita, come se vivesse in guerra, nasconendosi da un nemico. In pubblico le persone sopportano e poi si sfogano in privato. Devi pensare all’Italia fascista, a quando nel tuo paese c’era Mussolini e la gente stava attenta a cosa diceva, a chi frequentava, ma all’apparenza tutto sembrava normale sebbene un alone scuro avvolgesse ogni cosa. Tutto questo non va bene ma, in generale, siamo in una fase storica in cui i governi hanno dichiarato guerra ai cittadini, anche se ovunque ci sono dei punti di luce, delle speranze.
– Cosa ne è stato di tutte quelle persone che sono scese in piazza negli ultimi anni per protestare contro il governo?
Molte di loro vivono una situazione simile alla mia, siamo stati messi sotto pressione psicologica dai giorni delle proteste di piazza, è una precisa strategia per neutralizzarci. Vivendo cosi puoi arrivare ad impazzire, a qualcuno è accaduto, non sai dove puoi stare, dove sentirti al sicuro. Per rilasciare questa intervista tu ed io avremmo dovuto chiedere il permesso ad un ufficio ministeriale. L’anno scorso due giornalisti tedeschi hanno avuto molti guai col regime, avevano intervistato il figlio di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna condannata a morte per adulterio, e sono stati arrestati.
– Cosa accadrà in Iran nei mesi a venire?
Il futuro è imprevedibile. L’Iran ha una situazione etnica molto complessa, ci sono azeri, curdi, arabi, turkmeni, lur, baluci e tanti conflitti latenti tra loro che potrebbero scoppiare e portare a violenze inaudite. Io mi auspico per il mio Paese una soluzione democratica, graduale ma profonda. Siamo una nazione piena di giovani e tanti di essi nutrono speranza per il futuro, sono loro il nostro futuro. Nel 1979, durante la rivoluzione, io ero alle scuole superiori, con lo Scià si stava molto male e la gente insorse perché non sopportava più quella situazione. Oggi si dice che i rivoluzionari del ’79 sapevano cosa non volevano ma non quello che volevano e che ciò ha portato ai mali del presente. Io posso solo dire che le situazioni complicate, anche all’indomani di una giusta trasformazione, fanno la fortuna dei più opportunisti e spregiudicati. Per tale motivo mi auspico un cambiamento graduale.
– Eppure, malgrado la censura e il resto, l’Iran è un paese con un cinema molto vivo.
Credo che se il cinema iraniano è cresciuto è perché se tu tagli il braccio ad una persona quella inevitabilmente impara ad usare meglio le gambe per compensare la mutilazione. Qui per fare un film devi passare vari livelli di autorizzazioni, ma dalle stesse imposizioni della censura si sono originate le capacità per aggirarla, piuttosto che diventare muti abbiamo imparato a parlare un’altra lingua. Per chi ci sta dentro il cinema è però difficile spiegarne i motivi, non mi sento la persona adatta a rispondere perché ne faccio parte. Io vorrei farlo un film, se mi liberassero andrei da loro e griderei “Fatemi fare un film!”. I soldi li troverei subito, in Iran c’è gente che vorrebbe finanziare un mio film, anche se adesso non lo direbbero mai pubblicamente.
Parliamo del tuo modo di lavorare, tra realtà e cinema.
Per me un film non finisce con la sceneggiatura, in “Oro Rosso” con l’attore protagonista, Hossain Emadeddin, abbiamo continuato lungo tutto il film a cambiare il personaggio e la storia, lui mi dava continuamente spunti. Il tema della frustrazione è venuto molto fuori grazie all’attore durante le riprese, era la sua storia e lui l’ha portata nel film attraverso il personaggio che interpretava. In genere do molto spazio agli attori, non dico mai “Fai così” ma continuo a cercare anche mentre giro. In “Offside” la questione era legare la storia delle ragazze alla partita di calcio, l’evento centrale che si svolgeva realmente – il film è nato dalla passione di mia figlia per il calcio in un paese dove alle donne è proibito andare allo stadio- c’era il problema che ad un certo punto tutte le ragazze avrebbero conosciuto il risultato dell’incontro, così ho dovuto girare non in sequenza ma in tanti pezzi separati, alcuni prima, altri dopo, filmando in mezzo quelli ambientti durante l’evento, il finale l’abbiamo trovato nell’ultima scena in cui le ragazze e i soldati si mescolano alla gente che festeggia per davvero la vittoria dell’Iran. Per me, realizzare un film è un po’ come quando viaggiavo e avevo il problema di come entrare nella realtà di quel posto, di come capirlo bene. Io credo però che non sia importante lo schema finzione-realtà, l’importante è il sentimento di sincerità con cui fai un film. Per questo io non potrei andare all’estero e raccontare da lì l’Iran.
-Nei tuoi film non hai raccontato solo la condizione delle donne nel tuo paese.
La mia poetica non è quella della condizione delle donne ma quella del limite. In “Offside” per esempio, siccome gli uomini possono andare liberamente allo stadio e le ragazze no, io ho voluto raccontare la storia di questo limite. Nei miei film non faccio altro che porre e indagare dei limiti.
FONTE: https://gliasinirivista.org/vietato-filmare-teheran-intervista-a-jafar-panahi/
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